Gente per bene
Ingrid B. Coman
L’accento, ecco, l’accento è importante. Non tradirti, non scivolare sulle parole, tieni solo il sentiero di quelle che ti vengono alla perfezione. Non devono sentire che sei straniero. Ma sopratutto, non devono capire che sei romeno. E poi i vestiti: non puoi permetterti un abito logoro o una maglietta trasandata. Povero e straniero è un pericoloso binomio. Se concedi alla gente di mettere insieme le due cose sei veramente nei guai. Perciò vestiti bene. La giacca grigia, la camicia celeste, benchè un po’ sbiadita dai troppi lavaggi, ecco, così va meglio, sembri quasi un dottore, o un funzionario di banca, un notaio o un professore.
“Cristo, ma io sono un professore!” ti scappa, e scuoti la testa incredulo, perchè ti rendi conto che questa terra nuova e lodata ti ha svuotato le cose di significato, tanto che da qualche settimana sei diventato solo un paio di braccia in vendita al miglior offerente, che in realtà è il peggiore, e anche così resti sempre a terra: magro come sei e con quell’aria da intellettuale patetico, non ti prende mai nessuno a lavorare.
Alla fine il lavoro lo trovi, qualcosa c’è anche per te, basta scendere in basso, sempre più in basso, e prima o poi ci sarà un limite oltre al quale non ci va più nessuno e allora ti ci infili tu, come l’ultimo pezzo scolorito di un vecchio puzzle. Fa niente se ti urlano addosso e quelle parole ti mordono il cuore come mille serpenti, non devi darlo a vedere, se no è tutto perduto, abbassa la testa e ubbidisci, la dignità non è roba da barattare con il pane in questo mondo. Tanto poi passerà anche questo, ti verranno le croste sul cuore e allora tutto sarà più facile.
Il tempo che scorre ti cambia e tu cambi lui, dopo qualche mese le tue mani non hanno più quell’aria fuori luogo da pianista senza pianoforte o pittore senza pennello, con le dita pallide e orfane che tenevi sempre in tasca per non farle vedere. Ora hai dei calli veri, le dita si sono ingrossate e le unghie si sono indurite. I tuoi polpastrelli hanno assaggiato ogni sorta di materia, dal letame da spalare nelle stalle, alla malta da adagiare con cura in mezzo ai mattoni o a al cemento da mescolare nelle betoniere. L’umidità ti ha stortato un po’ le articolazioni, tanto che a volte ti sembra quasi che scricchiolino come cardini arruginiti. Chissà se riusciresti ancora a reggere una penna nel modo giusto, prima o poi forse ci riproverai, ma non ora, non sei ancora pronto a riprendere il filo di ciò che eri, come le briciole di Pollicino, quel cassetto fa male e preferisci tenerlo chiuso.
Quanti mesi sono pasati? Ormai ne hai perso il conto, ma sai che ce ne sono stati abbastanza da cambiare il prefisso degli anni sul calendario, mentre tu continui a camminare in questo mondo che non è più nuovo e forse non lo è mai stato, e non sei più giovane e ti chiedi dove sta andando tutto questo tempo che ti scorre sulla pelle e sul cuore, rendendoli ogni giorno più spessi e più rugosi.
Avevi uno scopo quando sei venuto, o almeno così ricordi, ma ora non ha più importanza, ciò che conta è che adesso c’è qualcuno disposto a caricarti tutte la mattine, anche la domenica, su quei camioncini gelidi di freddo e ostilità. Ora c’è un posto su un cantiere dove puoi portare le ore della tua giornata e riprenderle alla sera in banconote da dieci euro.
Poi sono arrivati i documenti, “ti mettiamo in regola”, ti hanno detto, con il tono di chi sembra che ti conceda la vita stessa e ti vuole grato per l’eternità. Pare che alla fine qualcuno sia disposto a riconoscere che non sei più un’ombra, un fantasma trasparente che nessuno vede e che non poteva bussare al portone di un palazzo decente o alla porta vetrata di uno studio medico, non camminava mai in centro per non incontrare la polizia ed era diventato così abile a strisciare inosservato lungo i muri che a volte i passanti nemmeno lo vedevano e lo prendevano dentro.
