Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Raconti, Ingrid Beatrice Coman

Nov 14, 2008

Racconti, Ingrid Beatrice Coman

Sei capace di fare una rana?
A mia nonna Maria, che mi ha insegnato il rispetto per la vita.

Più di un’ora che la stanno massacrando e ancora si muove, come se la vita, nel frastuono dei calci e delle grida, non trovasse il punto giusto da dove uscire. “Ancora ti muovi, schifosa?” ripete ostinato Matteo, corrugando la fronte e facendo svolazzare i suoi ricci rossi mentre picchia con la punta della scarpa nel ventre della creatura. Cerca di dosare i suoi colpi in modo da ucciderla senza spaccare la pelle bianca e tenera della sua pancia: gli hanno appena regalato gli scarponcini scamosciati chiari, se ne è vantato per tutto il pomeriggio, e non vuole sporcarli. Poi Sandro, che non ha problemi di scarpe nuove perché indossa sempre quelle usate del fratello maggiore, gli calpesta i piedini fino a farli diventare una cosa sola con la terra, tanto che sono affondati nella polvere grigia e sembrano le radici di qualche pianta esotica.
Solo la testa è rimasta intatta, con gli occhi che rifiutano di chiudersi e sembrano fissare il mondo in stupita attesa. Mi mette paura sapere che sono ancora vivi, sembra che mi sgridino e mi accusino; avrei voluto che le sue palpebre si abbassassero come quelle delle bambole quando le metti giù. Io non partecipo alla spedizione punitiva e le mie scarpette di vernice rosa sono salve. Taccio e guardo. Ma il mio silenzio pende dalla parte sbagliata. Non ho il coraggio di contraddire i miei compagni maschi. Una bambina educata deve andare d’accordo con tutti.
La rana non si muove più. Il freddo le ha paralizzato anche gli ultimi spasmi. Ce l’abbiamo fatta: l’abbiamo uccisa, quattro scarponcini e un silenzio impaurito hanno cambiato il suo destino di piccola ranocchia curiosa e saltellante e scaraventato la sua vita chissà dove.
Ricordo ancora le parole del libro di zoologia: solo pochi esemplari di girini sopravvivono, gli altri vengono mangiati prima che diventino adulti. Già, ma se poi il girino più vivace e coraggioso, l’eroe di tutti i girini, una volta adulto, deve fare i conti con gli scarponcini di due bambini annoiati? Questo il libro non lo diceva.
Sandro si pulisce gli stivali sull’erba, insistendo ostinato sulla punta. Per un attimo ho l’impressione che cerchi di scrollarsi di dosso l’anima della rana, rimastagli appiccicata allo stivale nella confusione dell’assalto, e d’istinto controllo anche le mie. Poi allungo il passo verso casa dietro ai miei compagni.
Entriamo e Matteo corre da mia nonna a raccontare il suo gesto eroico, come per chiedere un premio al valore o almeno una fetta di torta alle mandorle. Vedo gli occhi lucidi della nonna e capisco che il premio di pasta sfoglia non ci sarà. Lei mi cerca con lo sguardo senza dire niente. Poi prende Matteo per le spalle, si abbassa fino a che i loro visi quasi si sfiorano, faccia a faccia, costringendolo a guardarla negli occhi.
“Sei capace di fare una rana, tu?”
“Ehmmm….no” balbetta Matteo, gli occhi sbarrati e il disegno della bocca piagnucolante.
“Allora non puoi neanche ucciderla!” Poi prende i due amici, schiacciati spalla contro spalla dalle sue mani decise e li mette fuori dalla porta. Per un po’ rimangono ancora uniti, come se quell’inaspettata punizione li avesse resi siamesi, più fratelli nella paura che nell’eroismo.
Poi Matteo tira su col naso, piagnucolante, e si mette a correre verso casa, senza vittoria e senza trofei di pasta sfoglia, deluso e umiliato come un guerriero che di colpo si accorge del suo cavallo finto e della sua armatura di carta pesta. La luce fuori si sta indebolendo, ma non abbastanza da non farmi notare la macchia scura che si allunga sui suoi pantaloni di velluto celeste, imbrattando le sue scarpe nuove. Ecco, il mio eroe preferito dai boccoli ramati si è appena fatto la pipi addosso.
