Centro Culturale Italo Romeno
Milano

“AAA Cercasi favola” di Ingrid Beatrice Coman

Mar 29, 2011

AAA Cercasi favola

Ingrid Beatrice Coman

“Mamma, ho visto una stella cadente.”

“Davvero?”

“Sì, guarda: è proprio lì, sopra la nostra casa. Com’è bella…”

Non ho il cuore di spezzare la sua genuina meraviglia davanti a una cosa per lui così sorella del miracolo. È felice, presente a se stesso, come solo i bambini possono ancora esserlo. Sembra rimasto impigliato nella scia fiammante come in un magico filo di seta. Nasino verso il cielo, sgrana gli occhi e sbatte le palpebre eccitato, come per far adagiare quella lucina blu nelle sue pupille.

E allora non glielo dico.

Non gli dico che la sua lucina blu non è una stellina, ma un’aereo da guerra che passa sopra le nostre teste. È l’età dei perché e ogni giorno devo misurarmi con le sue domande così semplici ed essenziali da rendere le risposte quasi faticose. Che cos’è l’acqua? Dove va a dormire il sole? Di cos’è fatto il buio? La mia corsa alle risposte assomiglia alla camminata di un goffo funambolo su una corda allentata.

E così scopri che spesso le parole non sono abbastanza e che devi tirarle, allungarle, modellarle come gomme da masticare per farle bastare a coprire i vuoti delle cose che non si lasciano definire. E non voglio rischiare di scivolare, stasera, sull’improbabile spiegazione che dovrei rimediare davanti all’inevitabile domanda di cosa sia una guerra.

Che parole potrei mai usare per esprimere un concetto così antico, così parte della nostra memoria collettiva, eppure così maledettamente nuovo? Immagino i bambini dall’altra parte del mare che fanno la stessa domanda alle loro madri e penso: sono fortunata, io almeno l’arrangio con la storia della stella cadente; ma là dove le stelle cadenti non portano desideri da esaudire ma piovono sulle case e sugli uomini, così, dal nulla di quel cielo diventato di colpo ostile, che favola si può ancora spolverare?

Certo, c’è la storia dei buoni e dei cattivi, fa sempre comodo e, si sa, i buoni vincono sempre. E abbiamo a disposizione un’intera galleria di lupi cattivi che insediano cuccioli indifesi, streghe malvage che minacciano innocenti principesse, orchi che mangiano i bambini, per dare un volto al nemico da annientare. E se ci metti dall’altra parte un paio di graziose Cappucetti Rossi, qualche tenero capretto, tre porcellini tremanti e una dozzina di Pollicini, il gioco è fatto e non devi nemmeno precisare a chi spetta la vittoria.

Ma nel tuo cuore sai già che non funzionerà ed è tutto solo un grande imbroglio di parole. È come rammendare vecchi calzini che non terranno più caldo a nessuno, perchè i nostri bambini preferiscono camminare scalzi nel loro mondo delle cose da scoprire, piuttosto che indossare la trama piena di buchi delle nostre storie maldestre.

E ti chiedi se le favole siano davvero state scritte per i bambini, o servono piuttosto a coprire gli spazi bianchi della nostra adulta ignoranza.

Forse questo l’hanno capito anche le madri al di là del mare, magari nello stesso istante in cui l’ho capito io: non c’è favola che tenga per spiegare la guerra. Puoi solo abbracciare il tuo bambino, tenerlo stretto a te, nella speranza che la morbida coperta del tuo amore basti per proteggerlo dal male e aspettare in silenzio che tutto questo finisca; che il rombo delle parole altisonanti dei potenti, mischiato a quello dei caccia, smettano di ronzare sopra le loro teste.

Spingo mio figlio dolcemente dentro casa.

Andiamo” gli dico “qui fuori fa freddo”. Lui mi lascia fare, per una volta senza protestare, ma lo sento pensieroso; qualche strano pensiero sembra essersi infilato sotto la sua fronte liscia e acerba, aggrottandogli le sopracciglia.

“Senti, mamma” comincia, come fa sempre quando sta per chiedermi qualcosa di importante.

“Cosa?” gli chiedo, temendo il peggio.

“Ehm… che cos’è una guerra?”

Ecco: proprio quando meno me l’aspettavo, quando pensavo di aver passato il guado ed essere arrivata salva dall’altra parte, mi scopro con i piedi tutti bagnati e la riva ancora lontana.

“Dove l’hai sentita questa parola?” gli chiedo. Sentiamo il telegiornale in cucina e nessuna brutta notizia oltrepassa il confine del suo regno di cartoni animati.

“All’asilo.”

All’asilo?” ribatto, incredula. Non pensavo che la maestra si azzardasse a parlare di guerra ai bambini di tre anni.

“Te l’ha detto la maestra?”

“No, il mio amico Galal. Dice che viene da un paese lontano e la guerra ha mangiato la sua casa…”

Sono in scacco matto davanti ai suoi occhioni interrogativi. Come le madri al di là del mare. Lo stringo a me, baciandogli i cappelli e infilando, di nascosto, una preghiera nella mia carezza.

Non mi va di imbrogliarlo con storie per bambini stupidi. Gli sposto una ciocca dalla fronte, come per prendere tempo, poi mi arrendo alla mia impotenza e gli dico la verità:

“Non lo so, amore…”

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