di Fulvio PEZZAROSSA
Che i migranti vivano una condizione speciale, a più riprese definita da autori e critici attraverso il riferimento a concetti come in-between, riferendosi allo statuto incerto e insuperabile di estraneità all’interno delle metropoli, di emarginazione partecipata, di contraddizione, incertezza e sdoppiamento, è ormai acquisizione comune. La necessità quotidiana di ridefinire la personale esistenza nei mondi d’accoglienza, ma solo al prezzo di svestire le precedenti identità, di rinunciare con un suicidio coatto alle proprie credenze, ai valori e alle convinzioni che ancor più si fanno salde e granitiche, tanto più sfumano nel ricordo di stagioni e mondi lontani, sono aspetti emergenti anche per chi guardi lo straordinario arcobaleno di voci che la lunga sequenza dei concorsi letterari promossi da Eks&Tra ha saputo far affiorare dalla realtà della migrazione italiana.
Poteva pertanto rischiare la banalità la richiesta che gli scrittori, i quali anche quest’anno hanno offerto numerosi i loro testi, affrontassero col verso e la prosa la tematica emozionale de Il cuore altrove, col pericolo che i vortici della nostalgia, del ricordo e dell’intimità, trasformassero il discorso letterario in lamento su universi d’assenza e lontananza, giocati sul passato e l’incomunicabile. Di certo così non è per il rumeno Viorel Boldis, che accetta con la sua raccolta di versi, dalle misure ritmiche varie, eppur riconoscibili lungo linee di salda continuità, di giocare con lucida convinzione coi propri stessi sentimenti, che non pretende difformi o d’eccezione, ma calati acutamente nell’esistere della amara banalità quotidiana.
Senza dubbio altrove è il suo cuore antico, fitte s’affacciano nelle pagine le immagini radicalmente altre di un mondo fatto di acque, di paesaggi agrari, di placide bassure popolate d’animali e uomini intenti ai rituali di sempre, come fissi nella loro funzione emozionale sono le immagini dei genitori e le contraddizioni dei sentimenti infantili; ma appunto quel mondo è altrove, e il cuore è capace di attingere anche al confuso scontrarsi delle esperienze nuove, alla realtà italiana letta con una ferma lucidità, costringendola all’esito ironico per renderla accettabile e dicibile. Se a fatica finora si trovano spunti di critica sociale, di denuncia o di rivendicazione, e ancora la letteratura della migrazione nella penisola punta l’accento sulla necessità primaria di una riconosciuta dignità e di una garbata enunciazione creativa, in queste pagine invece il poeta sfida con sicura coscienza lo stratificarsi delle convenzione e dei pregiudizi, quella nebbia che non è solo dell’ambiente lombardo ma specialmente soggiorna nei sentimenti dell’homo padanus, e rivendica la dignità affatto rivoluzionaria di un’esistenza comunque pienamente umana, che non può essere arbitrariamente confinata nell’oggettiva vischiosità delle procedure amministrative, e alla dequalifica dei lavori manuali. E la sfida, corrosiva e sottile, sta allora nel mettere contrapposti nel rilevo della rima la Bossi-Fini con l’impossibilità di «sentirci davvero cittadini» (Di tutto), e il fatidico permesso, che reifica l’esistenza della figura straniera, con il cesso (L’ombra clandestina), ambiente prosaico in cui è confinata simbolicamente l’esistenza e l’attività degli esclusi. Ma, per quanto umile possa essere l’ambientazione, anche in quei luoghi d’esclusione «In un angolo, / ritirati nella loro realtà / i poeti mettono punti e virgole, / dando un nome / a tutte le cose» (Il mio nome).
In questo statuto di marginalità indistinta e materializzata sta certamente il senso profondo di una titolazione, Da solo nella fossa comune (che è della raccolta, di un brano singolo, e scandisce più passaggi), che potrebbe apparire all’esterno trucida e catastrofica, e che alla lettura immediatamente si dissolve, e finisce per accomunare l’esistenza sradicata degli emarginati dell’emigrazione, fissati con sorriso corrosivo in quella veste statuaria immobile e in apparenza vuota, offerta alla irriverente e lercia ostilità del mondo (Come una statua: «Stai lì, inerte, affamato e infreddolito, / coperto dalla testa al piedistallo / di tutta la cacca di tutti i piccioni del mondo»), ma in realtà fatta di lacerazioni, tumulti e angosciosa convinzione d’abbandono, che è il vivere assurdo e precipite anche dell’umanità stanziale. Quella fossa comune è il baratro entro cui sta precipitando l’umanità intera, che guarda distratta le catastrofi inarrestabili della natura, lo sconvolgimento del clima, le sacche di abbandono e marginalità, lo scatenarsi di guerre assurde per la Benzina, incapace di cogliere il nesso di globalità che tali situazioni intrecciano con la ricomposizione delle esistenze e delle culture umane.
La società pare freddarsi e trasformarsi in tetro cimitero di sentimenti e di ombre, anche perché precipitano in questo inarrestabile gelo valori e convinzioni condivisi, prima di tutto il sentimento religioso, dove l’inanità del sacrificio sacrale corrisponde alla cecità dell’uomo nel coglierne le valenze (Vetrate), e dove gli dei appaiono ormai più sol-tanto pallide S(comparse) lontane in un mondo di miti inattingibili, che il poeta cerca con ferma disperazione di ricomporre, a cominciare dallo sforzo di impastare le sostanze ultime e gli elementi basilari del mondo (After dei), ai quali però manca il soffio di una vitalità che solo la carica spirituale, ormai dissolta, potrebbe loro conferire.
In questo punto di disperazione, la poesia che non rivendica o pretende funzioni trascendenti, anzi è vittima di avversioni e pregiudizi che esprimono gerarchie e ostilità («In questo lungo treno della vita / Vorrei andare anch’io in prima classe, / ma trovo barricata la salita / dai critici e dalle loro tasse. […] Hanno ragione e scendo dalle scale, / Rimango in seconda, non mi muovo, / In fondo non è mica così male», In barba a qualcuno), sola si offre con la sua penetrante lettura dell’esistenza, con il coraggio nel raffigurare ambienti e sensibilità, con la sua forza di trascinamento ritmico, creativo e libero mentre invoca misure e impianti riconoscibili ed equilibrati, quale labile traccia per la fuga da un labirinto mortifero. È quella Opportunità con forza irriverente alla fine invocata, il coraggio e la lucidità di mettersi in gioco, di accogliere le sfide dell’altro e delle diversità, il gusto di far reagire verità e torto, giusto e storto, ragione e relatività, dolce e amaro, viatico ad una liberazione della quale solo i punti di avvio sono certi, ma che è d’obbligo tentare nella speranza che «qualche volta possiamo arrivare / Insieme al traguardo».