Sandro lo segue, svogliato, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni deformi, più dispiaciuto per il gioco interrotto che per i rimproveri di mia nonna. Dà un calcio a un sasso, sputa con enfasi e se ne va senza fretta. Chiudo la porta dietro di loro, soffermandomi su ogni movimento, come al rallentatore. Potrei stare qui a chiuderla e aprirla tutta la notte, penso, finché le sue e le mie giunture non cederanno. Sarebbe infinitamente meglio delle parole che devo affrontare fra poco. Come sono corti certi minuti, finiscono prima ancora di cominciare, nemmeno il tempo di sbattere le palpebre una volta. A volte immagino il tempo come la mia gomma americana da allungare e accorciare come voglio.
Ma la nonna non mi sta guardando. I suoi occhi verdi sono abbassati su un ricamo di fiori d’arancio.
C’è già la cena pronta ma lei non mi farà compagnia stasera.
Decido di andare a letto senza mangiare. E’ come se volessi punirmi da sola per redimermi dalla rabbia silenziosa di mia nonna e dal fardello inutile del mio senso di colpa. Mi chiedo se sognerò le rane stanotte, o gli scarponcini di Matteo battezzati dalla pipì, o i fiori d’arancio infilati nell’ago di mia nonna che sembrano farfalle, o una porta da aprire e chiudere per l’eternità. Sono stanca e i pensieri mi scivolano sotto le coperte come la polvere che scaccio sotto il tappeto quando tocca a me scopare il salotto. Ho sonno. Chissà mai che l’anima di quella ranocchia non si sia posata sulle mie scarpette rosa, nella confusione della sua morte? Dopo tutto, erano le uniche pulite… La stessa luce di un pomeriggio di novembre, lo stesso fruscio indefinito di vento e voci indistinte, tra foglie secche e stracci abbandonati sul campo. Ma in mezzo a queste giornate gemelle di un autunno qualunque c’è uno spazio grande abbastanza da farci stare vent’anni di vita, seppure un po’ stipati insieme, come vestiti ingombranti in una valigia troppo piccola.
Seguo il generale Freddi da due giorni; devo consegnare il servizio su di lui prima di venerdì e non ho ancora scritto niente. Sono stanca della sua arroganza e del suo sguardo ammiccante quando ci troviamo a cena. E’ tanto convinto del suo fascino di cinquantenne snellito dalla divisa quanto delle sue doti militari. Sorrido e mi fingo lusingata, la sua benevolenza mi serve davvero in questo momento: se non consegno questo dannato articolo, stavolta potrebbero anche sbattermi fuori dal giornale.
“Sì, lo voglio il caffè, grazie”, dico, benché sappia di catrame e mi terrà sveglia anche stanotte.
Ma Freddi non fa in tempo a sfoggiare le sue buone maniere e io, la corteggiata di turno, rimango senza il mio caffè davanti a un’inattesa notizia sussurratagli nell’orecchio da un soldato di guardia.
Si allontana in fretta, dimenticandosi di me; non so perché, ma mi alzo anch’io e lo seguo, come se fossi legata a lui da una corda annodata per gioco. Lui non si accorge e non si gira; ho il fiatone, non è facile stargli dietro e per un attimo quasi desidero che la corda ci sia davvero, per trascinarmi al passo delle sue gambe lunghe e allenate.
Poi finalmente si ferma e posso tirare il fiato.
Devo piantarla lì di fumare, penso, e cerco un posto per sedermi, ma gli spari mi fanno saltare di nuovo su.
Raggiungo il mio generale: il bersaglio del suo piombo impazzito è un giovane soldato dalla pelle olivastra sdraiato a faccia in giù sulla sabbia.
La rabbia di Freddi alimenta se stessa, a ogni colpo segue uno più forte, come in un crescendo di una sinfonia maledetta che sai già che finirà con un improvviso silenzio. Il generale continua a sparargli con accanita forza, ma stranamente quel corpo straziato continua a muoversi, come se la sua anima fosse rimasta intrappolata, nella confusione di quella pioggia di pallottole, e non riuscisse a trovare il punto giusto da dove uscire.
“Ancora ti muovi, schifoso?”, grida Freddi, picchiando con la punta dello stivale nel fianco dell’uomo. Ma forse lui nemmeno si accorge più, scaraventato chissà dove, mentre il suo corpo è lì, steso nella polvere, a muoversi senza di lui, nelle convulsioni di quei lunghi minuti.
Le sue mani sono immobili con i palmi all’ingiù, come se improvvisamente cielo e terra si fossero capovolti e lui temesse di cadere. D’un tratto penso alle zampe della rana e alla facilità con cui la carne si mescola alla terra, sempre e ovunque.

