Centro Culturale Italo Romeno
Milano

 SULLE  ORME  DEGLI  DEI di Armando Santarelli

Set 15, 2021

 

Dopo aver parlato tanto di Romania, torno con questo articolo all’altro mio amore, che ha preceduto quello per la patria di Eminescu: la Grecia. Della Grecia ho scritto poco (Monte Athos a parte) e tuttora mi chiedo perché. Credo di poter dare una prima risposta; il mio amore per la Romania è più fisiologico, carnale, terreno, legato a una natura forte e rigogliosa, che chiede di essere percorsa con emozione e un filo di inquietudine. E’ dunque un amore più immediato, più facile da raccontare, perché si nutre dei colori delle stagioni, di montagne e forre boscose, di pareti a strapiombo che precipitano nel letto di fiumi e torrenti; e poi, nella stessa misura, dei canti e dei versi del dor e della jale, del vigore concettuale dei letterati romeni, di una spiritualità sensibile, della comprensione per le sofferenze di un popolo oppresso da una storia dolorosa.

L’amore per la Grecia è invece misterioso, quasi assurdo, perché lo hai dentro prima ancora di calcarne il suolo. Sai soltanto che ha a che fare con un periodo storico ben definito, con un mondo denso di conquiste culturali e sociali; ma queste sono rappresentazioni – rifletti – com’è possibile che io senta di amare così intensamente un luogo che conosco solo attraverso i libri? Domanda che non pare affatto retorica quando torni alle pagine di Hölderlin, che pur non essendo mai stato in Grecia voleva risuscitare nel mondo moderno il culto degli dei; o a quelle di Keats, che non conosceva né la Grecia né il greco, ma era affascinato dai miti e da tutto ciò che promanava dall’antica Ellade…

Poi arriva il giorno in cui una nave ti scarica in un porto sul quale sventola la bandiera a strisce bianche e blu: un porto qualsiasi, Igoumenitsa, Katakolo, Patrasso; oppure un’isola delle Cicladi, o del Dodecanneso, o Samotracia, o Creta… Scendi, ti muovi lungo la costa o verso l’interno e sei già incantato, o forse stordito, perché lo scrigno delle malie della Grecia è sempre aperto… Non soffri il suolo brullo e arido, il sole che asciuga inesorabilmente le ombre, il paesaggio silenzioso e accecante; e già questo è un miracolo. Dinanzi a te il mare turchese che ha visto passare infinite storie, miti, leggende; alle tue spalle, le rocce nude e scoscese dei monti in cui dimoravano gli dei; sulla strada, cartelli che segnalano ovunque rovine archeologiche, santuari pagani, templi classici, chiese e monasteri ortodossi, siti di antiche battaglie, minuscole e graziose cappelle, colonne solitarie svettanti dal nulla, consumate, ma che non hanno perso niente della loro magnificenza. E il mal di Grecia inizia, inizia un amore d’atmosfera, perché l’aria vibra di echi provenienti da chissà dove, che si riverberano nell’animo e lo pacificano nell’estasi, nel sentirsi fuori da se stessi, come l’etimo suggerisce (ékstasis); in un istante capisci che sei venuto qui non solo per apprendere, ma per sentire. È questa la magia che aleggia in ogni angolo di Grecia; ma è a Delfi e ad Olimpia che ha pervaso tutto il mio essere con forza inusitata, invincibile.

Delfi, centro del globo terrestre per gli antichi greci, luogo fra i più spettacolari del mondo, dal quale promana un’energia inestinguibile. Il tempio di Apollo, il teatro e lo stadio perfettamente conservati, la magnifica tholos circolare, l’antro dal quale la Pizia pronunciava i suoi oracoli, il Bouleuterion, la Fonte Castalia: i simboli e l’armonia di tutto ciò che è greco.

Olimpia: è qui, nello stadio più antico del Pianeta che mia moglie e il custode sono venuti a chiamarmi e poi a rimproverarmi perché non volevo più uscire dal luogo nel quale, un tempo, si disputavano i giochi olimpici e si onoravano i massimi fra gli dei greci. Ero già in piena eccitazione mentre percorrevo la placida, silenziosa valle posta tra l’Alfeo e il Cladeo. Poi, ecco il dolce rialzo del Monte Kronos, percorso dal soffio del vento che fruscia attraverso gli aghi dei pini d’Aleppo. Al centro dell’Altis, il recinto sacro, gli immensi rocchi che componevano le colonne del tempio di Ercole, che qui lottò contro Kronos per il dominio del mondo; giacciono dove sono caduti, paghi di aver ammirato una delle sette meraviglie del mondo antico, la statua crisoelefantina di Zeus realizzata da Fidia. Ecco la palestra e il ginnasio dove si allenavano gli atleti che avrebbero partecipato ai giochi olimpici; i resti dell’Heraion, il tempio dedicato a Era, forse il più antico edifico dorico dell’Ellade, in cui venivano conservati gli allori che avrebbero cinto la fronte dei vincitori; e infine lo stadio dove duemilasettecento fa iniziarono a disputarsi i giochi che interrompevano le guerre, che richiamavano genti dall’intera Grecia, e che vedevano la celebrazione degli eroi eponimi da parte dei più grandi poeti del tempo.

