Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Romania. “Dicembre 1989. Da quando niente sarà più come prima”…

Dic 18, 2014

FOTO: Micaela Ghitescu

Romania. Dicembre 1989. Da quando niente sarà più come prima (dal libro “Tra oblio e memoria” di Micaela Ghitescu, Rediviva 2014

Cari lettori vi proponiamo di seguito alcuni testi dal libro Tra oblio e memoria di Micaela Ghitescu (pubblicato in Romania da Humanitas il 2012 ) tradotto in italiano dalla scrittrice Ingrid B Coman è presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino ed altri eventi letterari (Milano, Roma ecc.) Il libro è uscito presso la casa editrice REDIVIVA(2014) di Milano con il sostegno dell programma TPS dell’Istituto Culturale Romeno di Bucarest.

Un libro di memorie intenso e commuovente, che trascende la storia personale e diventa la storia di un popolo intero. Scritto da una professionista della traduzione – Micaela Ghiţescu – il libro è più del racconto di una letterata, quasi un manuale di storia.

Romania. Dicembre 1989

da quando niente sarà più come prima.

L’avevo già detto: alla fine dell’ 89 tutto si era inasprito, era diventato sempre più faticoso vivere. Sopravvivere. Morire. Ha ancora senso parlare della nostra vita pietrificata nel buio, nel freddo, nella paura e nella menzogna, e in privazioni inimmaginabili per chi non le ha vissute? Avevo perso mio marito. Quante volte, in quei tempi oscuri, ci eravamo detti: «dobbiamo resistere. Dobbiamo farcela. Sopravviveremo a loro, questo è poco ma sicuro!». Ma lui non era sopravvissuto “a loro”. Ero da sola, in casa e nella vita, quando il comunismo internazionale ha cominciato a perdere colpi. L’unico legame con l’estero erano Europa Libera, la bbc e La voce dell’America.

Erano anni che non sentivamo più la radio romena, non guardavamo più la televisione, dove persino il bollettino meteo era manipolato. A Bucarest, in alcuni quartieri residenziali, si poteva ricevere la televisione bulgara; la gente aveva cominciato a imparare il bulgaro, si faceva la fila davanti alla compagnia aerea bulgara per copiare il programma tv settimanale, esposto generosamente in vetrina. Eravamo dunque al corrente di ciò che succedeva, non si parlava d’altro: i “paesi-fratelli” si liberavano ad uno ad uno. Del resto, come potevamo non accorgerci che qualcosa aleggiava nell’aria? La città di Bucarest era di fatto pattugliata da gruppi di tre o quattro poliziotti e soldati accompagnati da cani poliziotto. Erano piazzati a tutti gli incroci, addirittura sulle strade secondarie. Avevano proibito la circolazione delle macchine persino su via della vittoria. Eravamo tutti un fremito… pieni di speranza… ma anche disperati.

Una domenica mattina (17 dicembre), incontro in piazza Amzei una coppia di amici. Parliamo dello stesso argomento diventato ormai un’ossessione. Chiedo:

– E da noi? Comincerà forse qualcosa anche da noi? non dimenticherò mai lo sguardo del mio amico, lo storico Şerban Tanaşoca, perché è di lui che si tratta, e nemmeno la sua risposta:

È già cominciato. Due giorni fa. A Timişoara. L’ho sentito dire a Europa Libera. Corro a casa, accendo la radio. In effetti, era cominciato. Inutile dire che nei giorni successivi (17-20 dicembre) eravamo tutti attaccati alle nostre radio. Europa Libera trasmetteva ormai 24 ore su 24. Avevano intercettato un uomo che era riuscito ad attraversare il confine con la Jugoslavia: raccontava, piangeva. Avevano anche recuperato una registrazione, sulla quale si potevano distinguere colpi di arma da fuoco, voci concitate, grida. E una voce di donna: «Romeni, romeni come noi…». La sera del 20 di dicembre suona il telefono: «Corri ad accendere la televisione!». Ceauşescu, rientrato dopo la visita lampo in Iran, stava per rilasciare una dichiarazione importante. Per qualche istante – ingenua! – spero che rassegni le dimissioni (gli altri capi comunisti degli stati vicini l’avevano fatto!). Errore! Con a fianco la moglie e i fedelissimi del Comitato Centrale e del governo, annuncia dure rappresaglie a Timişoara per punier «i teppisti che avevano attaccato un’unità militare». Sullo schermo della mia televisione in bianco e nero, sembravano tutti vestiti di nero, come dei becchini…

