Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Paul Goma “Nel sonno non siamo profughi”

Ott 30, 2010

Paul Goma: “Nel sonno non siamo profughi”, uscita 2010

Il piccolo Paul Goma, bambino attento, smaliziato e felice, figlio di maestri di scuola elementare nel piccolo villaggio di Mana tra gli anni Trenta e Quaranta: ai giochi e agli insegnamenti dei genitori si alternano le offensive e le controffensive militari di un’Europa in guerra, l’oppressione delle ideologie, la deportazione del padre in un campo di lavoro, i sospetti, l’esilio ma anche la scoperta della vita, dei primi amori, della sessualità.
Il villaggio di Mana, quando il 2 ottobre 1925 vi nasce Paul Goma, si trova nella provincia di Orhei, nella Bessarabia romena. Fino a pochi anni prima, il villaggio con tutta la regione faceva parte dell’Impero zarista. Nel 1940 l’Unione Sovietica, a quel  tempo alleata della Germania nazista, impone a Bucharest la cessione della Bessarabia. Mana viene riconquistata dalla Romania nel 1941 e poi ripresa dall’Urss nel 1944. Nel 1991, senza aver mai cambiato di posto, Mana si ritrova nel giovane stato della Repubblica Moldova. A questi cambiamenti e al senso di recarietà che comportano, il paese, come tutta la  Bessarabia, risponde con apparente flessibilità: non protesta e si adatta ma, a guardar bene, non si snatura mai, e chissà fino a che punto questo sia un bene.

Traduzione di Davide Zaffi, Keller editore

Titolo originale: Din calidor, Traduzione dal romeno di Davide Zaffi

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Paul Goma, uno dei maggiori scrittori romeni contemporanei, simbolo della dissidenza antisovietica, si e’ cominciato a parlare nel 1971 quando fece arrivare clandestinamente in Germania e in Francia il manoscritto di Ostinato. Primo romanzo sul gulag e sullo stalinismo in Romania, fu pubblicato da Gallimard e da Surkhamp mentre in Italia un altrettanto grande editore ritenne piu’ opportuno lasciare la traduzione nel cassetto. Sei anni dopo, segnato da lunghi periodi di confino e di carcere per le sue prese di posizione contro il regime, lo scrittore firmatario di Charta 77 e di due provocatorie lettere aperte a Ceausescu fu espulso dalla Romania dove si è dovuto aspettare il 1991 per veder pubblicato Arta fugii. Apparso l’anno prima in Francia, come le altre opere di Goma che nella capitale francese viveva dal 1977 in una dignitosa solitudine e poverta’, questo bellissimo romanzo segnalatomi dagli intellettuali romeni esuli a Parigi che intervistai sul dopo Ceausescu, mi conquisto’. Al di la’ della testimonianza legata alla Storia, c’era il dramma di un incessante esodo nel proprio Paese, vissuto con un amore della vita e uno sforzo continuo di salvare la dignita’ della condizione umana che viene raccontato come altrettante variazioni musicali di un tema universale, purtroppo tanto attuale.

La veranda della casa dei miei genitori a Mana e l’ombelico

del mondo.

Mi piaceva tutto di laggiu e di allora, e tutto ritorna, dopo

ampie deviazioni perfettamente circolari, dopo partenze definitive

– laggiu e allora.

L’ho definita una veranda, affinche s’intenda di che si tratta. In

realta la casa aveva quel che aveva, ma quella cosa non veniva

chiamata veranda, ne prispa, ne pridvor (slavismi da contadino);

la casa non aveva un cerdac, con un eventuale giamlik (turcismi da

mercato). La nostra casa di Mana, signori, aveva un calidor.

Benche papa mi avesse dottamente spiegato, da maestro di

campagna qual era, “da dove e per quali vie la parola era giunta a

noi” (dai francesi, tramite i russi), e benche piu tardi, all’Universita,

avessi accettato l’evidenza filologica – il francese corridor era

divenuto, in russo, karidor, ed era poi passato in questa forma

nella Bessarabia russificata, dove il rumeno l’aveva… ammorbidita

– l’etimologia proposta dalla mamma, la prima che avessi mai

sentito, era tanto piu seducente delle altre, da dover essere necessariamente

anche quella vera:

Calidor, vale a dire: bella nostalgia”.

…Vale a dire: il greco kalě (bella) e il rumeno dor (nostalgia),

s’incontrano per strada, alla fontana, si vedono, si piacciono, si

prendono, si sposano (come la mamma della mamma, la greca

che ha sposato Popescu il rumeno, mio nonno) e dalla loro unione

scaturiscono non solo la mamma e suo fratello Niculae, ma

anche la nostalgia cantata, sospirata, lamentata fra Nistro e Prut

dopo il 1812, piu che in qualsiasi altra terra rumena caduta e

tenuta sotto il giogo straniero: bella nostalgia, quella particolare

nostalgia che ti prende, comprende, straprende quando (dall’alto,

dal calidor) con lo sguardo annebbiato dal dolore vaghi laggiu,

verso occidente, dove avverti il Prut, fiume fatale che ci ha tagliati

in due, ha separato fratelli e sorelle, ha amputato il giardino –

da quando i moscoviti maledetti, i russi voraci, gli ortodossi pagani

ci hanno fatto a pezzi il paese, rubando una meta del Principato

di Moldova e battezzandola: Bessarabia…

Troppo poco tempo e solo durante qualche avvenimento decisivo

sono stato per davvero nel calidor (ma poi: come puo calidor

venire dai francesi, visto che a loro manca il fondamentale – e

dolce – verbo stare?) e tuttavia ritorno sempre, senza pause e senza

sforzo verso quel medesimo punto di partenza: il calidor.

