Ho atteso con grande interesse la pubblicazione in lingua italiana di Identitatea romȃnescă. Felul de a fi romȃn de-a lungul timpului, opera di Ioan-Aurel Pop, storico eminente, Presidente dell’Accademia Romena, nonché Rettore dell’Università di Cluj. Il volume è edito da Rediviva Edizioni, casa editrice che ringraziamo per il tenace, prezioso impegno a favore del dialogo interculturale e la promozione di valori culturali e spirituali condivisi. Arricchito dalla colta prefazione del prof. Cesare Alzati, L’identità romena è una raccolta di saggi, ma anche di conferenze e comunicazioni avvenute in importanti contesti culturali, mediante le quali, sostanzialmente, il prof. Pop ha inteso raggiungere due obiettivi: definire l’identità romena come manifestatasi nel corso del tempo, e difendere la storia patria dagli ormai decennali attacchi tesi a ridimensionare, o addirittura a demolire alcuni dei valori romeni di sempre. Sin dal primo dei contributi ho compreso che l’autore ha dovuto effettuare una prioritaria scelta metodologica: definire la cifra culturale da attribuire all’opera. Da storico di professione, Pop sa che non esiste libro (o conferenza, o intervento pubblico) che possa andar bene per tutti. Infatti, da una parte, lo storico (o filosofo, sociologo, letterato che sia) è portato ad esprimere al suo livello ciò che produce, interessando così soprattutto i colleghi e le persone di una certa levatura intellettuale. Dall’altro, ogni studioso si augura di arrivare al maggior numero di persone, in modo da contribuire alla diffusione della conoscenza, al miglioramento culturale generale.

E’ quest’ultima la strada scelta dall’autore: l’opera di cui parliamo è di una chiarezza e di una fruibilità esemplari. Pop voleva raggiungere il grande pubblico, i romeni come anche chi sa poco o niente di Romania, e che perciò continua a prestare fede ad alcuni triti cliché e ad ignorare il patrimonio culturale e umano della Nazione romena.

E’ altresì chiaro che cosa abbia motivato, ad un livello interiore, più profondo, la scelta di seguire la strada della divulgazione: leggendo Pop ci si convince che, al di là degli intenti culturali e didattici, l’elemento propulsivo di quest’opera sia costituito dal profondo amore che egli nutre per la sua terra e il suo popolo.

Tutto più facile, allora? No, perché quando si parla di se stessi, si corre il rischio di diventare buonisti, indulgenti, parziali insomma. Nessuno può scrivere sulla storia e sull’identità del popolo di cui fa parte nel modo in cui tratterebbe di un’altra Nazione, di altre genti. Ma Pop è consapevole di ciò, e il suo rimane un approccio scientifico, alimentato – questo sì – dal sentimento di appartenenza, e mai slegato dal buon senso, un concetto che gioca sempre un ruolo importante nella metodologia critica.

Pop sa bene come la disinformazione, la denigrazione, la negazione dei valori della storia patria e dell’identità nazionale possano alimentare la sfiducia dei romeni verso il presente e il futuro della loro storia. E ammonisce: “Se continuiamo a demonizzare noi stessi, se ci mettiamo sempre la cenere in testa, finiremo per odiarci tutti, in maniera endemica. Se continuiamo a vantarci di essere stati, una volta, i migliori, e poi ci lamentiamo di essere stati colpiti da un incantesimo universale, o saremo troppo euforici o irrealistici o manipolabili”.

La dimostrazione e la difesa dell’identità romena operata da Pop è ad ampio raggio, e investe la storia passata come quella recente, alcune importanti istituzioni (come l’Accademia Romena), letterati della caratura di Cantemir, Coşbuc, Eminescu e Blaga, simbologie rilevanti (come l’inno nazionale), realtà geografiche e socio-storiche (come la “biografia” della città sassoni della Transilvania). Io mi concentrerò sui contributi tesi a definire l’identità dei romeni (e il ruolo avuto in questo processo dal cronista Dimitrie Cantemir) e sulle osservazioni di Pop riguardanti la creazione poetica di George Coşbuc.

