Centro Culturale Italo Romeno
Milano

In memoriam. Anca Bratu Minott (1952-2011)

Lug 1, 2011

ANCA BRATU MINOTT (1952-2011)

In memoriam

L’amore della Romania

Anca Bratu è morta a Parigi il 3 gennaio 2011. Era nata a Bucarest l‟11 maggio 1952. È stata sepolta, secondo il suo desiderio, nel cimitero di Botiza, nel suo amato Maramureş. La ricordo in questa sede non solo perché è stata una grande personalità del mondo culturale romeno, ma anche perché è stata lettrice di Lingua romena a Padova (dal 1984 al 1990), quando ne tenevo io stesso l‟insegnamento ufficiale. Ha avuto, tra gli altri, tra i suoi allievi, cinque futuri docenti universitari, Dan Octavian Cepraga, Giuliana Giusti, Alvaro Barbieri, Federico Vicario e Francesca Gambino, e un esperto romenista e traduttore come Mauro Barindi.

Avevo conosciuto Anca Bratu ancora ragazzina in casa dei suoi genitori, in quello che si chiamava allora Bulevardul Magheru (ora nuovamente Take Ionescu), nel cuore di Bucarest. Era il 1968, o ‟69, quando avevo ricevuto una borsa di studio per passare sei mesi (poi diventati un anno) in Romania, e Florica Dimitrescu mi aveva accompagnato in una visita ad alcune amicizie sue e del marito, Alexandru Niculescu. La mia conoscenza con Savin Bratu, professore di Teoria della letteratura all‟Università di Bucarest, e con la moglie Bianca, docente di Pedagogia, si era consolidata col tempo e si era trasformata in vero affetto e amicizia. L‟amicizia sarebbe durata fino all‟improvvisa, tragica scomparsa dei due, nel terremoto di Bucarest del 1977. Nel momento del terribile crollo, Anca (Ancuţa come la chiamavano i genitori e come è rimasta per me, e per alcuni altri, per sempre) era fuori casa. Sarebbe dovuta rientrare poco dopo dal lavoro. Era impiegata a quel tempo nel Muzeul satului, il magnifico museo del villaggio, che raccoglie come in un microcosmo il patrimonio del mondo contadino romeno. Nel pensare alla vita di Ancuţa, al suo destino, non posso non ricollegarla alla figura del padre, amabilissima persona che ero andato tanto spesso a trovare nei tardi pomeriggi bucarestini. Ero quasi sempre accompagnato da un amico portoghese, Adelino Branco, esule politico dal suo paese in Romania, ed eravamo tutti e tre legati da un forte affetto. Il prof. Bratu, che era più vecchio di me (era nato nel 1925), sedeva nella sua poltrona del salotto, e interrogava e intratteneva me e il mio amico, fatti accomodare in altrettante poltrone, su temi diversi, ma in sostanza la conversazione ruotava attorno all‟eterno soggetto: Oriente e Occidente, Comunismo e Capitalismo. Savin Bratu era un ebreo della Moldova, che, alla fine della seconda guerra mondiale, aveva scelto con fervore di diventare comunista e romeno. Per questo, come molti ebrei, aveva anche cambiato il suo cognome originario, che era quello di Raoul Barasch. La sua romenizzazione era stata entusiastica e totale. Posso dire che, così come l‟ho conosciuto, si poteva definire un patriota romeno, il cui entusiasmo era appena tenuto a bada da un sollecito spirito critico. Aveva scritto, tra le molte altre cose, su Mihail Sadoveanu, l‟autore che aveva rappresentato forse meglio di ogni altro la romenità rurale, cioè, la romenità vera, genuina e profonda. L‟idea di un cuore contadino del paese è un canone che vige per tutta l‟Europa orientale, fino alla Russia, e ognuno che abbia letto Tolstoj lo conosce bene. Il prof. Bratu teneva sulla scrivania una bella fotografia che lo rappresentava assieme all‟amato scrittore. Il lettore ricorderà il titolo di uno dei romanzi più famosi di Sadoveanu: Hanul Ancuţei (l‟osteria di Ancuţa): credo che il nome di Anca, e l‟uso del diminutivo, venissero di lì. La signora Bratu compariva e scompariva da una stanza vicina, il bel viso sereno sorridente. Una volta era passata anche Ancuţa, figlia unica, la perla degli occhi dei suoi genitori. Una sera, durante una conversazione, il papà me l‟aveva quasi affidata. Mi aveva detto, senza nessuna solennità: ti prego di occuparti di lei in futuro, da qualunque parte del mondo tu ti trovi, e anche lei si trovi… (era questo un presagio che la figlia avrebbe abbandonato la Romania?). Io spero di aver tenuto fede alla promessa. Della sua originaria fede politica, il comunismo, non era rimasto niente. Savin Bratu se ne faceva anzi beffe, ed eseguiva vere e proprie pantomime a imitazione dell‟intoccabile, anche in privato, capo carismatico, Nicolae Ceauşescu. Come conseguenza della sua assimilazione totale al mondo romeno, si era invece cristianizzato aderendo all‟Ortodossia. Era il 1967, e il battesimo era avvenuto a Botiza, dove ora Anca ha voluto essere sepolta.