Tutte queste straordinarie conquiste dell’intelletto umano concentrate nello stesso luogo, un piccolissimo lembo del Peloponneso lontano dalle grandi poleis, dai templi più importanti, dai porti più frequentati. Non era forse un Dio che lo aveva scelto? In quel momento, sentivo di essere nel pieno di quel pellegrinaggio della mente che, come scrisse Hugo von Hofmannsthal in Augenblicke in Griechenland (1924), fa di ogni viaggio nella Grecia classica il più intellettuale di tutti i viaggi.

Ma c’era molto di più; ero preda di un’alienazione mentale che assomigliava a una vera e propria hieromania, un delirio spirituale che mi avvinceva a quel suolo, a quelle pietre, rendendo insignificante ogni altra cosa. E mi sentivo vicino e contemporaneo delle genti di ogni ceto ed età che in quel luogo si erano sentite affratellate ed esaltate dagli eventi cui assistevano. Nella sua dimora naturale, in quell’irripetibile scenario, l’eredità della Grecia classica era penetrata in me per confermare l’ideale che fa del suolo ellenico il più sacro della terra.

So di espormi, a questo punto, a una domanda inevitabile: in una Grecia lontana millenni dalla culla classica che la rendeva unica al mondo, dove i siti archeologici sono soffocati da turisti vocianti e attenti a fotografare più che a osservare e ad ascoltare, dove il romanticismo dei caicchi e dei tragitti a piedi è tramontato, dove l’ospitalità non è più sacra e in qualsiasi ristorante la moussakà ti viene servita cinque minuti dopo averla ordinata, che cosa è rimasto della fascinazione che ha mosso verso le coste dell’Egeo schiere di studiosi di ogni epoca e provenienti da ogni parte del mondo? Molto, secondo me. Nell’animo di ogni persona sensibile alla conoscenza rimane la verità di quanto affermato da Shelley: “Siamo tutti greci”. E’ lo stesso pensiero del grande travel writer Robert Byron, anch’egli affascinato dalla terra di Pericle: “E’ privilegio delle persone colte, immerse nei doveri della vita contemporanea, trarre forza dall’ispirazione del passato”.

Ma l’Umanità non deve alla Grecia il solo retaggio classico, primo fondamento della civiltà occidentale. Sinora siamo rimasti nell’ambito di Atene, di Corinto, di Tebe, di Mileto, di una cultura che va dall’età di Omero a quella di Aristotele; ma c’è una Grecia ulteriore, cui dobbiamo conquiste non meno importanti di quelle raggiunte nell’epoca classica. Perché sono la lingua e la cultura greca a caratterizzare l’Impero Bizantino, la cui capitale, Costantinopoli, diventa dal V secolo il centro più influente del cristianesimo. Patrick Leigh Fermor, amante e studioso della Grecia: “L’evolversi del Cristianesimo in un sistema logico capace di resistere agli urti di millenni è opera greca. La Chiesa cristiana è stata l’ultima grande impresa creativa della cultura classica greca.”.

In effetti, già nel II secolo i Padri Apologisti iniziano ad usare i concetti e la terminologia della filosofia greca per costruire l’identità del cristianesimo. Più tardi, nel IV e nella prima metà del V secolo, i teologi della Patristica – in cui la filosofia, soprattutto quella platonica, gioca un ruolo considerevole – renderanno ancor più solido l’edificio dottrinale del cristianesimo.

