Centro Culturale Italo Romeno
Milano

L’amore per la Romania di Patrick Leigh Fermor (III)

Lug 5, 2021

 

Ogni volta che Paddy si risolve a proseguire il cammino verso Costantinopoli, la valle del Mureş e lo stesso conte István lo ammaliano con potenti controincantesimi, ai quali è difficile resistere. Di volta in volta, il conte inventa le proposte più strane e allettanti, fra le quali la caccia ai camosci, ai cervi, e addirittura agli orsi! Un giorno, mentre si discute dell’argomento, una comitiva di passaggio composta da una dozzina di persone propone di andare in cerca di gamberi d’acqua dolce in un torrente di montagna. La più attiva nella pesca si rivela una donna bellissima e spiritosa, Angéla (pronunciato Anghéla) che salta a piedi nudi da un masso a un altro come uno stambecco. (Nel racconto di Fermor, Angéla entra in scena come una sconosciuta; ma la biografia dello scrittore ci rivela che nel personaggio si nasconde l’affascinante Xenia Csernovitz, la cui identità, come del resto quella di Elemér von Klobusitzky (István), l’autore volle preservare).

Fra Paddy e la donna, che vive un matrimonio infelice, non tarda a sbocciare un’attrazione che la sera, dopo il picnic, prende una piega inevitabile. L’idillio continua i giorni seguenti, ma sebbene il marito di lei si trovi a Budapest, incontrarsi non è facile; è István a venire in aiuto all’amico con un piano ardito e trasgressivo. Fattasi prestare un’automobile, carica prima Paddy, poi, alcune miglia più avanti Angéla, e punta verso est, per un viaggio clandestino nel cuore della Transilvania. La prima tappa, che “fa esplodere il problema dei nomi”, è un luogo sacro per i romeni. È la dacica Apulon, diventata la latina Apulum e poi, dopo la penetrazione degli slavi, Bălgrad, la “città bianca”. Successivamente i sassoni la chiamarono Weissenburg e più tardi Karlburg, in onore dell’imperatore Carlo VI, che vi aveva fatto costruire la grande fortezza settecentesca. Gli ungheresi, in ricordo di un loro principe, Julius, la chiamarono Gyulafehérvár (la “città bianca di Giulio”), e finalmente i romeni adottarono il nome latino medievale di Alba Iulia.

Tutta la città, osserva Fermor, è impregnata di storia transilvana. Qui il re Ferdinando e la regina Maria si fecero reincoronare per commemorare le gesta di Michele il Valoroso, che nel Seicento riunì sotto un unico scettro i principati di Valacchia, Transilvania e Moldavia. Nella cattedrale ricostruita in stile tardogotico da Giovanni Hunyadi sono sepolti Isabella di Polonia e suo figlio Giovanni Sigismondo, lo stesso Hunyadi e suo figlio Lászlό, decapitato a Buda.

La fuga a tre continua fra splendide giogaie carpatine, e costeggia le antiche miniere romane di salgemma, che penetrano sin nel cuore delle montagne; la galleria di una di esse – assicura István –  restituisce l’eco per sedici volte. I panorami sono selvaggi e stupendi: attorno a castelli svettanti e borghi sgretolati dai saccheggi dei mongoli sorgono foreste tenebrose, dove i pastori romeni richiamano le greggi soffiando in corni di tiglio lunghi alcuni metri.

Superato il borgo di Turda, i cui abitanti fanno tutti i ciabattini, i conciatori o i vasai, una splendida città si offre alla vista: è Cluj, Klausenburg per i primi coloni sassoni che la fondarono, Kolozsvár per gli ungheresi. Si presenta irta di cupole, guglie e campanili che d’improvviso iniziano quasi a gareggiare fra di loro, perché diverso è lo scampanio delle chiese delle varie confessioni religiose. Nella città, piena di case signorili e di palazzi, rimangono molte tracce del suo cittadino più illustre, Mattia Corvino; al centro dell’ampia piazza del mercato, una superba statua equestre lo raffigura splendente nella sua armatura. Dopo la visita della cattedrale gotica di San Michele c’è tempo per un po’ di sorprendente mondanità; infatti, István conduce gli ospiti in un hotel della piazza, il New York, assicurandoli che il barman del posto ha inventato un fantastico cocktail; in effetti, la bevanda si rivela così speciale che gli amici ne sorbiscono più di una, con gli inevitabili effetti di una generale euforia e di un altrettanto scontata diplopia.