Dell‟ebraismo con me Savin Bratu non ha mai parlato, e neanche Anca amava parlarne. Come molti ebrei che ho conosciuto la famiglia Bratu non aveva quasi nessun parente. I genitori della mamma erano stati trucidati nel pogrom di Iaşi durante la seconda guerra mondiale. Secondo Savin Bratu, ed era l‟unica volta che se ne era parlato, gli assalitori romeni erano stati sobillati dai tedeschi che occupavano la città.

Come ero passato dall‟amicizia per il padre alla conoscenza e all‟amicizia per la figlia? Ho dimenticato molti particolari, ma certamente un momento importante era stato il viaggio in cui lei mi aveva fatto conoscere il suo mondo incantato, il Maramureş. C‟eravamo andati, con un‟amica italiana e il suo marito romeno (da cui si sarebbe separata), in aereo da Bucarest, poi in macchina, infine a piedi, accolti generosamente, come lei aveva previsto, nelle case dei contadini del luogo. I villaggi, tutti di legno, erano meravigliosi (un vero altro museo del villaggio a cielo aperto, ma vero!). La popolazione vestiva quotidianamente i suoi costumi popolari. Ancuţa aveva studiato all‟Accademia di Belle Arti, e il Maramureş era stato per lei oggetto di studio (ha scritto un bellissimo libro, adorno di immagini superbe: Anca Pop Bratu, Pictura murală maramureșeană: meșteri zugravi și interferențe stilistice, București, Ed. Meridiane, 1982), ma era anche oggetto del suo amore, che concentrava in sé, come la prosa di Sadoveanu per il padre, l‟essenza dello spirito romeno. Questo concetto di spirito romeno (suflet românesc) può sembrare oscuro, irrazionale, e frutto di un nazionalismo deteriore (come i concetti corrispondenti di Deutschtum, o spirito tedesco, o di italianità, hispanidad, ecc.), ma non è necessariamente così. Contiene in sé come in una sintesi che si rinnova continuamente i paesaggi della patria, il senso profondo che rivelano la sua letteratura e la sua arte, certi tratti diffusi del carattere nazionale, la ferita aperta per le catastrofi storiche subite e l‟orgoglio per essersi saputi risollevare. Io, da straniero, sono stato e sono ancora sensibile a questa specie di nucleo radioso della romenità, anche se mi rendo conto della relatività e precarietà del concetto, tanto più fragile quanto più è radioso. È simile al concetto di innamoramento, e dipende almeno altrettanto da chi si innamora che dall‟oggetto dell‟amore. Come l‟innamoramento, può finire, e, una volta finito, si ha la sensazione di un abbaglio, di un errore assurdo. Ma l‟innamoramento per la romenità non sarebbe finito, nonostante tante tragiche disillusioni, né in Savin Bratu né in sua figlia Anca.

Per Anca il centro di quel mondo radioso aveva un nome: Maramureş. D‟altra parte Anca non era uno spirito irrazionale, al contrario, era colta e occidentalizzata come lo erano i migliori romeni che io abbia conosciuti (e sono molti), ma questo non l‟aveva allontanata da quel nucleo originario, che aveva anzi, come il padre, coltivato e, per quanto possibile, razionalizzato.