Ecco dunque l’altra voce della Grecia, quella dell’ortodossia cristiana, che ritroviamo oggi nella spiritualità, nella fedeltà alla tradizione, nei riti della Chiesa orientale. Quando ad Atene subentra Costantinopoli, e allo stoicismo la dottrina cristiana della salvezza, l’ellenicità lascia il posto al mondo della romiosyni. E’ ancora a Fermor che ci rifacciamo, e in particolare all’ennesimo suo capolavoro, Rumelia (Adelphi, 2021) opera in cui lo scrittore riassume il processo che condusse alla lenta penetrazione del termine romiόs al posto di héllinas: “Quando Costantino fondò una seconda capitale per il tardo Impero romano, Costantinopoli, non la concepì come erede, né tantomeno come sostituta o rivale della metropoli sul Tevere. La città cresciuta come un fungo era la capitale gemella di uno Stato indiviso. Ma nel giro di sessant’anni due imperatori diversi governavano congiuntamente sulle due aree dell’Impero. La capitale d’Oriente era in piena espansione, quella d’Occidente, assediata dai barbari, in declino. (…) Il mondo in cui crebbe Bisanzio-Costantinopoli-Nuova Roma era greco, come del resto i cittadini romani superstiti e ben presto anche gli imperatori. Atene era in decadenza, e ora era Costantinopoli il cuore e il centro della grecità. Quando i dissidi teologici sullo Spirito Santo divisero Oriente e Occidente, la nuova città imperiale divenne anche la sede metropolitana della cristianità orientale”.

Così, la parola romaíoi – romani – (o romioí, romiόs al singolare) passò a indicare i cristiani ortodossi orientali, mentre il termine “elleno” assunse il significato di pagano, e col tempo cadde in disuso. Inoltre, il greco parlato tutti i giorni prese a essere definito ‘romaico’ per contrasto con la katharévousa, ovvero la lingua letteraria usata soltanto nella teologia, nelle cronache storiche e nei documenti ufficiali. Tuttavia – osserva Fermor – sebbene per una serie di combinazioni religiose e politiche i greci non si considerassero più ‘elleni’, non per questo avevano smesso di esserlo. E quando la Grecia si liberò dal giogo turco, la vecchia denominazione riprese quota, e fu il termine romiόs a cadere in discredito tra i fautori della rinascita. “Oggi”, chiosa Fermor, “le due parole hanno sfumature ben distinte. ‘Elleno’ evoca le glorie dell’antica Grecia, ‘romaico’ gli splendori e le pene di Costantinopoli”.

Dunque, dopo la fine del dominio ottomano è stata l’antica Ellade a levarsi come nuova stella polare della grecità. Ma nessun greco potrà mai scindere la sua essenza dall’altra componente storica, culturale e religiosa, quella romiosyni che “rimanda a un senso di calore umano, consanguineità, affetto, una storia comune, solidarietà nelle situazioni difficili”. Nella romiosyni ci sono i fasti di Bisanzio e la disgrazia della dominazione straniera, c’è la consapevolezza di un comune dolore, dell’esilio, ma anche di ciò che è familiare e spirituale; l’ellenicità ha invece il distacco e lo splendore di un’ideale.

Ecco il dilemma “elleno-romaico” che lo scrittore inglese ha cercato di svelare: in ogni greco si celano due figure contrapposte, il romiόs e l’elleno, che a volte si contraddicono, a volte si rivelano complementari. Ma anche quando le due entità si trovano in disaccordo, il viscerale amore dei Greci per la propria terra non viene mai intaccato: “Le offese, le minacce e il pericolo di invasione non solo gettano il romiόs e l’elleno l’uno nelle braccia dell’altro, ma riescono a riconciliare tutte le differenze interne”.

E’ realistico ciò che sostiene Fermor? A mio parere c’è un fondo di verità in ciò che dice; ma credo che la mia fiducia nella sua ipotesi sia collegata alla sensazione che l’amore per l’ellenicità e per la romiosyni alberghino non solo nell’animo dei greci, ma anche in quello dei filoellenici come Fermor, me stesso e gran parte dei letterati di ogni epoca. Ciò che ho provato ad Olimpia e a Delfi si incastra e si somma con il senso di sacralità che mi pervade quando mi trovo nelle chiese ortodosse, dinanzi allo splendore delle icone. Il fatto è che solo in Grecia puoi condividere la perfezione dei templi classici e lo spazio mistico dei katholika dei monasteri, il pantheon degli dei e i mosaici in cui brillano di una luce dorata il Cristo Pantocratore, la Vergine, i Santi e i Padri della Chiesa: un passato inarrivabile, due volte glorioso. Le rovine dei templi greci guardano le chiese ortodosse; in entrambe il fisico e il metafisico si confondono, entrambe emanano pace e una strana felicità. È una felicità che nessuno ha spiegato meglio di Robert Liddell quando, in Aegean Greece (1954) scrive che nello scenario della Grecia noi proviamo la nostalgia di un Eden perduto, e nel miracolo di riconoscere luoghi dove non siamo mai stati ci sentiamo posseduti dalla gioia di penetrare nella vita delle cose.

 

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