Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Percorsi di instabilità nella letteratura della migrazione romena (2)

Ott 15, 2013

Disturbi dissociativi: sdoppiamento, moltiplicazione, allucinazione

Come già sottolineato nell’introduzione, il trauma della migrazione dà luogo a imprevedibili configurazioni e paesaggi mentali: chi sceglie di affrontare la spaesante avventura sperimenta molteplici fratture nella psiche e infinite lacerazioni nel tessuto identitario. Di fronte a un radicale bouleversement interiore la coscienza di sé si scinde generando due mondi separati, incomunicanti e incompatibili. Come spiega Losi, essere profugo o migrante significa “trascinarsi dietro un lunghissimo, forse interminabile, «doppio»” 29 ma anche accettare in sé “l’esplosione di una miriade di unità e sottounità multiple”.30
La dissociazione dell’io pone spesso di fronte a un insanabile aut-aut. Così scrive lo scrittore francofono Tzvetan Todorov:
La mia doppia appartenenza produceva un solo risultato: ai miei stessi occhi caricava di inautenticità ciascuno dei miei discorsi, perché ciascuno di essi non poteva che corrispondere alla metà del mio essere, oppure io dovevo essere doppio.31
A tal proposito uno degli autori italofoni che più tematizza sulla figura del doppio come proiezione di un conflitto interiore irrisolto e come schizofrenica impossibilità di ricomposizione del Sé è proprio Monteiro Martins:

Vivere in esilio

[…] Ci sarebbe un me stesso
ad aspettarmi
nella terra di
partenza.

Inutile attesa,
disguido.
Se c’incontrassimo oggi
non
potremmo
riconoscerci.
Una vita è marmo di Carrara,
l’altra è sabbia.

Un uomo si pietrifica
Mentre l’altro si sfalda. […] 32

Come in questo componimento, anche nel racconto inedito del 2011, Il punto cieco, partendo dall’esperienza autobiografica di esiliato forzato, lo scrittore dà vita ad un proprio alter ego, immaginandosi la scissione al momento della partenza dal proprio paese. È nel “punto cieco”, epifanica discontinuità spazio-temporale, che le due parti imboccano due strade diverse: una avrà un destino più umile ma anche più pieno nel nativo Brasile mentre l’altra un destino di realizzazioni professionali nell’agiata Toscana, destino che è però serpeggiato da una sotterranea inquietudine:
Nel momento in cui il timbro del poliziotto brasiliano batté con un colpo sordo la carta del passaporto, Julio Cesar cessò di esistere per sempre.
Davanti alle vetrine scintillanti e ai balconi variopinti del Free Shop c’era un perplesso Julio, più straniero che mai, senza curiosità, senza soldi da sprecare in oggetti di lusso e senza più il Cesar del suo antico nome (e comunque Julio Cesar sarebbe stato trovato troppo magniloquente per gli standard europei).
[…] Si sono separati a quel bivio irreversibile, Julio e Cesar, molti anni fa, davanti alla dogana dell’aeroporto, e poi ognuno ha seguito la propria strada, sempre più inaccessibile allo sguardo dell’altro.
Julio e Cesar, due vite. Fino a che la morte, nel suo clemente oblio, li ricongiungerà in qualche eternità.
Cioè, se mai riuscirà a farlo. Se le eternità non saranno diventate a quel punto anch’esse plurime e intraducibili.33