Lasciata Cluj, Paddy István e Angéla entrano in un’area geografica dove si parla di nuovo il magiaro: è il territorio degli antichi siculi, nella cui capitale, Târgu Mureş (Marosvásárhely per gli ungheresi) si sta svolgendo un mercato. Patrick ha una stupenda occasione per osservare l’incredibile varietà dei costumi femminili transilvani: “Ciascun villaggio o valle imponeva un diverso accostamento di colori e stili: spighette, tuniche, pizzi, nastri, pieghettature, colletti arricciati, fusciacche, cuffie, fazzoletti, calotte e trecce raccolte in crocchia o sciolte; tutto un assortimento di particolari segnalava se erano fidanzate, sposate, zitelle o vedove. Questa eleganza paesana conferiva a ogni assembramento un’aria di festa, a maggior ragione data la notevole bellezza delle ragazze ungheresi e romene. L’abbigliamento aveva ancora un significato emblematico, e non solo fra i contadini; un esperto di simbologia romena e ungherese che avesse osservato la folla durante un giorno di mercato sarebbe stato in grado di snocciolare la provenienza di ciascuno con la stessa facilità di un cultore di araldica di fronte alle bandiere e alle sopravvesti di una battaglia del quattordicesimo secolo”.

Usciti dalla città, gli amici danno un passaggio a una vecchia che sorregge una grossa scodella coperta da un telo. A una domanda di Angéla, la vecchia invita prima lei, poi Paddy, a mettere una mano sotto il telo; lo stupore si dipinge sul viso di entrambi nel palpare una massa di piccoli corpi caldi e piumosi che si agitano e pigolano debolmente: sono degli anatroccoli appena usciti dal guscio!

La gita clandestina prosegue attraverso pacifiche contrade, dove la paglia dei tetti lascia il posto alle tegole, e le mura di cinta dei villaggi racchiudono vasti e ordinati cortili. Quando dinanzi agli occhi dei gitanti si erge un vertiginoso profilo di tetti scoscesi, cuspidi, cime di alberi e muri merlati, Angéla e István esclamano all’unisono: “Guarda! Segesvár!”.

È la Sighişoara romena; ma un discendente di coloro che l’avevano fondata – si cura di precisare Fermor – avrebbe detto: “Schässburg!”

Infatti, gruppi di etnia germanica provenienti dal Medio e Basso Reno si insediarono sul posto nel XII secolo; presto la città arrivò a contare più di duecentomila abitanti, diventando la più prospera della Transilvania. Paddy ha convinte parole di elogio per quella comunità, coerente nell’imitare lo sviluppo dei borghi della madrepatria occidentale e nel seguire il medesimo, laborioso stile di vita. L’affermarsi di floride cittadine, di una splendida architettura barocca, di teologi, maestri e uomini di cultura, testimoniavano da secoli l’intraprendenza dei sassoni di Transilvania.

Sighişoara, in particolare, si rivela un luogo di grande bellezza e importanza. Fondata nel XII secolo, è menzionata per la prima volta nel 1280 come Castrum Sex (Castello Numero Sei). Indicando i campi sotto la cittadella, István ricorda che lì venne ucciso il poeta ed eroe magiaro Sándor Petőfi, durante una delle ultime battaglie della Guerra di Indipendenza Ungherese. Ma la Sighişoara romena è nota per aver dato i natali a uno dei personaggi più famosi della storia europea: Vlad III di Valacchia, nipote del grande Mircea il Vecchio e figlio di Vlad il Drago, così chiamato perché insignito dell’Ordine del Drago, fondato nel 1408 da Sigismondo di Lussemburgo, Imperatore del Sacro Romano Impero.

Da ragazzo – scrive Fermor – Vlad III fu dato in ostaggio al sultano; ma quando venne liberato e salì al trono valacco combatté i turchi con implacabile ferocia. La vendetta fu affidata al grande Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli; ma la marcia dell’esercito musulmano si arrestò quando il sultano si imbatté nel truce spettacolo di un’intera vallata disseminata di cadaveri di turchi e bulgari trafitti su una selva di picche e lasciati a decomporsi, con il generale in capo sulla picca più alta. Pur cresciuto nel sangue, il sultano indietreggiò per l’orrore cui aveva assistito, o forse – ipotizzano alcuni – perché ammirato dalla spietatezza del sovrano valacco.