In uno dei miei periodici ritorni a Bucarest, dopo la fine del mio soggiorno di studio e dopo il tragico terremoto, sono stato sulla tomba dei genitori di Ancuţa con lei e assieme all‟amico Adelino, che ho ricordato prima (l‟ho cercato invano nel mio ultimo viaggio a Bucarest, circa cinque anni fa). Così i miei rapporti con Anca, che inizialmente erano stati solo indiretti, mediati dalla sua famiglia, si rinsaldavano e diventavano personali.

Il rigore del regime comunista romeno diventava insopportabile. A un certo punto anche Ancuţa, come altri miei amici (la famiglia Niculescu innanzi tutto), lascia Bucarest e la Romania e va a Parigi. Era “scappata”, come si diceva da noi. Era “uscita”, come si diceva in Romania, come se il paese fosse un carcere, e effettivamente lo era diventato. Ho saputo più tardi da lei (e credo adesso di poterlo rivelare) che la decisione di lasciare il paese che pure amava tanto era avvenuta in conseguenza della proposta che le aveva fatto la polizia politica (la famosa Securitate) di poter utilizzare il suo appartamento in sua assenza per interrogatori riservati. Era una pratica che i Romeni che hanno vissuto a quel tempo conoscono, e che io ho ritrovato menzionata in un romanzo di Norman Manea. Ancuţa avrebbe potuto solo accettare la proposta, oppure andarsene. E quest‟ultima cosa fu quello che fece. Arriva così a Parigi nel 1985, e ci si stabilisce tra mille difficoltà e in ristrettezze economiche ben immaginabili.

Io ricoprivo intanto all‟Università di Padova, accanto al mio posto di Filologia romanza, anche la supplenza di Lingua e letteratura romena, dopo che il governo romeno aveva ritirato d‟autorità il lettore di scambio, che era al tempo Ion Neaţa. Ed ecco che mi trovo proprio allora a disporre di un posto di lettore di romeno. Andreia Roman, esule anche lei, che aveva fatto per quattro anni la spola da Parigi, aveva lasciato l‟incarico per la scadenza dei termini di legge. Il profilo scientifico di Anca, specializzata in storia dell‟arte romena, non era quello ideale per questo posto, ma io pensavo che non importasse… e avevo ragione. Conoscevo la sua grande cultura che spaziava in molti campi, la sua dimensione romena ma anche internazionale. Avrei sperimentato la sua capacità quasi magnetica di attirare l‟attenzione degli studenti su quello che lei amava, e quello che lei amava era il mondo romeno. Ancuţa prese così il posto lasciato da una studiosa della taglia e della personalità di Andreia Roman, come lei venendo quindicinalmente da Parigi a Padova. Era il 1984.

La sua permanenza a Padova sarebbe durata fino al „90, perché nel dicembre dell‟„89 sarebbe caduto il Comunismo in Romania, e io desideravo riprendere i rapporti con il paese ridiventato democratico ricevendo a Padova un lettore di scambio, come infatti avverrà. Sarà Laurenţia Dascalu Jinga. Così in quegli anni, in cui la Romania si era allontanata e isolata progressivamente dall‟Occidente, l‟Università di Padova aveva potuto godere della presenza di personalità che rappresentavano degnamente le migliori tradizioni scientifiche del paese. Ancuţa, nel frattempo, aveva preparato la sua tesi di dottorato a Parigi,e si profilava un suo possibile inserimento nell‟Università francese. Le cose sarebbero andate un po‟ diversamente, ma non troppo. Lo vedremo. Arrivata in Francia, dopo un periodo iniziale alla scuola dell‟antropologo romeno naturalizzato francese Paul Henri Stahl, gli studi di Anca Bratu avevano cambiato in parte direzione. La causa doveva essere stata il suo incontro con la scuola delle “Annales”, con Jean-Claude Schmitt e poi con lo stesso Jacques Le Goff. La sua tesi di dottorato doveva essere uno sviluppo della tematica del celebre libro di Le Goff sulla Nascita del Purgatorio (1982). Nel mondo ortodosso, fermo alle risoluzioni del Concilio di Nicea, non poteva nascere un Purgatorio. Ma c‟era qualcosa che poteva, come il Purgatorio, invenzione del basso Medioevo occidentale, attenuare l‟opposizione terribile tra Inferno e Paradiso? La tesi di Ancuţa comprendeva, assieme al testo, un magnifico apparato illustrativo, sia orientale che occidentale (italiano, francese) e si intitolava L‟au-delà intermédiaire dans l‟iconographie occidentale et byzantine, Paris, École des Hautes Études en Sciences Sociales, 1987: era un testo affascinante che avevo letto a suo tempo per intero. Seguirà pochi anni dopo: Images d‟un nouveau lieu de l‟au-delà: le purgatoire. Emergence et développement, Paris, École des Hautes Études en Sciences Sociales, 1992. Una parte del lavoro, comunque, era rivolta al viaggio dell‟anima, un tema precristiano che prosegue nell‟immaginario ortodosso, sia nell‟arte figurativa sia nella letteratura popolare. Credo che purtroppo la gran parte della tesi di dottorato di Anca non sia mai diventata un libro, come avrebbe dovuto per espresso desiderio di Le Goff.