Ora esisti, te lo metteranno nero su bianco su un pezzo di carta con tanto di timbri seri e marche da bollo, basta che ti svegli all’alba e ti metti in coda dietro le transenne della questura, pazientemente, senza lamentarti, insieme ad altra gente dai tratti somatici di tutto il mondo ma dalla stessa espressione negli occhi di chi ha imparato ad attendere, e attendere, e attendere, a testa bassa e senza protestare.
“Dietro le transenne!” grida il giovane poliziotto che pare arrabbiato con il mondo intero già alle otto del mattino, “voglio che state tutti dietro le transenne!” Ti urla in faccia e ti da del tu, lo guardi e pensi è così giovane, potrebbe essere tuo figlio o un tuo allievo; se fosse stato un tuo studente magari gli avresti insegnato a usare i congiuntivi…
Ma non dici niente e resti in fila, ubbidiente e rassegnato, non è poi così difficile, dopo tutto ti ricordi ancora come si fa, solo al posto del pane ci stanno le carte d’identità sul bancone, e tu ne hai disperatamente bisogno. Ecco, finalmente ce l’hai, è sottile come un foglio di sigaretta, lo pieghi e lo metti con cura nel portafoglio insieme all’icona della Madonna che tua madre ti ha regalato il giorno della partenza.
Ora esisti, sei in regola, sei a posto, insomma, come ti dicono tutti, benchè tu ti senta ancora quello di prima, magari un po’ affaticato, quel pezzo di carta ti è costato caro, si è preso troppo in cambio, e ti chiedi se non hai forse lasciato anche la tua anima quel giorno negli uffici della questura.
Sono passati tanti anni, hai un po’ di soldi messi da parte e un posto che puoi quasi chiamare casa, eppure questo mondo ancora non ti conosce. Non hai mai potuto parlargli delle cose che amavi, dei canti popolari della tua terra, struggenti e meravigliosi, dei libri che amavi, della cattedra di italiano in quel liceo di periferia, degli sguardi affascinati dei tuoi studenti quando parlarvi loro dell’Italia, del tuo amore per Pirandello e di come sei andato quel giorno a Milano davanti alla casa di Manzoni per vedere se ne potevi cogliere lo spirito nell’aria. E nemmeno questa bellissima lingua è più la stessa. Non è l’italiano elegante e raffinato che trovavi sui libri, qui nessuno parla come D’Annunzio, o Calvino, o Pavese, e la loro lingua è come una vecchia signora dal sangue regale caduta in disgrazia, accovacciata ai bordi delle strade a chiedere l’elemosina, gli occhi vuoti e le mani scarnificate. Le dolci vocali arrotondate, la cantilena perfetta degli aggettivi, le frasi sofisticate e melodiose, tutte cose d’altri tempi che non servono più a nessuno, smarrite nella memoria di questo popolo che non ricorda più nemmeno se stesso. Sono tanti anni che frequenti lo stesso bar, cammini sulle stesse strade, saluti le stesse persone, eppure questa mattina gelida di novembre al bar della stazione il gestore ti ferma sulla porta con fare deciso e sicuro, “senti, noi siamo gente per bene, i rumeni qua non li vogliamo” ti dice, ed è come ricevere un proiettile in mezzo alla fronte. Ti hanno fatto il caffè per dieci anni tutte le mattine, a volte ti fermavi qualche minuto a fumare una sigaretta con lui e parlare del più e del meno in attesa del prossimo treno, ma oggi no, niente caffè per te, e neanche domani, è meglio che giri alla larga, qui non sei il benvenuto.
E ti viene voglia di rifare il baratto al contrario, restituire gli anni di solitudine, l’imbarazzo sui pulman, i calli sulle mani e le rughe sul viso, le corse ai pezzi di carta, lo sforzo sovrumano di farsi accettare, la gioia assurda che hai provato quella mattina che hai strappato un sorriso sul volto diffidente della portinaia, il senso di casa che hai abbandonato e l’amore che hai perduto. Ora basta signori, la vostra benevolenza non mi interessa più, troppo lunga la strada verso il vostro cuore, voglio tornare il professore povero che ero, ridatemi un banco scrostato e un allievo scalzo a cui raccontare una buona storia.
Rivoglio la mia anima.
Sono stanco, torno a casa…