La ricorrenza del doppio nella letteratura occidentale, come teorizzato da Otto Rank, 34 è incarnazione del sentimento di perdita: tanto è insopprimibile il dolore che gli si dà corpo, creando attraverso le parole, un individuo autonomo, alternativo al proprio io. Su di lui si proiettano sicuramente le scelte mai compiute. Il doppio è poi anche personificazione del senso di colpa: Monteiro Martins, come egli stesso ha spiegato,35 è perseguitato nei sogni dalle presenze familiari, ormai trapassate, che gli rimproverano l’essersene andato. Non a caso questo suo sentimento prende la via autopunitiva visto che s’immagina rimasta in patria la sua parte migliore.
Il doppio, dunque, funge qui da meccanismo di “scarico di responsabilità” e da valvola di sicurezza per non farsi sopraffare dal dolore e dallo struggimento del ricordo.
Effetti come ancora più inquietanti si hanno in un altro racconto inedito che tematizza sul tema del ritorno in patria, dal significativo titolo Rimpatrio. 36 In esso Monteiro Martins spinge all’estremo la rappresentazione delle devastanti conseguenze e lacerazioni che feriscono la psiche del migrante e che vi lasciano segni invisibili e indecifrabili in superficie, segni che si perdono nel volgere di un’apparente normalità.
Al rientro nella propria patria (o è solo un ritorno sognato?), un paese dai contorni sfumati che trasfigurano nel fantastico, Jamil, apprende l’amaro cambiamento dei luoghi della propria infanzia in cui “niente [è] al posto giusto, da nessuna parte, qualsiasi cosa uno [cerchi]”. L’immersione del protagonista nella lettura di un libro è l’occasione per essere proiettato in una dimensione al confine tra sonno e veglia, straniamento e allucinazione, sempre più assorbito in un groviglio d’inconscio e di sogni che si intrecciano come liane. Egli vaga tra squarci di scene deliranti che mescolano presenze familiari con il bizzarro, mentre è sempre più preso dall’assillo di un’imminente ritorno in patria, da una salvezza ormai inutilmente invocata:
Sesta scena:
Eravamo ospiti nella villa circondata da quel terreno dove si bruciavano uomini vivi. Non mi ricordo come o perché eravamo finiti lì, nella fattoria degli assassini, dopo la notte del cimitero. Chantal, o Esther, non parlava quasi mai, travolta dai suoi pensieri, e io ero nel panico, perché il giorno dopo partiva l’aereo che mi avrebbe riportato finalmente a tutto quello che ero, o credevo di essere, e mi balenava in testa l’ammonimento della funzionaria della compagnia, che se per caso lo perdevo non ce n’era un altro, non avrei più potuto tornare a casa. Quell’aereo mi sembrava ora l’ultima scialuppa di salvataggio, mentre ero ancora lì, cretino che sono, chiuso in quello squallore con quella gente sordida, e non capivo perché non trovavo le forze per andarmene subito, per fare una corsa all’albergo, e da lì all’aeroporto. […] Non capivo me stesso, le mie gambe non mi ubbidivano, ed era tutto inutile, una catastrofe iniziata dalla voglia di mangiare del cibo vero, come ai vecchi tempi, rivelatasi poi una mela avvelenata, o meglio ancora, la mela di Adamo, la mela interdetta.
Quando quell’aereo fosse decollato senza di me avrei perso per sempre il paradiso e me lo sarei meritato.
Quella maledetta bistecca era stata più di una bistecca, la chiave del vortice, del ritorno impossibile. Non potevo non tornare, e al contempo non potevo tornare in un mondo che non esisteva più. Il risultato di questa equazione è zero, il vortice di cui parlavo.
Chantal, la bistecca, la città, erano tutte la stessa e sola cosa, che cominciavo a capire solo ora, troppo tardi, ahimè!
Un cane è passato dinanzi alla villa con in bocca un braccio umano, trovato forse tra la cenere di uno di quei falò. 36

In questo racconto la presenza costante di elementi riferibili ai temi del cibo e della morte (cimitero) tradisce come, trattandosi di un ritorno ormai impossibile, siamo sicuramente nel campo dell’elaborazione freudiana del lutto, simboleggiata dalla difficoltà di digerire i propri “morti”:

Allora gli tornò alla mente un’antica leggenda africana, letta da qualche parte: se uno se ne va e compie un lungo tragitto, può accadere che incontri al mercato di una lontana città individui che a casa loro sono morti e lì si sono ritirati per restare sconosciuti. 37

La presenza invece dei topoi dell’acqua, della caverna, elementi archetipici femminili, ci dicono dell’unico ritorno praticabile per il migrante: quello della re-immersione nel flusso sotterraneo del proprio essere, della regressione amniotica all’infanzia, alla figura materna e quella del recupero simbolico degli affetti familiari.
È un racconto questo che è summa della fenomenologia del disagio sociale migrante: vi si manifestano contemporaneamente la straniante irruzione dell’unheimlich, la paura della perdizione di sé, la difficoltà a riconoscersi , la scissione e la rottura interna degli equilibri ancoranti, il sogno e l’incubo, l’impossibilità del ritorno, la dis-integrazione dell’io, la deriva di brandelli scollati di Sé, ultime vestigia di un’integrità definitivamente compromessa.