È per questo motivo, precisa Fermor, che in Romania Vlad III è sempre stato chiamato Vlad Țepeş, “l’Impalatore”; ma per gli stranieri, che avevano in mente suo padre Vlad il Drago, era “il figlio del Drago” (Dracul in romeno, considerando la “l” finale, ovvero l’articolo). Da lì i nomi “Drakola”, “Drakule” che ne sono derivati, trisillabi accompagnati da quell’aura di mistero e di crudeltà che suggerì allo scrittore inglese Bram Stoker il personaggio del “Conte Dracula”, il vampiro che succhiava il sangue dalla gola delle vittime.

Inoltrandosi nel borgo, Paddy è colpito dalle “lancette di un antico orologio sopra un’arcata, in cui l’ora veniva scoccata da una figurina che saltava fuori muovendosi a scatti”. È una descrizione scarna – e piuttosto deludente, dobbiamo ammettere – della splendida torre dell’orologio del XIV secolo, caratterizzata da doppio barbacane, da una panoramica balconata, dalle torrette barocche del tetto e, appunto, dall’antico orologio, dalle cui nicchie emergono le eleganti figurine lignee che segnano le ore. Maestosa, alta ben 64 metri, la torre domina la città vecchia e l’intero paesaggio circostante.

Dalla cittadella medievale, una ventosa scalinata coperta da travi e dalle scandole di una tettoia conduce alla sommità della collina, dove svetta un’antica chiesa gotica, con un tetto così scosceso che sembra quello di un granaio, mentre all’interno lo spazio arioso levita verso una ragnatela di archi a sesto acuto, ogive e cuspidi. Dinanzi alla porta ovest della chiesa, il terreno piega in basso, e in mezzo agli alberi si ergono lapidi e tombe con i nomi dei defunti incisi in antiche lettere gotiche; Paddy nota che alcuni terminano con la desinenza latina –us, come gli Umanisti del Cinquecento. Il commento è splendido: “Sotto una fuga di nuvole sospese sopra le alture, i campi e il fiume tortuoso, conservazione e decadenza erano avvinghiate in uno dei più seducenti cimiteri del mondo”.

L’organista della chiesa, uscito per vedere chi siano i visitatori, indica una torre massiccia alla base del camminamento.

“Vedete quella?”, inizia. “Trecento anni fa, truppe turche risalirono la valle per mettere a sacco la città. Le comandava uno spietato generale, Alì Pascià, ein schrecklicher Mann! Un gruppo di abitanti si era barricato dentro quella torre; uno di essi gli puntò contro l’archibugio e – boom! – Alì Pascià rotolò a terra. Era in groppa a un elefante”.

I presenti non riescono a nascondere una certa perplessità, ma l’uomo conferma: “Sì, un elefante. Allora i cittadini si buttarono sugli attaccanti, i turchi si diedero alla fuga e la città fu salva”.

Dopo la visita di Sighişoara, il viaggio di Paddy, István e Angéla procede verso sud, attraverso vigneti e campi di luppolo, in una campagna che si distende ampia e solenne, con piccoli borghi annidati lungo i corsi d’acqua. Le loro chiese, invariabilmente robuste, erigono campanili quadrangolari dall’aspetto rude e difensivo. In uno dei villaggi, Agnetheln, fuori di un’osteria, un carradore appena uscito dalla bottega nota che i forestieri fissano ammirati il massiccio campanile.

“Che ve ne pare?”, chiede l’uomo.

“Una fortezza sicura”, osserva István.

“Per forza!”, replica il carradore.

Paddy è perplesso, sa che da quelle parti non si erano verificati conflitti settari paragonabili a quelli combattuti in molti Stati europei. Dunque, era per difendersi dai turchi?

Il carradore alza le spalle. “Sì”, replica, “anche contro i turchi, ma c’erano stati nemici peggiori”.

“Chi?”

“Tataren!”