Non riesco più a sentire la radio: si è rotto il cavo. Devo proprio farla aggiustare. Il giorno dopo decido di andare al ristorante dell’Unione degli Scrittori, con la scusa di voler pranzare. Era un luogo dove – nonostante tutte le stanze (persino i piatti e i posacenere) fossero tappezzate di microfoni – si aveva l’occasione di incontrare gente, scambiare idee, sapere qualche cosa. Chiedo a un amico, scrittore come me, di accompagnarmi. Ci avviamo a piedi, si trova a pochi minuti da casa mia. Avvicinandoci a via della vittoria, osserviamo uno strano scenario: uomini che trascinano bandiere, ritratti e slogan scritti su tela rossa, corrono in tutte le direzioni. A un certo punto, un camion carico di soldati passa su via della vittoria (come avevo già menzionato, vietata al traffico). Poi riusciamo a distinguere grida, canti. Erano circa le 13.

Sapevo che Ceauşescu aveva convocato una grande manifestazione popolare per le 12. Di fatto, l’intera Bucarest si era riversata nelle strade. Ma quelle grida…

Era davvero «Timişoara» ciò che la gente scandiva? E il canto, era davvero «Svegliati, romeno!»1, inno vietato, ciò che sentivo? Sovreccitati, ma ancora increduli, arriviamo all’Unione. Là, un’effervescenza unica. Ci raccontano cos’è successo, la famosa “scena del balcone” – che avrei poi rivisto centinaia di volte in televisione.

Decidiamo di andare a vedere, in piccoli gruppi. La strada verso la piazza del Palazzo è sbarrata da cordoni di polizia che ci fanno deviare verso la piazza dell’Università. vedo per la prima volta gli “agenti antisommossa”. Mi avvicino a un poliziotto e gli chiedo, con aria innocente, cosa succede. Mi dice: «Gente di Timişoara è arrivata per fare confusione a Bucarest». Indico gli “agenti antisommossa”, come se si trattasse di loro, e aggiungo, con la stessa finta innocenza: «Perché da Timişoara? Per quale motivo? Perché dovrebbero far confusione a Bucarest? E come mai sono vestiti così?». Innervosito, il poliziotto taglia corto: «Circolare, andate a casa e smettete di fare tutte queste domande!». Arrivo in piazza dell’Università. nel frattempo i miei accompagnatori si sono dileguati. Resto da sola in mezzo alla folla. Incontro i genitori di Radu Filipescu, il giovane che aveva fatto diversi anni di prigione per aver infilato dei volantini nelle cassette delle lettere di alcuni condomini. Avevano conosciuto mio marito, erano allegri, concitati: «Radu deve essere anche lui qui, da qualche parte. Un’idea sciocca, questa di Ceauşescu, di radunare così tante persone!». Attorno a me gridano: «Abbasso il comunismo!». «venite con noi!». Ho paura. Quelli che gridano si trovano in mezzo alla strada. Io sono sul marciapiede. Sì, ho paura. Faccio un passo per scendere, poi ritorno sul marciapiede. non riesco a decidere. A un certo punto la gente si stringe intonando “Hora Unirii”1. Mi rincuora: “Hora Unirii” non era vietata. Scendo dal marciapiede… e mi unisco alla hora.