Con la tesi di dottorato, gli interessi scientifici di Anca si ampliavano all‟arte medievale occidentale, italiana e francese. Instancabile viaggiatrice, non mancava l‟occasione di visitare monumenti, musei e mostre in giro per l‟Europa. Intanto riceveva alcuni incarichi di insegnamento di storia dell‟arte in Francia. Ma era una via stretta, difficile. Ogni anno bisognava ricominciare daccapo con nuove domande rivolte a molte sedi, ogni anno era l‟incertezza. Dopo l‟incontro e il matrimonio con Charles Minott, anche lui storico dell‟arte medievale, americano attivo nella sezione parigina della Columbia University, dove anche lei insegna, il soggiorno parigino di Anca prende un andamento più tranquillo. Con la caduta del Comunismo in Romania, Anca ritorna spesso nel suo paese, ritrova vecchie amicizie, quello che credeva perduto per sempre le è ancora possibile: torna ancora in Maramureş. Ma viaggia anche in Italia, soprattutto in Toscana e a Venezia. Scopre la Val d‟Orcia, in Toscana, dove torna periodicamente con Charles.

Non c‟è stato un ultimo incontro tra Ancuţa e me, dopo che avevo saputo della gravità della sua malattia. Ho rimandato, sperando di poterla andare a trovare a Parigi più tardi. Ma non sarebbe più stato possibile. C‟è stata invece un‟ultima telefonata, di quasi mezz‟ora, tra me e Ancuţa, ricoverata all‟ospedale Salpêtrière, ammalata ma ancora piena di vita. Il male terribile che l‟ha uccisa, un tumore al cervello, le aveva concesso una pausa di qualche giorno, una pausa in cui, in perfetta lucidità, ha rievocato con me al telefono alcuni fatti della sua vita, del suo soggiorno a Padova, ha parlato della sua immobilità forzata, ma anche della sua immutata possibilità di parlare le sue quattro lingue: romeno, francese, italiano e inglese. E le ha parlate tutte al telefono con me, le sue quattro lingue, via via che il soggetto della conversazione cambiava e che nuovi ospiti entravano nella stanza d‟ospedale a farle visita e lei si rivolgeva ora a me, ora a loro. Durante quest‟ultimo dialogo ha espresso il desiderio di andare insieme (lei e Charles, mia moglie Laura e io), se mai un giorno sarebbe stato possibile, in Val d‟Orcia. È stato allora che mi ha rivelato il segreto. Quell‟angolo di Toscana era per lei un secondo Maramureş. Lo era, per la bellezza dei luoghi, per la gentilezza degli abitanti, per la sua lontananza , almeno apparente, dal resto mondo. Credo che lo pensasse anche come un luogo, sempre apparentemente, immune dal male che ci circonda dovunque.

Ora Anca Bratu riposa nel cimitero di Botiza, in Maramureş, nel primo dei suoi mondi incantati e immuni dal male, in quella Romania nella quale si era per sempre identificata.

Lorenzo Renzi

Fonte: http://cisadu2.let.uniroma1.it/air/

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