Un primo passo per mettere ordine in quest’ambito è costituito dal chiedersi da dove un popolo proviene e chi è, in altre parole definire nel miglior modo la dimensione storica dei romeni. Preliminarmente, Pop si sbarazza delle teorie estreme, come quella autoctonista e quella modernista, adottando una saggia (e motivata) soluzione intermedia. L’identità romena, osserva, è il modo di essere e di sentirsi insieme sulla base di elementi come la lingua, l’origine, la cultura, la religione, il territorio, le usanze. Le numerose e autorevoli ricerche realizzate dagli storici romeni di ogni tempo conducono a delle conclusioni che non dovrebbero più dare adito a dubbi; i romeni sono un popolo formato da tre elementi etnici di base: quello autoctono, ovvero i traco-daco-geti; l’elemento conquistatore e latinofono, i romani; l’elemento migratorio, ovvero gli slavi. Il territorio dove questo processo ha avuto luogo è una vasta area del Basso Danubio, a nord e a sud del fiume, dove i tre elementi etnici, in diversi periodi storici (si parte dal I-II secolo d.C. per arrivare ai secoli VIII-IX) si sono incontrati e fusi. Esplicito anche il prosieguo della disamina: il nome “Paese Romeno” (Țara Romȃnească) risale al periodo tardo romanico, fu ereditato in modo stabile e continuo dal primo voivodato libero, situato tra i Carpazi e il Danubio, e diventò sinonimo di Terra Romana.

E sempre in modo chiaro e definitorio: 1) il termine “romeno” si registra per la prima volta nei secoli XII-XIII; 2) questa designazione depone come elemento di identità, di consapevolezza di esistere come gruppo etnico; 3) essendo però la dimensione romena medievale ancora piuttosto frammentata, nel XVIII e nel XIX secolo le élite intellettuali laiche ed ecclesiastiche svolsero un grande lavoro per definire meglio il processo di formazione dell’identità nazionale, rafforzandola e diffondendola presso tutte le classi sociali.

Pop non trascura nessuno degli elementi fondanti dell’identità romena, e fra questi attribuisce un giusto rilievo alla religione ortodossa. Liquidando alcune tendenze faziose e radicali della modernità, che vorrebbero negare su base ideologica delle evidenze storiche millenarie, l’autore ribadisce la contrarietà ad ogni forma di riduttivismo umanistico, stabilendo fermamente il fattore religioso come elemento ontologicamente presente nell’animo romeno e tale da caratterizzarne la dimensione e l’identità storica.

D’altra parte, quando Pop ci ammonisce a riconsiderare l’importanza del fattore umano nella storia, conferma il pensiero di intellettuali come Aleksandr Solgenitsin, come Václav Hagel, ovvero personalità consapevoli della disastrosa idolatria dell’Uomo come essere superiore autonomo, in grado di possedere l’unica e sola verità del mondo. E’ stato Václav Havel a scrivere, in Disturbing the Peace: a conversation with Karel Huizdala, (New York, 1990): “Sento che questo antropocentrismo arrogante dell’uomo moderno, che è convinto di poter conoscere e dominare ogni cosa, costituisce in qualche modo il retroterra della crisi attuale. Mi sembra che se il mondo deve cambiare in meglio, si deve cominciare a mutare la coscienza umana”. E’ esattamente quanto troviamo nel contributo di Pop intitolato Pensieri sulla Romania, quando scrive: “Cambiare in meglio la Romania non sarebbe difficile, a prima vista, se cambiassimo in meglio noi stessi”.

Il ruolo del fattore umano ci riporta, inevitabilmente, alla metodologia della ricerca storica. E’ necessaria, qui, una breve digressione. Il primo problema che si pone è quello del determinismo, cioè di quanto siano influenti nel processo storico tutte le componenti della realtà: il caso, il ruolo dell’individuo, la psicologia delle masse, eccetera. In genere gli storici concordano nell’adozione di un determinismo moderato e dialettico, ovvero nell’ammissione che esistono tanto avvenimenti regolari quanto casuali. Che peso ha, in questo processo, la libera volontà dell’individuo? Pur respingendo la teoria dell’uomo come assoluto creatore della storia, Pop ammette che il ruolo delle personalità eminenti è importante e indispensabile. I condizionamenti naturali e sociali non impediscono alla libera volontà dell’uomo di realizzare azioni che in alcuni casi si ergono a cause principali degli eventi storici. Questa impostazione, trattata solo parzialmente da Hegel, ed esaminata più profondamente da Marx e dagli esponenti dello Storicismo tedesco, è condivisa da Pop: è impossibile negare che le grandi personalità si pongano come gli organizzatori che iniziano e accordano le azioni di altri individui. La storia della Romania ne è un esempio eclatante e Pop non manca di rimarcare il ruolo svolto da intellettuali e politici romeni nella creazione di una coscienza nazionale, ruolo che ha trovato un eccezionale organo di propulsione nell’Accademia Romena.