L’uomo non si muove più. Giusto in tempo per non sprecare un altro caricatore, penso. Freddi mi ha visto, ma mi volta le spalle e si incammina verso la tenda. Se fa in fretta, troverà il suo caffè ancora caldo.
Davanti alla tazza di alluminio, ancora fumante, mi accorgo che il mio generale si aspetta parole buone ed esige la mia ammirazione, come anni fa Matteo pretendeva la torta alle mandorle. Mi guarda con un sorriso nuovo, illuminato dall’espressione vincente dei suoi occhi, e in quella carica di adrenalina che li fa brillare come di luce propria, io ci vedo le fiamme dell’inferno.
E’ pronto a rispondere alle mie domande fatte su misura, che contengono già le risposte giuste come cioccolatini pre-incartati.
“Lei è capace di fare una rana, generale?” gli chiedo, senza aspettare risposta.
Poi mi alzo e lo lascio lì, con il suo caffè che sa di asfalto rovente, la sua smania da eroe e la sua armatura di carta pesta.

Chi ha detto che l’inviato di guerra è uno spettatore innocente? Chi l’ha detto?
Non scriverò questo articolo; questa lode spiccia all’eroe nostrano, queste parole che mi si appiccicano in bocca e sulle dita come una gomma americana masticata troppo a lungo. Non lo farò, nonna.

Mi chiedo se sognerò le rane stanotte, o gli stivali rabbiosi del generale, inzuppati di fango e sangue, o i giornali freschi di stampa appesi su interminabili fili sopra il fronte, come lenzuola stese ad asciugare. Sono stanca e i pensieri mi scivolano sotto le coperte come l’inchiostro in mezzo ai fogli piegati dei miei appunti.
Ho sonno. Chissà mai che l’anima di quel ragazzo non verrà a posarsi tra le mie braccia stanotte?
Dopo tutto, sono l’unica donna al campo…

