Francesco PISTOCCHINI
Alle colline che circondano Cluj la vista abbraccia i monumenti simbolo della varietà etnica e religiosa della Transilvania. Cluj, Kolozsvár, Klausenburg: la toponomastica della città più grande della regione parla tre lingue, come gli studenti della sua più grande università, la Babes-Bolyai, dove si tengono corsi in romeno, ungherese e tedesco.
Sono quasi 90 mila i giovani che provengono da ogni parte della Transilvania e che danno alla città un volto vivace, animando biblioteche e caffè. Nel centro svettano le forme gotiche della chiesa di san Michele, i campanili barocchi, le cupole della cattedrale ortodossa costruita dopo l’annessione della Transilvania alla Romania, solenne affermazione dei romeni ortodossi come ultima gruppo nazionale alla guida della città. Cluj è ufficialmente romena solo dal 1918. I magiari – cioè gli ungheresi – e i coloni tedeschi giunti dalla valle del Reno nel Medioevo ne avevano fatto una prospera città libera del regno d’Ungheria. Nel 1440 diede i natali a Mattia Corvino, che dell’Ungheria fu uno dei monarchi più celebri.
Nel Cinquecento le idee della Riforma protestante penetrarono in queste terre e la città vide formarsi anche un’importante presenza di unitariani (o antitrinitari) che rifiutavano il dogma della Trinità ed erano perse-guitati come eretici dai cattolici e dai protestanti, ma che qui trovarono spazi di libertà. La convivenza di fedi diverse ha origini antiche.
A Turda, a pochi chilometri da Cluj, uno studente di teologia magiaro mostra con orgoglio una chiesa: «Qui si riunì la Dieta transilvana che, con l’appoggio del sovrano del tempo, per prima sancì la libertà di culto in una Europa dilaniata dalle lotte religiose». Era il 1568. L’editto, tuttavia, riguardava solo cattolici, protestanti e antitrinitari e lasciava ai margini gli ortodossi, romeni e servi della gleba, esclusi dai privilegi dell’ancien régime. Gli ungheresi insediati dal IX secolo godevano di privilegi, mentre l’affermazione della maggioranza romena avvenne gradualmente e si realizzò solo nel Novecento.
Per secoli sulla Transilvania, circondata dalle cime dei Carpazi che segnavano un confine fisico e di civiltà con il mondo bizantino, sventolò un vessillo della nobiltà magiara, dei székler – casta militare ungherese di antico insediamento -, e dei coloni tedeschi arrivati nel XII secolo, commercianti o liberi contadini che con le loro fortezze contribuivano a difendere l’Europa centrale dal l’avanzata ottomana. E anche il mondo rurale rivela una storia di popoli diversi che hanno convissuto per secoli, ad esempio negli stili delle case di alcuni insediamenti sassoni o magiari che si distinguono a pochi chilometri di distanza da villaggi romeni o abitati in prevalenza da rom. I gesuiti arrivarono a Cluj nel 1579, in una città ancora dominata dai protestanti. Due anni dopo fondarono un collegio, il primo dell’odierna Romania. Ma fu solo l’inizio di una storia convulsa segnata da espulsioni e ritorni. All’inizio del Settecento, in epoca asburgica favorevole ai cattolici, eressero la grande chiesa barocca presso l’università, per poi scomparire con la soppressione dell’ordine e ritornare a metà Ottocento.
Catolici bizantini
La storia dell’ordine di sant’Ignazio in queste terre si intreccia con quella dei greco-cattolici. Furono i gesuiti, infatti, all’inizio del Settecento, gli artefici dell’uniatismo, cioè del ricongiungimento a Roma e al papa di ampi settori del mondo ortodosso locale. Passare al cattolicesimo significava, allora, anche acquisire privilegi, mentre Roma consentì ai nuovi fedeli di preservare le proprie tradizioni. Ancora oggi, i romeni cattolici in Transilvania conservano il rito bizantino pressoché identico a quello degli ortodossi, la ricchezza della liturgia, l’iconografia dell’oriente, un clero che non ha l’obbligo del celibato. Ma la storia di questi cattolici non fu facile. Costantemente in minoranza, prima rispetto ai cattolici ungheresi, poi rispetto ai romeni ortodossi, i romeni della Transilvania fedeli a Roma furono la fucina di una rinascita culturale, identitaria e politica. Nelle lo-ro scuole iniziò a svilupparsi quel senso di appartenenza nazionale che fu determinante nel lento processo di unificazione della Transilvania al resto della Romania. Le persecuzioni più dure iniziarono nel 1948, quando il nuovo regime filo-sovietico decise di sopprimere del tutto il cattolicesimo di rito orientale per inglobarlo nella Chiesa ortodossa. I vescovi furono deposti, chiese, scuole e ospedali confiscati. Molti greco-cattolici affrontarono decenni di persecuzione nella clandestinità, pagando un prezzo elevatissimo: alla fine del regime di Ceausescu, nel 1989, del milione e messo di fedeli di prima della guerra, ne erano rimasti meno di 300mila, prevalentemente anziani. Sulla tomba spoglia del vescovo di Cluj di quel tempo una donna prega. Iuliu Hossu, incarcerato dalla Securitate, fu nominato segretamente cardinale da Paolo VI nel 1969, ma morì l’anno dopo. Come tanti sacerdoti e laici che subirono arresti, torture e lunghe detenzioni, soprattutto nei primi anni del regime, è venerato come un martire. «Quando hai Dio di fronte, le ombre ti stanno dietro», ricorda Tertulian Langa, 17 anni trascorsi in carcere per motivi religiosi, citando le parole di monsignor Ghika, morto prigioniero nel 1954. Con la preghiera, molti superarono le prove più dure e i lunghi isolamenti. La rinascita di questa Chiesa non è stata facile. In mezzo ai contenziosi legali ed economici per recuperare dagli ortodossi chiese ed edifici, i cattolici orientali di Transilvania stanno cercando di ricostruire un’identità e un ruolo nel contesto romeno. Lucian Lechintan, giovane gesuita romeno, è certo che questa Chiesa «ha bisogno di trarre forza dalla testimonianza dei
suoi martiri, per continuare a rafforzare la propria fede e conservare la tradizione». Ma non è facile avvicinare i giovani che hanno lo sguardo altrove, o collaborare con i cattolici che parlano ungherese. Barriere linguisti-che, tradizioni liturgiche e status sociali che per secoli sono stati distinti, separano i cattolici di rito bizantino e latino. I vescovi della Romania devono rappresentare entrambe le tradizioni (oltre a una piccola minoranza armena), vissute fianco a fianco, ma che dialogano con difficoltà. Eppure, come in tutta la Romania, la gente mostra una forte sensibilità religiosa.
Rivista Popoli; www.popoli.info