Conclusioni

Quando rifletto sulla condizione del migrante penso alla metafora dell’uomo che possiede un grande mazzo di chiavi. Essere straniero è come avere le chiavi di più mondi senza sentirsi davvero a casa da nessuna parte.
Le chiavi delle culture che si acquisiscono nel tempo permettono di accedere a molti spazi concettuali, dove si può entrare ed uscire liberamente, sostare per un po’, ma non abitarvi, non stanziarvisi. Lo smarrimento identitario a cui si va incontro nel traghettamento interculturale ricorda, per ritornare alla metafora abitativa, una fuga prospettica di stanze, una vertigine di specchi infranti, un labirinto di dis-appartenenze, di deformazioni della psiche. Così la letteratura della migrazione si fa portatrice di macerie, di muri sbilenchi, di impercettibili incrinature mentre l’individuo in assenza di una casa-patria sceglie di spazializzare la parola, di adottare come abitazione la scrittura.

Penso qui all’epilogo di un testo classico ormai come Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio di Amara Lakhous 38, testo-emblema della prismaticità dello straniero all’interno di una società che interpreta il migrante secondo un’angolatura sempre diversa fino a spingerlo alla disgregazione identitaria e dis-integrazione del Sé:

Ogni tanto mi prende il dubbio quando penso che passo per buono agli occhi di tutti. Ma che ne sanno? Amedeo potrebbe essere una semplice maschera! Io sono un selvaggio animale che non può abbandonare la sua natura d’origine. […] Shahrazad c’est moi? Lei racconta e io ululo. Entrambi sfuggiamo alla morte e ci ospita la notte. Narrare è utile? Dobbiamo raccontare per sopravvivere. […] Insegnami, mia adorata signora, l’arte di sfuggire alla morte. […]”39

Lakhous scioglie il proprio essere nell’arte del narrare fino a diventare pura percezione, flusso narrativo, fino a lasciarsi esistere regressione. Un processo questo che riguarda molti scrittori e che ha una pars destruens ed una costruens. Lo scrittore migrante, provato nella propria personalità e nella propria psiche, incapace di restituirsi un’immagine integra di sé, sceglie, infatti, di trasferire le proprie membra, il proprio edificio esistenziale e ricostruirsi corpo poetico, sostanza inafferrabile, al riparo dal tempo e dallo spazio. Egli sceglie di ricrearsi nel potere del simbolo. Così, infatti, per molti la poesia, sede di mediazione e di rapprendimento dell’io con il mondo, diventa la nuova patria, il corpo.
Il migrante trova una nuova sede identitaria nella scrittura. Se infatti l’esperienza migratoria sfalda e allenta le fibre esistenziali, scrivere aiuta, per dirla con Losi,40 a ri-narrare, ri-intrecciare, ri-cucire la trama spezzata e dispersa. Si chiama potere terapeutico della parola, della scrittura, del simbolo perché siamo fatti di storie e le “storie che ammalano” possono anche diventare “storie che curano”.41

29. N. Losi, Op.cit., p. 50.
30. Citazione da Magris in N. Losi, Op.cit,, p. 22
31. T. Todorov, L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Roma, Donzelli, 1997, p. 8.
32. J. Monteiro Martins, Vivere in esilio in La grazia di casa mia, raccolta in corso di stampa.
33. J. Monteiro Martins, Il punto cieco, inedito, 2011.
34. O. Rank, Il doppio: uno studio psicanalitico, Milano, SE, 2001, pp. 87-100.
35. J. Monteiro Martins, incontro “Le figure della distanza nella letteratura migrante” del 02/05/2013 nel contesto della rassegna “Macerata racconta”.
36. J. Monteiro Martins, Rimpatrio, inedito.

37. Ibidem.
38. A. Lakous, Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio, Roma, Edizioni e/o, 2006.
39. Ivi, p.129.

40. N. Losi, Op.cit., p. 16

41. Ivi, p. 14.

Fonte: www.sagarana.net

A cura della dott.ssa Valeria Nicu

Nata in Republica Moldova, all’età di 14 anni sono giunta in Italia insieme alla mia famiglia. Diplomata in lingue straniere mi sono poi laureata in Lettere presso l’Università di Macerata con una tesi su Margaret Mazzantini. In procinto di laurearmi in Filologia classica e moderna con una tesi sugli scrittori rumeni italofoni, sono docente di italiano per stranieri e traduttrice presso l’Accademia Internazionale di Ascoli Piceno oltre che interprete e traduttrice per il tribunale locale.

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