Paddy annuisce, e collega la notizia all’invasione dei tatari di Bathu Khan, che aveva ridotto in cenere quelle terre e massacrato migliaia di abitanti. Ma questo era avvenuto nel 1241 – osserva – e successivamente i mongoli non erano più tornati…

“Mai più tornati!?” Il carradore lascia il bicchiere di vino a metà e inizia una fitta conversazione con István. Emerge non solo che l’ultima incursione tataro-turca era avvenuta in tempi relativamente recenti, ovvero nel 1788, ma che fra il 1241 e la fine del Settecento le incursioni minori da parte dei tatari e di altre bande di predoni erano diventate endemiche! Spesso i razziatori attraversavano la Bessarabia e la Moldavia, superavano il passo di Buzău (non a caso chiamato “il Passo dei Tartari”) e si riversavano nella prospera regione di Kronstadt (ora Braşov).

L’improvvisata lezione di storia continua. Sebbene importanti, le chiese fortificate non costituivano una difesa sufficiente contro gli attacchi più duri. Due erano le soluzioni: fuggire nei boschi, spingendo cavalli e mandrie nelle vaste grotte dei Carpazi; oppure cingere le città con solide mura, imponenti anelli di pietra con all’interno file sovrapposte di rifugi di legno. Ciascun rifugio era assegnato a una famiglia, che vi ammassava riserve di carne salata, prosciutti e formaggi, nell’eventualità di un assedio improvviso.

Percorse altre miglia incontrando solo mandrie e carri trainati da robusti cavalli, dinanzi ai viaggiatori compare il gigantesco massiccio dei Carpazi, “che scalava il cielo sollevandosi come un’onda”. Più precisamente, sono i Monti Făgăraş, la selvaggia regione dei valacchi e dei peceneghi delle antiche cronache, luogo dove abbondano orsi e lupi. Arrivati nella città di Făgăraş, gli amici si rendono conto che i tempi della fuga si sono allungati pericolosamente, in particolare per Angéla. Invertendo la rotta, un meraviglioso paesaggio si offre alla vista: “Sulla sinistra, l’enorme massa dei monti si ergeva in un susseguirsi di ripide pieghe. Burroni alberati incidevano le alture pedemontane, mentre i versanti più alti erano fasciati di scure foreste da cui emergeva la roccia nuda, in una confusione di gobbe e picchi frastagliati. Lassù in cima, come sapevamo, una miriade di laghi e laghetti occhieggiavano verso il cielo…”. Sembra di essere dinanzi ad un dipinto, e ciò non deve stupire: Fermor fu anche un discreto pittore, e del pittore ha il senso delle forme, dei giochi di luce, del valore di uno scorcio o di un dettaglio.

Più avanti, seguendo per alcune miglia il corso del fiume Olt, due siti si impongono all’attenzione: i resti diroccati di Cârţa, la più antica costruzione gotica della Transilvania, abbazia cistercense del XIII secolo che Mattia Corvino soppresse a causa dell’immoralità dei monaci; e il campo di battaglia in cui Michele il Valoroso aveva sconfitto l’esercito del cardinale Andrea Báthory, principe di Transilvania, la cui testa fu offerta al vincitore da alcuni siculi.

Attraversate dolci colline e villaggi in cui tornano a udirsi sonorità romene, i tre arrivano a Sibiu. István è rammaricato e nervoso, perché lo scarso tempo a disposizione non consente di ammirare le meravigliose chiese e i nobili edifici della città, fra i quali spicca il favoloso Palazzo Brukenthal, con la sua biblioteca zeppa di manoscritti e incunaboli, e le opere pittoriche di maestri olandesi, fiamminghi e italiani.

Il tempo stringe, bisogna arrivare in fretta nella stazione di Deva, per consentire ad Angéla di prendere il treno e tornare a casa. La strada corre parallela alla ferrovia: raggiunto e affiancato il convoglio, fra i due mezzi si scatena un folle testa a testa, che Fermor descrive così: “I passeggeri osservavano stupefatti la scena, e noi ci sentivamo come dei Cherokee o degli Assiniboin che nella prateria assaltavano il treno al galoppo, in copricapo di penne e corna di bisonte. Al momento del sorpasso lanciammo tutti e tre un urlo di gioia e il treno fischiò, come se accettasse la capitolazione”.

Il commiato da Angéla e István è triste. Ma Paddy ha diciannove anni, e l’avventura nel sangue: “Viaggi come questo”, commenta, “ti fanno sentire così bene che l’umore è alle stelle, e questo, unito all’ebbrezza di essere nuovamente in cammino, contribuì a lenire il senso di solitudine dopo l’addio a István e la fine dei giorni magici con Angéla”.

(continua)

di Armando SANTARELLI

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