Giustamente, Pop sottolinea che “l’Accademia aveva manifestato la vocazione della Romania unificata prima ancora che questa esistesse come stato nazionale unitario. Il progetto nazionale è stato alla base dell’Accademia Romena nel XIX secolo, quando i suoi padri fondatori unificarono il Paese prima sotto l’aspetto culturale, offrendo all’élite romena un modello d’integrazione politica e territoriale”.

Ancora, Pop precisa che nel 1866, quando la Luogotenenza dei Principati Romeni Uniti decise di creare la Società Letteraria Romena, i 14 fondatori provenivano tutti da province sottoposte a un dominio straniero! A questi si aggiunsero presto nomi che non lasciano dubbi sul ruolo che alcune grandi personalità giocano nella fondazione di un’Unità nazionale: Vasile Alecsandri, Costache Negruzzi, Ion Heliade Rădulescu. Constantin Alexandru Rosetti, Titu Liviu Maiorescu, eccetera. Quindi, conclude Pop, possiamo dire che l’Accademia Romena “fu fondata nel 1866 con l’aiuto degli intellettuali “dell’altra Romania”, quella ancora in attesa, quella che avrebbe dato nel 1918 la vera dimensione della patria. Si compiva quindi la profezia di Mihail Kogălniceanu – un altro membro dell’Accademia, originario di una famiglia che viveva sotto un dominio straniero – del 1843, quando, all’apertura del corso di storia nazionale presso l’Accademia Mihăileană di Iaşi, definì la patria come “tutto quel territorio dove si parlava la lingua romena”.

Come dicevo, il libro di Pop è intriso di rispetto e amore per la Romania. Ma dove il sentimento di adesione ai valori nazionali si fa più sentito e accorato è nella diatriba di carattere storiografico che divide lo storico transilvano dal collega Lucian Boia.

Sappiamo che il prof. Boia è uno storico apprezzato e discusso, che possiede un penetrante spirito critico, che non ha timore di farsi dei nemici, che intende la storia (quella scritta dagli storici) come interpretazione del cumulo di episodi e personaggi (insomma dei dati grezzi) che compongono la storia reale. La storiografia, per Boia, non potrà mai risolversi in una ricostruzione completa e obiettiva del passato, perché qualsiasi storico opera in un determinato contesto socioculturale, ed è perciò soggetto ad un inevitabile condizionamento ideologico. E’ una concezione molto vicina a quella di Max Weber; come è noto, il grande filosofo e sociologo tedesco affermava che bisogna distinguere fra l’accertamento e la descrizione dei fatti (operazione che rientra nella scienza storica) e la formulazione dei giudizi di valore, che sono invece “una questione di fede”, e dunque intrinsecamente non scientifici.

La notorietà di Boia ha registrato un notevole balzo in avanti a seguito degli scritti estremamente critici nei confronti della storiografia romena del XVIII e del XIX secolo, e in particolare di alcuni dei miti fondatori della storia patria, che egli arriva a qualificare falsi e dannosi. Nel 1997, per le Edizioni HUMANITAS, Boia ha pubblicato il noto Istorie şi mit în conştiinţa romȃnească (Storia e mito nella coscienza romena), opera cui ha arriso un immediato successo e che è stata ripubblicata più volte in romeno e altre lingue. In questo saggio, Boia intende dimostrare come l’intera storiografia romena (compresa quella postcomunista) sia stata fortemente influenzata, o meglio falsata, dai fini ideologici propri delle elite intellettuali dominanti nelle varie epoche storiche.

Bisogna riconoscere che Boia è stato abile e tempestivo nell’intercettare quella che era divenuta una concreta esigenza della storiografia romena, ovvero la revisione di una narrazione ipernazionalista che aveva fatto il suo tempo. E’ un’operazione, quella di Boia, perfettamente lecita (come riconosce lo stesso Pop), perché andare alla ricerca della verità, con la possibilità di decostruire e mettere in discussione quanto affermato dai predecessori, è il principale compito di un’onesta storiografia. Perciò ha ragione il sociologo Vasile Sebastian Dâncu quando sostiene che “Lucian Boia è utile per la nostra cultura. E’ come un virus. I virus generano anticorpi e così la capacità di difendersi. O altrimenti la nostra cultura è morta”.