Da quel preciso istante, non ho più avuto paura. Mai più. Ora grido anch’io, a squarciagola. Che gioia poter gridare forte «Abbasso il comunismo!», «Abbasso il calzolaio2!», «Abbasso la scienziata3!», «Ieri a Timişoara, oggi nel paese intero!», «Timişoara. Timişoara. Timişoara!». Ci sorvolano gli elicotteri. vengono accolti con insulti. “Gli agenti antisommossa” formano uno sbarramento, ma senza avanzare. La gente li incalza: «Siete romeni anche voi!», «noi siamo il popolo, voi chi state difendendo?». Rimangono immobili. Guardano altrove. Una giovane, un vecchio con la barba lunga, offrono loro dei fiori. Ridiamo. Siamo felici. Continuano a distogliere lo sguardo. La folla aumenta. ogni tanto è divisa dal passaggio ad alta velocità di un carro armato. Fischiamo, rompiamo le righe, poi rientriamo. Sento: «In piazza Romana hanno cominciato a sparare. Ci sono dei feriti». Molti vorrebbero avviarsi da quella parte. Tento di fermare quelli vicino a me: «Qui siamo al riparo: l’Ambasciata Americana è a due passi, l’hotel Intercontinental è pieno di stranieri». Alzo lo sguardo. Dai balconi dell’albergo ci stanno filmando e fotografando. Mi ricordo di Praga 68: dalle foto e dai filmati avevano identificato i manifestanti, che in seguito sono stati arrestati. Indosso un cappellino di lana viola, riconoscibile da lontano. E allora? no, non ho paura. È una giornata mite (una vera primavera in pieno dicembre), si sta bene. Ci mettiamo in ginocchio e preghiamo per i morti di Timişoara. Porto stivali con tacchi alti, la borsa troppo ingombrante è pesante: mi inginocchio e mi alzo con difficoltà. E come se non bastasse, indosso un cappellino viola. decisamente non sono gli abiti adatti per una Rivoluzione…Arriva un giovane con la testa fasciata. Gli avevano sparato? no, era stato picchiato; calpestato, massacrato a calci. Elicotteri. Carri armati. Agenti antisommossa sempre immobili. no, il massacro di Timişoara non verrà ripetuto a Bucarest. La vicinanza delle ambasciate, l’Ambasciata Americana…

Comincia a fare buio. Cerco di telefonare a casa dove mia zia ottantenne, rimasta sola, sarà preoccupata, sapendomi in città. Il telefono pubblico all’angolo di Sala dalles non funziona. Sono le 17.20. A malincuore decido di tornare a casa. Imbocco la strada verso il viale Gheorghiu-dej (oggi Regina Elisabeta), passando davanti all’Università.

È difficile farsi strada in mezzo alla folla. Mi fermo più volte per gridare, cantare, fischiare, pregare. (Alle 17.30, in piazza dell’università, all’angolo di sala Dalles, sono caduti i primi morti di Bucarest: 13, falciati da una mitragliatrice. L’ho saputo molto più tardi, una targhetta sul muro e una candela restano a testimoniarlo. Ero stata, di nuovo, protetta.)

Inizio a camminare lungo il viale, sul marciapiede di destra. Dall’altra parte della strada, camion pieni di soldati, carri armati, attendono allineati, quasi vicini alla mia via. Un numero imponente, ancora in attesa di ordini. Non ho paura per me, ma l’idea mi spaventa. Mi viene in mente il cavo della radio. In piazza Kogălniceanu entro in un negozio di riparazioni per farlo aggiustare. «viene dall’Università? Che cosa sta succedendo là?». «Sta succedendo qualcosa di buono». Gli spiego che, senza il cavo, non riesco a sentire la radio. Me lo sistema all’istante; no, non devo pagare niente…Arrivata a casa, raduno gli inquilini, racconto loro quello che so, li esorto ad andare il giorno dopo, molto presto, in piazza dell’Università. Mi raccontano, a turno, la “scena del balcone” vista in televisione, incredibile. Telefonate. Alcuni amici sanno già, ci sono stati, altri sono ancora là. Altri, molto semplicemente, sono increduli. Ripensandoci oggi, non capisco come avevo potuto immaginare allora che i carri armati, il numero schiacciante di soldati e agenti antisommossa, fossero lì soltanto per intimidirci, per farci tornare nelle nostre case, e che, dopo una notte di tregua, sarebbe stato sufficiente essere più numerosi il giorno dopo per vincere. (In realtà, era morta tanta gente, c’erano stati molti feriti, arresti, torture). La mattina dopo riparto. Ripercorro la strada della sera prima, in senso contrario. I carri armati, i camion pieni di soldati sono spariti. La gente, per strada, sta andando nella stessa direzione. nessuno parla: regna la diffidenza. Qualcuno grida da un balcone: «Hanno suicidato Milea! ». non ho idea di chi sia. Me lo dicono le persone attorno, per strada: il ministro delle forze armate! (a tutt’oggi, dopo tanti anni, il caso non è stato risolto: suicidio o assassinio?). Arrivo nelle vicinanze di piazza dell’Università. Alla luce del giorno, il paesaggio è diverso: i carri armati, i camion ora si trovano in mezzo alla folla. Sono atterrita. In controluce, non riesco a distinguere chi sono quelli arrampicati sopra: soldati? Sono forse riusciti a mettere in ginocchio la folla? Il rumore è insostenibile, ma non capisco cosa stiano gridando. A un tratto, una bandiera viene fatta sventolare sopra un carro armato: una bandiera bucata nel centro! Allora sono i nostri! L’esercito è passato dalla parte della popolazione! Sono strafelice. ora sono in mezzo alla folla:«Urrà, urrà, urrà, Ceauşescu non c’è più!». Si canta, si grida, si prega, si ride:«Svegliati, romeno!». Una sconosciuta mi prende per il braccio: «Sono da sola, le va se restiamo insieme?». «Anch’io sono da sola». Non ci saremmo separate per tutta la mattinata. non so nemmeno chi fosse. non l’ho mai più rivista. Chissà se un giorno leggerà queste pagine…Partiamo, i carri armati in mezzo a noi, verso il Comitato Centrale. Siamo sempre più numerosi. Una fiumana. La gente, dai balconi, dalle finestre fa ampi gesti con le mani, sventola le bandiere bucate. Li chiamiamo: «Unitevi a noi!». Il tempo è bello, fa caldo, come mai in questa stagione. In piazza del Palazzo non c’è più spazio nemmeno per uno spillo. (Là dove, per un raggio di molte decine di metri, ci era stato vietato l’accesso…).Un elicottero ci sorvola, lascia cadere una pioggia di volantini: «Studenti, cittadini, non fatevi ingannare dai nemici. Stringetevi attorno al compagno Ceauşescu». La folla è scossa da una risata fragorosa. Mi trovo all’angolo del Comitato Centrale. Non ho la visuale sul tetto, non posso vedere l’atterraggio dell’elicottero e nemmeno il “loro” imbarco.

