Intervista all’artista (che non si considera tale)
di Corinna Marca
Ho incontrato Daniela Nenciulescu nel luogo in cui le sue idee prendono forma: un capannone industriale dalle ampie finestre quadrettate, ricolmo di oggetti di metallo, di sculture del passato e di lavori appena terminati.
Al centro della stanza trova posto una grande installazione. E’ composta da più elementi aventi corpi austeri e longilinei dai quali si sollevano ali leggere che oscillano ad ogni vibrazione o spostamento d’aria.
Si tratta di angeli. Non ci è dato sapere se sono in fase di decollo o hanno appena terminato l’atterraggio, se ne stanno ritti sulle loro basi, occupano lo spazio seguendo ordinate linee prestabilite e l’occhio che le osserva rimane piacevolmente spiazzato dall’armonia che si crea tra la serialità compositiva e l’originalità del taglio che caratterizza ogni singolo elemento.
Poco lontano, su di un tavolino da lavoro, c’è Melahel II, un essere alato ricavato dalla curvatura di un tubo metallico di cui rimane solo la parvenza, in quanto la materia è squarciata da tagli profondi che lasciano ampio spazio al vuoto. L’opera è in fase di ultimazione: tra breve l’azione degli acidi renderà la superficie metallica interna rugginosa, mentre l’esterno rimarrà liscio e corvino. Pur non essendo filiforme, questo piccolo angelo è dotato di grande leggerezza e la scomposizione delle sue ali in più segmenti, ripiegati verso l’alto, crea una tensione che ci conferma la sua propensione al volo.
Attorno alle opere, sul grigio pavimento trova posto anche la materia prima: tubi di metallo, lamiere lucenti in acciaio inox, parti di motori, serbatoi, dischi di freni. È proprio da questi embrioni di metallo, in attesa di acquistare una nuova identità, che inizia la nostra chiacchierata.
Dove recuperi tutti questi materiali?
Lamiere e tubi li acquisto in ferriera, i serbatoi in un’azienda dell’industria pesante che realizza generatori e motosaldatori, le parti dell’automobile generalmente le ritiro dal mio meccanico di fiducia, ma i motori della mostra Alati (2009) sono stati recuperati presso un’azienda di manutenzione delle macchine agricole.
A volte mi capita di restare affascinata da alcuni particolari componenti: qualche tempo fa, nel cortile del fabbro dove mi ero recata per ordinare dei tubi, c’era una macchina per la pulizia delle strade con molle in acciaio veramente interessanti. Nel vedermi così attenta nell’ammirare quelle parti metalliche, il fabbro, che oramai mi conosce bene, mi ha subito detto: “Non ci provare!”.
Utilizzi in tempi brevi il materiale che compri?
Non sempre, a volte mi capita di acquistare materiali che non uso immediatamente, e rimangono per lunghi periodi in attesa di una giusta collocazione.
Ad esempio nella mostra Spiriti dell’Est (2010), dove la tematica era l’Esercito della salvezza, ho realizzato due sculture dal titolo L’esercito della salvezza con orecchino, nelle quali gli orecchini sono parti di motori rimasti nel mio laboratorio per almeno un anno, in attesa di essere “indossati”
Gli oggetti che utilizzi subiscono un processo di decontestualizzazione, perdono il loro significato originario e divengono pura materia al servizio dell’opera d’arte.
Esatto. Non intendo dare nuova vita ad un oggetto di scarto, non sopporterei di essere vincolata da un significato, mi fa paura qualsiasi tipo di condizionamento.
Nella creazione dei miei lavori non parto mai dall’oggetto, prima nasce l’idea e successivamente viene scelto il materiale adatto alla realizzazione della stessa. La materia deve essere al servizio del concetto.