L’odore del pane

Saranno quaranta o forse più davanti a me stamattina. Già, perché sono arrivata alle sei e avrei dovuto essere qui un’ora prima. Ma ho dormito male stanotte. Pensavo all’insegnante di storia che mi avrebbe interrogato, alla sua spietata avarizia di voti, alla sua faccia che non sorride mai e non riuscivo a prendere sonno.
Ora che sono qui in fila da quasi un’ora, con la brina bianca sui capelli che scendono disordinati da sotto la cuffietta di lana, le mani infilate nelle maniche del giubbotto perché i guanti mi sono rimasti piccoli, batto i piedi sulla neve come in una marcia da ferma e mi sembra di non ricordare più nulla. Il prof Petrescu coglierà trionfante il mio silenzio, trasformandolo in un altro quattro meno da infilzare con la sua penna consumata come un trofeo di caccia.
I miei stivali troppo grandi, con la punta un po’ sgualcita, non reggono il morso del freddo e sento indolenzito il ditone del piede destro, là dove stamattina ho scoperto un buco grande come una monetina da un leu. Fortuna che gli altri non possono vederlo.
Cinque minuti ancora e finalmente aprono la porticina della panetteria. L’odore del pane ci avvolge e ci unisce, e questa coda di persone freme e si muove con un sussulto, come un grosso animale assopito sotto il primo vento caldo. Respiro profondamente e mi lascio andare al profumo di pane panciuto e bianco. Porto le mani viola alla bocca e ci soffio dentro per scioglierle, come per prepararle ad accogliere le razioni che spettano alla mia famiglia. Penso che in fondo sono fortunata: fare quel tragitto in mezzo ai palazzi assonnati con in mano le due pagnotte gemelle appena uscite dal forno mi fa sentire importante. Ogni volta penso ai miei fratellini che stanno ancora dormendo, e questo mi aiuta a resistere alla seduzione da capogiro del pane appoggiato sul cuore dentro al mio giubbotto per tenerlo caldo, mi aiuta ad aspettare con pazienza il mio turno per mangiarlo.
Sono l’ultima della fila, gli occhi fissi sul movimento di questo drago scuro senza testa che comincia a sciogliersi lentamente. Escono i primi, le spalle piegate, chiusi sulle loro razioni di pane che custodiscono con cura, come per difenderle da invisibili nemici nel buio ancora fitto del mattino e si allontanano in fretta.
Fra poco toccherà a me ed è fatta anche oggi. Sto contando alla rovescia, ventuno, venti, diciannove persone davanti a me; diciannove schiene curve che pendono in avanti su quel miracolo quotidiano mai scontato di farina, acqua, lievito di birra e fuoco.
Quasi non mi accorgo che qualcuno mi sta spingendo di lato, fuori dal ventre di quel animale eccitato, come un corpo estraneo. Ecco, sono fuori dalla fila.
“Che diavolo succede?” mi giro di scatto soffiando le parole come per sgomberare lo spazio che mi appartiene di diritto da più di un’ora.
“C’eravamo prima noi” mi dice il vecchietto dalla bocca sdentata e le guance scavate. “C’elavamo plima noi” ripete con tenera convinzione la bambina che si tiene stretta alla sua mano, alzandosi in punta di piedi come per sembrare più grande e guardandomi con dolce impertinenza. Il giubbino troppo lungo per lei, le mani piccole avvolte in due guantoni deformi e buffi che sembrano ricavati da due vecchi calzini riciclati. Avrà al massimo quattro anni e la testolina bionda fasciata in uno sciarpone da adulto sopra il cappellino di lana la fa sembrare Cappuccetto Rosso travestita.“C’elavamo…” ribadisce, poi tira su col naso, si ferma e inciampa nelle parole come in una corda troppo alta da saltare.
Loro sono appena arrivati e lo sanno. Mi stanno imbrogliando e mi chiedo se la loro fame vincerà sulla mia. Intanto la fila si muove in avanti, impassibile e sorda. Ora mancano soltanto dieci persone. Sono le sette e mezza e fuori si intravede un timido accenno di luce.
“E va bene, c’eravate prima voi” dico, fingendomi sconfitta, e li lascio passare. Mi guardano stupiti, dopo tutto non si aspettavano una vittoria così facile, ma fanno un passo deciso in avanti, affrettandosi a prendere il mio posto. La bimba si stringe al polso del vecchio, affondando la testa nelle pieghe del suo cappotto. “Hai vizto, nonno?” faccio ancora in tempo a sentire, poi la coda si spinge con forza in avanti, come colta da un improvviso spasmo. Siamo vicini ormai e sugli scafali di legno ingiallito aspettano le ultime pagnotte, sparse come soldatini a cui è appena stato ordinato di rompere le righe.
Sette, sei, la mia matematica spiccia diventa impaziente e vorrei saltare i numeri, due, poi uomo e bambina scivolano via con in mano due pagnotte e finalmente tocca a me. Mi fanno male i piedi calpestati nella fretta di uscire.
“E’ finito” mi dice, con tono impersonale e sollevato la commessa robusta che sposta le ceste vuote ammucchiandole in terra.
“Finito… cosa?” chiedo e il suo sguardo mi inchioda sulle labbra la mia domanda, così stupida che non pretende nemmeno risposta.
E’ tardi. Devo tornare a casa per prendere i libri e correre a scuola per la lezione di storia delle otto. I miei stivali slabbrati scricchiolano sulla neve e ho ancora addosso l’odore pungente del pane, ora diventato pesante come una promessa non mantenuta. Tiro su col naso, mi dimentico della mia fame e penso a cosa dire alla mamma.
Vent’anni dopo, una mattina di dicembre milanese, sono in una panetteria dai mille profumi e seduzioni di farina, con il sempre difficile compito di scegliere fra tanti gusti. Prendere il pane alla zucca, quello morbido e irresistibile al latte, con le olive o l’uvetta, croccante o tenero, bianco, giallo, scuro.
Ho quasi fatto, prenderò quello ai cereali, quando qualcuno mi spinge di lato, con un movimento lento ma deciso.
Mi giro e vedo una donna di mezza età, elegante e raffinata, dall’espressione dolcemente pigra sotto il trucco perfetto.
“C’ero prima io” mi dice, senza nemmeno guardarmi, puntando il dito sul pane da prendere da sotto il morbido cappotto di cachemire.
E’ questione di un minuto, penso, il pane è tutto lì ancora e avrò i miei panini integrali solo scalati in là di qualche secondo.
Sette, sei, la mia matematica spiccia diventa impaziente. Cinque, quattro. Mi sposto in avanti e riprendo il mio posto sotto lo sguardo indignato della donna.
“No, signora” le dico, con tono gentile ma sicuro, “c’ero prima io…”


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