Ma la notizia passa di bocca in bocca e lo sanno già tutti. «Urrà, urrà, urrà…». Alcuni si precipitano all’interno del Comitato Centrale. Lanciano ritratti dalle finestre. Ma anche documenti, dossier. «non distruggete I documenti!». La gente comincia a gridare nomi come «Doina Cornea»1, «Mircea Dinescu»2, «Ana Blandiana». (Nessuno grida «Ion Iliescu» e nemmeno «Petre Roman»3…). Ridiamo, piangiamo, ci abbracciamo, sventoliamo le sciarpe, i cappelli. Le macchine, che riescono a fatica a farsi strada in mezzo alla folla, hanno le luci accese, suonano i clacson. Suonano le campane delle chiese. Un signore mi chiede: «Lei è felice, signora, non è vero?». Un altro mi mostra un proiettile raccolto da terra. Risalgo via della vittoria per andare a trovare la mia vecchia professoressa di francese (arrestata insieme a me, nel “lotto francese”, condannata a vita, rilasciata con l’amnistia del 1964; da allora si era rifiutata di vedere tutte noi, le sue alunne): ha 86 anni, so che abita sempre in via della vittoria, ma non esce mai di casa. All’angolo dell’hotel Athénée Palace, due automobili del corpo diplomatico: l’Ambasciata di Svezia e l’Ambasciata di Francia. Una signora svedese mi porge un ramoscello di abete (ce l’ho ancora oggi). L’Ambasciatore francese, sporgendosi quasi del tutto dal finestrino della macchina, saluta con ampi gesti. La gente si precipita a stringergli la mano, a parlargli. non so nemmeno io come mi ritrovo con le labbra sulla sua fronte…(Sua Eccellenza Jean-Marie Le Breton. L’ho rivisto a Lisbona, dove è stato nominato ambasciatore dopo l’incarico a Bucarest. Successivamente ha pubblicato un libro: La chute de Ceausescu). La mia professoressa, una signora che non usciva quasi più di casa, si trova sulla soglia, con un bastone in mano, pronta a uscire, per mischiarsi nel tumulto della Rivoluzione. Tenendola per il braccio, la accompagno, piano e a piccoli passi, davanti alla piazza del Palazzo, facciamo un giro e poi la riporto a casa. In preda all’euforia, vedo solo persone euforiche attorno a me. La capitale, il paese intero sono felici: era caduto il comunismo. Mi incammino verso il Palazzo dei Telefoni: vorrei telefonare in Italia, a mia cugina, che per me è sempre stata come una sorella maggiore. Le porte sono sbarrate, e arriva un messaggio dal piano di sopra: «Hanno fatto una strage a Sibiu!». La gente si raduna attorno a quelli che possiedono una radio portatile. «Li hanno presi?». «no». Brividi…(Eppure i coniugi ceauşescu erano stati arrestati quel pomeriggio stesso, il 22 dicembre, ma nessuno ci aveva detto nulla. Quelli che si preparavano a prendere il potere per instaurare anche da noi un “gorbaciovismo” dovevano seminare il terrore fra la popolazione – la cui violenta reazione alle grida di «abbasso il comunismo» li aveva colti di sorpresa – per poter recitare la parte dei “salvatori”. abbiamo saputo dell’arresto dei coniugi Ceauşescu soltanto il 25 dicembre, il giorno stesso del processo e dell’esecuzione sommaria!). Arrivo infine a casa, ma sono pronta a tornare in piazza del Palazzo dove avevano preannunciato una manifestazione per le ore 17. In televisione fanno appelli allarmanti: «A tutti gli abitanti nei pressi della Radio e della Televisione: venite a difenderci contro le bande di terroristi che stanno avanzando verso la capitale!». La sede della radio si trova a cinque minuti da casa mia: ci vado. Ma non hanno bisogno di me: I soldati sono già ai loro posti, le strade sono intasate di tram e camion. Dopo un po’decido di rientrare a casa. Si è fatto tardi, mi tremano le gambe. ora è troppo tardi per andare alla manifestazione, del resto trasmessa in diretta alla televisione. “Il Proclama alla nazione” comincia. A un tratto si sente sparare. La Biblioteca Universitaria è stata incendiata: Il Palazzo Reale (Il Museo nazionale) è in fiamme. Il “presidio” del balcone del Comitato Centrale resta però illeso. Che sta succedendo?