Dunque, Boia fa bene a revocare in dubbio l’asserzione che Mihai Viteazul, unificatore per breve tempo, all’inizio del ‘600, dei principati di Valacchia, Transilvania e Moldavia, mirasse alla creazione di una Romania unita. Fa bene ad entrare con spirito polemico e critico in alcune delle storie e dei miti relativi alla formazione dello Stato romeno per mostrarne la fallacia e l’inconsistenza.

Sbaglia, invece, quando, senza curarsi minimamente dell’aspetto comparativo – elemento imprescindibile di ogni seria e completa indagine storica – consegna l’intera storiografia romena (e in definitiva il passato stesso della Romania) alla superficialità e alla menzogna.

Qui, lo spazio che divide Pop e Boia si fa ampio e profondo. Alla decostruzione storica attuata da Boia nell’opera già citata, Pop aveva replicato punto per punto con il ponderoso Istoria, adevărul şi miturile, saggio pubblicato da Editura Enciclopedică nel 2002. Nella Prefazione alla seconda edizione di questo lavoro (2014), riportata nel libro che stiamo recensendo, lo storico transilvano riassume in modo breve e chiaro l’intera questione.

Non basta ammettere – dice Pop – che qualsiasi ricostruzione storica è viziata da una visione personale degli accadimenti passati. Non c’è bisogno di affermare pervicacemente che il compito dello storico è destinato a fallire perché non si riuscirà mai a ricostruire il passato così come è stato; tutti gli storici conoscono questo limite, ma si impegnano per ridurlo, per avvicinarsi il più possibile alla realtà degli eventi-oggetto della ricerca storica. E soprattutto, precisa Pop, non si può passare dalla demistificazione di una certa mitografia storica ad un negativismo che investe l’intera storia di un popolo.

Pop ha buon gioco ad osservare: “Questa nostra risposta è anche un tributo alle generazioni di storici romeni (tanti dei quali sono stati autentici geni) che hanno faticato sinceramente per studiare il passato e poi illuminare la mente del nostro popolo”. Più avanti, ammonendo chi mostra di rinnegare certi valori e fa suo un negativismo assoluto: “Non ho visto nei libri di Boia alcuna speranza di rinnovamento, nessun progetto alternativo per il Paese, nessuno sforzo di portare fiducia in un miglioramento, basato su un programma, su un insieme di valori o su una nuova morale. (…) Non pensiamo di poter seguire un simile percorso! Non ce lo permettono la tradizione, né i morti sepolti in luoghi sconosciuti, né gli alberi secolari di Horea e Iancu dei Monti Apuseni, né i monasteri di Cozia e Voroneţ! Non ce lo permettono i nostri nonni e bisnonni che hanno creduto sinceramente nel progetto chiamato Romania e lo hanno messo in pratica con il loro sangue e il loro sudore!”

Nella controversia fra i due storici, l’aurea mediocritas (aurea moderazione) cui Pop dichiara di voler aderire ci pare la posizione più ragionevole. E’ il radicalismo dei giudizi di Boia a portarci a criticare la sua impostazione demitizzante e negativista, che per altri versi ed entro certi termini si è rivelata proficua per la ricerca storica. Anche intuitivamente, è molto più vicino alla verità un moderato nazionalismo (presente nelle storiografie di ogni Nazione della Terra) che un negazionismo tendente alla demolizione di un’intera costruzione storica fondata sul contributo di intelletti appassionati, ma anche illuminati, colti, enciclopedici; perché tali dobbiamo considerare studiosi come Bălcescu. Kogălniceanu, Panaitescu, Dragomir, Braţianu, Iorga.

Ma soprattutto, a forza di insistere sul concetto che la storiografia non è altro che il nostro sguardo soggettivo sugli eventi passati, Boia rischia di sminuire la figura stessa dello storico.