Certo: la pittura, la letteratura e specie la poesia – hanno

dipinto, cantato, consacrato un altro punto di-partenza, di-osservazione:

la finestra. Da detenuto l’ho conosciuta e frequentata e,

a modo mio, celebrata – ma il calidor… A misura di quanto me

ne allontano, da quel punto-di-partenza, mi avvicino al punto-diarrivo,

essendo per me il tempo come il cammino, circolare.

Come quasi tutti i bambini di sesso maschile, sono sempre stato

piu legato alla mamma, con il cordone ombelicale intatto. Forse

e per questo che il luogo del mio ritorno non e l’interno vero e

proprio, come per i non-ancora-nati, ma il calidor, quel vestibolo

aperto sui due lati, quel fuori ravvicinato e non definitivo, quel

luogo all’aria e alla luce e all’ombra e al caldo interiore, esposto

alle aggressioni – ma mai mortali: puoi sempre fare un passo

indietro, al riparo – riparo rifiutato, ad esempio, a Rilke, Poeta-

Figlio di Pieta “Ora che stai riverso, sul mio grembo / ora non ti

posso piu partorire”.

Mia mamma non mi ha messo al mondo, mi ci ha portato:

non mi ha espulso, mi ha accompagnato, per mano. E quando

poi se ne e andata, si e ritirata, quando e rientrata lei per sempre

dentro sua madre, proprio mentre toglieva la sua mano dalla mia,

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con l’altra mano mi metteva, nell’altra mia mano, la mano di mio

figlio Filip. Dopo tredici anni di agonia il corpo della mamma si

era rimpicciolito, il volto le si era concentrato, riavvolto, assumendo

i tratti di un neonato; tredici mesi piu tardi mi arrivo

Filip con un volto da vecchina, come tutti i neonati – ma non con

uno qualsiasi, proprio con quello della mamma mentre se ne

andava.

Cosi, per mano, da, nel e verso il calidor della casa di Mana:

ombelico del mondo. Ossario del mondo.

LA CASA

Ho detto: “la casa dei miei genitori” benche essa non fosse di loro

proprieta ma dello Stato, del Paese, in quanto costituiva un’ala

della scuola. Avrei dovuto dire “casa natale”? No, neppure cosi:

sono nato all’alba del 2 ottobre 1935, “in un altro luogo”, circa venti

metri piu in la, verso la strada, in una capanna di terra, ricoperta

di paglia, comprata assieme al terreno per la scuola. Di conseguenza

la casa paterna non apparteneva ai miei genitori e neppure

era la mia casa natale.

E tuttavia e a causa della nostra casa che papa ha indugiato e

non si e unito alla prima ondata di profughi diretti oltre il Prut,

all’indomani di quell’infausto 28 giugno 1940, quando sono state

cedute ai russi la Bessarabia, la Bucovina ed Herta. Ha perso un

sacco di tempo, non ha saputo decidersi… fino a che si e fatto

troppo tardi. Quando siamo arrivati al Prut, i cielovechi (rimanessero

tutti ciechi!) avevano gia chiuso la nuova frontiera. Come

diceva nonno Jacob: “Neanche avete messo i piedi nel Prut-Giordano

che gia vi avevano battezzati: sovietski grajdan, cittadini

sovietici! Io e la mia vecchia almeno non abbiamo sudato per

strada: il grajdan ci e caduto in testa…”

≪Papa, perche non siamo partiti subito con i primi profughi,

quelli del ’40?≫ gli ho chiesto appena sono stato in grado di fare

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una domanda cosi. ≪Non sapevate quel che ci aspettava sotto

l’Occupazione? Sotto i bolscevichi?≫

Papa si gratta a lungo sotto il cappello – non l’ha mai portato,

ma come l’avrebbe portato bene!

≪Per sapere, lo sapevamo, ma una cosa e sapere per sentito dire

e un’altra e provarlo sulla propria pelle. Sapevamo a sufficienza,

non solo da quel che riferiva chi era venuto a rifugiarsi qui, da

questa parte del Nistro, specialmente all’epoca della carestia in

Ucraina verso il ’32-’33, ma sapevamo anche quel che non avevamo

dimenticato noi del posto. Dove credi che abbiano iniziato i

russi la loro rivaliutzia?≫

≪A Pietrogrado – l’incrociatore Aurora, il Palazzo d’inverno –

e poi avanti e poi lotta, come dice…≫

≪Se fosse stato solo questo, solo laggiu… Il brutto e che quando

e iniziato il terremoto, parlo di quello del febbraio, una parte

del loro fronte era in Moldova. Quando i moscoviti hanno sentito

che l’epoca dei boiari, dei borghesi, dei pope e degli zar era finita

e che presto avrebbero ricevuto la terra…≫

≪…hanno abbandonato le trincee e ci hanno lasciato di fronte

ai tedeschi con decine di chilometri di fronte scoperto…≫

≪Diciamo dieci, a esser buoni… ma credo che fossero centinaia.

Ma come puoi fargliene una colpa? Perche Ivan di Tambov o

di Simbirsk dovrebbe dare il suo sangue per Iaşi e Falticeni? Pero,

abbandonando il fronte, potevano andarsene subito a Simbirsk e

a Tambov dai loro borghesi e dai loro boiari… Invece hanno

cominciato a instaurare la giustizia secondo il nuovo stile bolscevico

qui in Moldova… Dovevamo abbattere il re e fare una

repubblica… sovietica! Solo questo ci mancava… In Moldova

c’era miseria, depredazioni russe e il tifo… Quel che hanno fatto

da noi, in Bessarabia… Non era un depredare, come in guerra,

ma come in tempo di pace russa: bevevano vino, vodka fino a che

annegavano nelle locande allagate e poi sparavano su tutto quello

che capitava a tiro… Insomma dei veri russi!≫

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