Poco dopo, si sentono sempre più vicini, attorno a me, gli spari come se venissero dal cortile stesso di casa mia, probabilmente l’eco degli spari nella sede della Radio. A parte un paio di brevi tregue durante il giorno, gli spari ricominciano appena si fa buio e questo si protrae per alcune notti di fila. (La guerra elettronica! non avevo mai incontrato quel termine prima di allora.)

In televisione, alla radio, siamo bombardati di continuo da false notizie: l’acqua è stata avvelenata; i terroristi sono arrivati al quarto piano della Televisione; si arrampicano sui tetti, si nascondono sui ponti; sparano da ogni posizione; non accendete le luci; venite a difenderci… ecc. ecc. (Nel frattempo i coniugi Ceauşescu venivano arrestati, di terroristi neanche l’ombra e più di 1.000 persone uccise, dopo il 22 di dicembre).

Questa è un’altra storia. Una storia triste e orrenda, di cui nessuno si è mai ritenuto responsabile. E che ha imbrattato di fango e sangue la nostra gioia di allora.

Eppure, nessuno mi potrà mai portare via quella gioia. E ciò anche se sono seguiti dei momenti (giorni?) difficili, come le manifestazioni contro il regime di Iliescu (il neogorbaciovista) e le contromanifestazioni organizzate da costui, ma su tutto questo si è già scritto abbastanza.

Tratto dal libro Tra oblio e memoria di Micaela Ghitescu, p. 220-228. Rediviva 2014

MICAELA GHITESCU. “Tra oblio e memoria” di Micaela Ghitescu. Traduzione dal romeno Ingrid Beatrice Coman;

Micaela Ghiţescu è nata il 18 luglio 1931 a Bucarest. È figlia di Maria Eliza (nata Papacostea), laureata in Lettere, e di Constantin Ghiţescu, medico chirurgo. Nel periodo in cui era studente è stata arrestata all’interno del famoso “lotto francese”, formato da allieve e insegnanti del Liceo francese. Ha scontato una condanna politica di tre anni (1952-1955). Si è laureata in filologia all’Università di Bucarest nel 1957; visto il divieto di esercitare la professione di insegnante, è stata, nell’ordine, operaio specializzato, traduttore tecnico, documentarista in un istituto di ricerche farmaceutiche, poi redattore principale presso la Biblioteca Centrale Pedagogica. Dal 2003 è redattore-capo della pubblicazione «Memoria» – la rivista del pensiero arrestato. È stata membro nel Consiglio dell’Unione degli Scrittori e presidente della sezione traduzione dell’Associazione degli Scrittori di Bucarest. Ha pubblicato oltre 80 volumi di traduzioni da diverse lingue (portoghese, spagnolo, francese, tedesco e inglese) per le quali ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti.

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