E’ un dato di fatto che nessuno, oggi, può ignorare i progressi nel campo dell’euristica e della critica delle fonti. E’ assodato che lo storico indaga e interpreta la storia in riferimento a quelli che sono i suoi valori; ma lo storico deve scegliere, perché i fatti storici esistono, e sono individuati da almeno due elementi: quello cronologico e quello geografico. La metodologia storiografica ammette universalmente che la conoscenza storica è selettiva: dalla varietà degli eventi e dalle relazioni che essi rivelano, lo storico deve scegliere quelli che ritiene necessari per la sua ricostruzione, che va condotta, certamente, con onestà intellettuale e metodologia scientifica, in un continuo processo di confronto. Il progredire della scienza storica dà ragione alla nostra visione delle cose; gli studiosi, oggi, hanno precisi modelli di ricerca, che il compianto storico polacco Jerzy Topolski, in Metodologia della ricerca storica, sintetizzava così: “il riferimento al tempo e allo spazio, lo sfruttamento critico delle fonti, una terminologia appropriata che faciliti la descrizione, una visione il più possibile ‘d’insieme’ dell’oggetto della ricerca in modo che manifesti la sua struttura, e la tendenza alla precisione logica”.

Il ponderato metodo critico di Pop trova piena applicazione quando analizza la figura e l’opera di Dimitrie Cantemir (1673-1723). Nel contributo dedicato allo storico, letterato ed etnografo (e che fu due volte voivoda di Moldavia), Pop dimostra che non c’è bisogno della tabula rasa di Boia per demistificare la storiografia romena quando questa ha ceduto al patriottismo esagerato o alla mitologia storica. Nel saggio Tra reale e ideale: Dimitrie Cantemir sul ruolo dei romeni d’Europa, Pop mette in luce ripetutamente (con amara ironia, direi) gli errori e le esagerazioni dello storico moldavo: “Per Cantemir, i romeni sono puri romani, non mescolati con i Daci o con altri ‘barbari’ (…) Cantemir sviluppa anche l’idea della persistenza di questi romani e romeni sulla terra degli antichi Daci (‘vita ininterrotta’). I romeni non hanno mai lasciato il loro territorio nazionale, poiché il potere dei Romani non è mai stato completamente ritirato. I romeni hanno avuto una storia statale permanente e forte, e la civiltà latina è sopravvissuta qui in forme politiche solide”.

Non solo Pop stigmatizza queste affermazioni, ma ne rileva l’influenza sulla storiografia successiva, in particolare su quella della Scuola Latina Transilvana.

Quanto alla Romania soggetta alla Sublime Porta, Pop sottolinea il patriottismo enfatico di Cantemir riportando un brano del cronista tratto da Hronicul vechimei a romano-moldo-vlahilor (1716-1722): “(I romeni), con l’aiuto di Dio, anche se sottomessi e obbedienti alla monarchia turca, non hanno perso né il dominio, né la libertà, e dopo tante guerre sanguinose combattute contro i cosacchi, gli ungheresi e i polacchi, poi contro i turchi e ancora i loro affini, i tartari, non hanno mai messo piede fuori dai loro confini, ma lì sono rimasti piantati senza essere sradicati. Le chiese, la legge, la giustizia le consuetudini, sono rimaste intatte e non alterate”.

Ovvio che una seria critica storica abbia vita facile a demolire le esagerazioni, gli aggiustamenti e gli anacronismi di Cantemir. Ma Pop ha cura di precisare che l’intento del cronista moldavo (come di molto storici dell’antichità), non era quello di ricostruire il passato come fa la moderna scienza storica; nel contesto geo-politico della seconda metà del ‘600 e inizio‘700 (creatosi a seguito della Pace di Vestfalia del 1648), Cantemir si preoccupava di garantire ai Principati romeni un passato nobile e degno, e con esso un maggior peso nello scacchiere europeo che si andava delineando. Bisogna ricordare che autorevoli studiosi sono disposti a trattare la storia come scienza pressappoco dal 1850, e Cantemir scriveva nei primi decenni del Settecento! Inoltre, molte delle principali affermazioni del cronista moldavo rimangono verità storiche; i romeni sono effettivamente discendenti dei romani, ma non soltanto di costoro; il romeno è una lingua neolatina, sebbene non puramente romana, avendo subìto altre influenze; i romeni si sono difesi valorosamente dalle invasioni straniere, anche se sono stati spesso soggetti al dominio di altre Potenze.

E’ evidente che Cantemir ha privilegiato l’interesse e l’amore per la Patria rispetto ad un approccio più obiettivo e scientifico. E’ stato disonesto intellettualmente? Ribadiamo che bisogna valutare i tempi e gli scopi di una ricostruzione storica, e che rischioso rimane il compito di chi tratta eventi che coinvolgono la propria terra, ovvero l’ethos entro il quale ci si è formati come uomini e come studiosi. Pop ha compreso questo aspetto meglio di Boia. Demolire le parti cadenti di un edificio è utile; dopo, però, bisogna ricostruire. C’è un motivo di fondo a sostenere la nostra opinione: la ricerca storica di Pop, a differenza di quella di Boia, ha uno scopo chiaro, definito: seguire i passi, spesso rintracciabili, a volte di difficile individuazione, che hanno segnato il cammino che va dalla romanità alla romenità.

