dott. Marco Baratto
Legione Romena d’Italia
Il massiccio afflusso di prigionieri dell’Imperial Regio Esercio Austro-Ungarico nel corso di tutto il primo conflitto mondiale pose il problema della individuazione di campi di prigionia che fossero sufficientemente distanti dalle zone di operazioni militari. Durante la prima parte del conflitto su precisa indicazione del ministero dell’Interno i prigionieri non furono assolutamente utilizzati per alcun tipo di lavoro manuale all’esterno dei campi per paura forse che l’immissione sul mercato del lavoro di una numerosa manodopera, generalmente a basso costo, potesse provocare qualche tensione sociale certamente non auspicabile. Inoltre, il celebre ‘colpo di Zurigo’ aveva dimostrato la presenza in Italia di una rete ben sviluppata di spie – la maggioranza è bene notare reclutata tra isospettabili cittadini italiani – che aveva messo a dura prova la marina e l’esercito. Tuttavia la mancanza di mano d’opera (dovuta ai continui richiami delle classi di leva) costrinse anche l’Italia ad applicare nell’articolo 6 del Regolamento dell’Aja che ammetteva l’impiego di prigionieri in lavori esterni
Nel 1916 la percentuale di prigionieri austro-ungarici di nazionalità romena presenti in Italia era assai rilevante e concentrata soprattutto nei campi del Nord Italia. Secondo le stime del Ministero della Guerra erano cosi suddivisi ben 3.600 nel campo di Mantova, 2.000 a Cavarzere, 800 rispettivamente a Ostiglia e Caravalle. Le pressanti domande per l’utilizzo di prigionieri di guerra provenirono da tutta l’Italia e in particolare richieste dai proprietari terrieri dell’intera penisola – i soldati prigionieri furono utilizzati con continuità nei lavori agricoli e in misura ridotta, anche nell’industria. Un forte necessità emerse nel territorio della provincia dell’Aquila dalla cittadina di Avezzano dove si dovette fare fronte ad una serie di necessità che richiedeva un ingente quantità di mano d’opera sia per le urgenti necessità agricole dei campi posti nel Fucino sia per la ricostruzione delle strutture viarie e civili andate distrutte dal grave sisma del 13 gennaio 1915.
La risposta a questi problemi fu l’istituzione nella città Marsicana di un campo di prigionia destinato ad accogliere fino a 15.000 prigionieri e i circa 1.000 tra soldati semplici, sottufficiali e ufficiali del Regio Esercito destinati alla sorveglianza dei soldati reclusi. I prigionieri presenti ad Avezzano Avezzano appartenevano a tutte le principali nazionalità inserite nei confini della monarchia asburgica tra loro anche romeni nativi della Transilvania, del Banato e della Bucovina. Nel corso dei mesi però la componete romena nel campo di Avezzano si distinse non solo in termini quantitativi ma anche sotto il profilo dell’immagine che questi soldati avevano tra la popolazione civile. Infatti, il grande spirito di sacrificio, la maggior facilità di comunicazione rispetto a ungheresi e tedeschi unita alla dimostrazione di essere ‘buoni lavoratori’ ingenerano una buona fama e rispetto dei romeni tra gli abitanti di Avezzano a tal punto che spontaneamente vennero creati da parte dei cittadini del centro marsicano comitati di solidarietà e assistenza riservati ai cittadini romeni e ai loro familiari rimasti in Patria.
Una svolta importante per il futuro dei prigionieri romeni di Avezzano venne a seguito dallo svolgimento nella sala del Campidoglio di Roma del ‘Congresso delle Nazionalità Oppresse nella monarchia austro-ungarica’ (27 marzo – 10 aprile 1918) nel quale i delegati romeni Draghicesco, Lupu, Deluca, Màndrescu e Mironescu riuscirono , assieme agli altri rappresentanti ottennero dal ministero della guerra italiano la possibilità di formare unità armate autonome su base nazionale, poste sotto la giurisdizione dei diversi comitati nazionali, offrerendo ai soldati di queste nuove unità lo status giuridico di alleati tra questi i delegati romeni – Il professor Mândrescu e l’ex ministro romeno in Italia, il principe Dimitrie Ghica riuscirono a fondare , il 6 giugno del 1918, con l’appoggio dei militari italiani e romeni a Cittàducale il ‘Comitato d’Azione dei Romeni di Transilvania, Banato e Bucovina’ e grazie al diretto interessamento del Minstro della guerra italiano , Vittorio Zuppelli, una ‘Legione Romeni d’Italia ‘posta sotto i comandi del generale di brigata Luciano Ferigo e avente come sede del comando il campo di Avezzano.
Dalla cittadina abruzzese il meccanismo messo a punto da Ferigo era semplice da tutti i campi di prigionia i soldati romeni venivano radunati nel centro abruzzese venivano inquadrati militarmente e forniti di tutto il necessario equipaggiamento bellico, quindi iniziava un periodo di addestramento. Non mancarono neppure momenti di svago marcati da qualche gita realizzata in località del circondario o di banchetti offerti in loro onore da municipalità locali come non mancarono casi di matrimoni tra romeni e donne del posto. Il 28 giugno 1918 la prima delle tre compagni romene inquadrate nella VIII,V IV armata italiana ricevette la ‘bandiera di guerra’ a Ponte di Brenta (Padova) . Da quel momento la Legione Romena d’Italia poteva dirsi operativa e avrebbe combattuto distiguendosi in quella che sarebbe passata alla storia come la ‘la terza battaglia del Grappa’ del 24 ottobre del 1918 e nella offensiva di Vittorio Veneto che portò al collasso dell’esercito austro – ungarico e alla fine la fine della guerra sul fronte italiano.
Conclusioni
Si è voluto ricordare, brevemente la storia della Legione Romena d’Italia, anche per onorare a 90 anni dalla fine della Grande Guerra quei tanti giovani romeni che hanno contribuito, anche con la loro presenza, a portare l’Italia vittoriosa alla fine della IV guerra d’indipendenza. Ma anche per sottolineare una sorta di ‘memoria condivisa’ che unisce italiani e romeni da sempre. Oggi i tanti romeni che vivono e lavorano onestamente in Italia contribuiscono, come i loro nonni, a far crescere il nostro Paese.
Nel 1918 dei romeni morirono nelle fila della ‘Legione Romena’ per l’Italia e magari in occasione del prossimo 4 Novembre sarebbe bello coinvolgere anche la comunità romena in segno di omaggi verso i caduti di quel conflitto.
Marco Baratto