A volte agisco sull’oggetto con un intervento che ne modifica in modo evidente l’aspetto, come sui tubi che ho utilizzato per creare gli angeli, sui serbatoi divenuti alati o sui silenziatori dell’installazione Hora che ho realizzato per la mostra Utopie tridimensionali del 2006. Per i basamenti, invece, uso spesso l’oggetto integro, che mantiene la sua forma in quanto questa si adatta perfettamente alle mie necessità, ma perde la funzione originaria. Nella scultura Eostre, ad esempio, ho utilizzato come base due ammortizzatori.
Osservando le tue opere si deduce che nel tuo processo artistico il taglio riveste un ruolo fondamentale e stupisce come tu riesca a conferire mobilità e leggerezza al metallo, senza tuttavia privarlo dell’austerità e della forza che lo caratterizzano.
Mi piace moltissimo tagliare e ogni volta che lo faccio è una sfida nei confronti del materiale, che acquisisce caratteristiche inaspettate. Il taglio, per me, è fondamentale perché i miei lavori sono animati da un equilibrio che riesco a ottenere solo amputando, sfrangiando e alleggerendo.
E poi quando taglio mi diverto moltissimo, se fosse diversamente non potrei passare così tante ore in questa officina.
Cosa utilizzi per tagliare?
Uso la roditrice, un utensile elettrico che solitamente viene impiegato negli smantellamenti. Ne faccio quindi un uso decisamente improprio. L’ho adattata alla scultura e l’ho abituata a lavorare nel dettaglio, senza che nemmeno lei sapesse di esserne capace.
Mi ci sono voluti due anni per impratichirmi nel lavoro e, anche per questo, sono molto affezionata ai miei utensili, li considero come un prolungamento del mio braccio.
Ricorri anche alla saldatura?
Il taglio delle mie sculture non necessita di saldatura. Prediligo un lavoro caratterizzato dal togliere, che presuppone quindi l’impossibilità di rimediare all’errore.
Mi concedo (una concessione che mi pesa) una saldatura invisibile, solo nel caso eccezionale che si “bruci uno spessore” cioè che si crei una rottura a causa della torsione conferita al metallo.
Mi servo della saldatura, invece, per realizzare tutti gli elementi accessori come supporti e basamenti. Inizialmente non ero molto abile. Poi ho avuto un “maestro” decisamente anomalo: il mio macellaio! Era un ex saldatore…
Segui una linea guida nel taglio?
No, non ho nessuna traccia. Si tratta di un taglio a mano libera e ogni fenditura ha caratteristiche proprie, perché quando uso la roditrice non guardo mai a ciò che ho fatto in precedenza.
Quindi lavori senza bozzetto preparatorio.
Quando ho cominciato con la scultura, nel 1995, realizzavo i bozzetti, poi mi sono resa conto che non li seguivo, così ho deciso di non perdere più tempo e di abbandonarli.
Nel momento in cui inizio a lavorare ho un’idea del progetto generale e nella mia testa sono ben chiare le linee guida che devo seguire, poi, man mano che la roditrice recide, trovo forme che mi soddisfano e, in particolare, la realizzazione dei dettagli, diviene una continua scoperta.
Lavorando in questo modo, una volta terminata una scultura, devo metabolizzarla e abituarmi a quello che ho realizzato.
Il metallo non è l’unico materiale di cui ti servi. Con la carta crei opere nelle quali, attraverso il taglio e la piegatura sfidi il piano, lo superi e doni al foglio una completezza spaziale che generalmente non gli appartiene. Come dialogano queste due forme espressive?
Ho cominciato a dedicarmi alla carta solo dopo aver iniziato a realizzare i lavori in metallo. Ritengo che le sculture possano essere viste come il bozzetto delle carte, infatti in queste ultime cerco di riprodurre ciò che ho già creato con l’acciaio.
Un’ultima curiosità. Parli sempre di lavori e non di opere d’arte, non ti consideri un’artista?
Una volta, durante una mostra alla galleria Spaziotemporaneo, una signora mi ha chiesto: “Scusi, lei è un’artista?”. Io ho risposto: “Non lo so”.
Questa, oggi, è ancora la mia risposta.