In un libro dedicato alla fisionomia nazionale, il prof. Pop poteva dimostrare agevolmente come l’identità romena sia profondamente radicata nell’animo di tutti o quasi i letterati del XIX e del XX secolo. La scelta di un rappresentante della coscienza romena come George Coşbuc (1866-1918) è, in questo senso, emblematica e azzeccatissima. Basil Munteanu, nella classica Storia della Letteratura Romena Moderna, etichetta la figura del poeta transilvano in questo modo: “Coşbuc, espressione della razza”. E davvero Coşbuc incarna tutti i valori della terra romena: poeta della natura, innamorato del mondo contadino, auspica il ritorno alle tradizioni ancestrali e alla vita autentica del villaggio, i cui personaggi descrive con incomparabile ricchezza di immagini, colori, emozioni, rese in atmosfere sognanti e solenni.

Bambino prodigio, George lasciò presto il villaggio natale di Hordou per seguire gli studi a Telciu, poi a Năsăud, dove, appena quindicenne, pubblicò i primi versi sulla rivista Muza Someşană. In virtù della superiorità intellettuale, i compagni di corso lo misero alla guida dell’associazione culturale Virtus Romana Rediviva; è commovente ed esaltante leggere nelle sue biografie che quando l’adolescente George tornava nel luogo natale componeva versi che i ragazzi e le ragazze si lanciavano cantando e ballando la hora.

Dicevo che la scelta di Pop è indiscutibile: “Coşbuc”, scrive, “ha visto l’identità romena nell’origine, nella lingua, nella fede, nel nome etnico del nostro popolo, nella terra (…) nei costumi e nelle tradizioni, nelle leggende e credenze popolari”. Siamo dinanzi ad un letterato che è romeno in tutte le fibre del suo essere. Nella lirica Il poeta, Coşbuc scrive: Sono anima nell’anima del mio popolo / e canto la sua gioia e la sua amarezza… Sono cuore nel cuore del mio popolo / e canto il suo amore e il suo odio…”.

Ricordando che il poeta di Hordou, come molti letterati transilvani, non ha trascurato di occuparsi dei problemi politici e sociali del popolo romeno, e che ha composto numerose liriche patriottiche, quasi tutte raccolte nel volume Cântece de vitejie, possiamo concordare col prof. Pop quando intitola il contributo dedicato al poeta “La storia dei romeni – fonte d’ispirazione nella creazione poetica di George Coşbuc”. Se – come scrive Pop – i contadini romeni hanno capito il loro passato meglio e più facilmente dai versi di George Coşbuc che dai tomi eruditi degli storici, è perché il poeta transilvano si è sempre sentito uno di loro, un uomo del popolo che al popolo ha voluto donare il suo amore e la sua creatività.Concludendo, non possiamo che riconoscere a Pop una credibilità che va oltre questo apprezzabile scritto. Il fatto è che il concetto di credibilità dovrebbe essere riferito non soltanto alle informazioni che ci vengono date, ma anche all’informatore. Sono convinto che Pop non defletterà mai da quel metodo critico, svolto con criteri scientifici e onesto intellettualmente, che lo porta, ad esempio, a riconoscere i meriti di Boia, pur criticandone gli eccessi. Quanto a Boia, ha già mutato radicalmente opinione riguardo alla storia romena, e non è affatto escluso che possa ritornare su alcune delle sue posizioni più estreme. Non è vero infatti – come egli sostiene – che non abbiamo un vero accesso epistemico al passato della Romania; e non è giusto indurre i lettori a pensare che l’intera storiografia romena sia fondata sulla menzogna.

Mi auguro, nel bene della Romania, che la sua storia lunga, drammatica, dolorosa, ma anche esaltante ed eroica, trovi sempre credibili interpreti, in grado di restituircela alla luce della concezione di Johan Huizinga, il quale, non trascurando l’approccio scientifico, considerava la storia come “la forma spirituale in cui una civiltà si rende conto del suo passato”.

                                                                                        di Armando SANTARELLI

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