il pittore partecipa alla creazione, ha sempre dipinto per un luogo impossibile, che non esiste e deve essere creato…
A 28 anni arrivi in Italia. L’entourage artistico è particolare, il clima che trovi veramente dinamica. Sei entrato in contatto con il noto gruppo dell’arte povera. Come ricordi quegli anni?
Sono arrivato in Italia nel 1972 a Sesto S. Giovanni, qui ho conosciuto Luciano Fabro, Hidetoshi Nagasawa e Franco Rusolli. Dopo sei mesi sono partito per Napoli per lavorare con Framart Studio. Poi ho avuto il privilegio di incontrare Achile Bonito Oliva, Tommaso Trini, Arturo Schwarz, dei veri sostenitori dell’arte d’avanguardia. Tra gli artisti mi emoziona pronunciare i nomi di George Brecht, Joseph Beyus, Jannis Kounellis, Vettor Pisani, Luciano Fabro, Gino De Dominicis, Nicola de Maria, Sandro Chia, Enzo Cucchi, M. Paladino, Francesco Clemente, esempi eccelsi di umanità.
Nei luoghi dell’arte d’avanguardia il clima era veramente speciale, la fratellanza, era molto diffusa tra gli artisti, galleristi e critici. Non posso dimenticare galleristi come Beatrice Monti, Liverani, Emilio Mazzoli, Eva Menzio, Luciano Pistoi, Tucci Russo, Piero Cavellini, Ippolito Simonis. Nel 1978 mi sono trasferito a Torino, dove ho incontrato artisti di cui non cancellerò mai il ricordo, parlo di Mario Merz, Maris Merz, Giulio Paolini, Salvo, Gilberto Zorio, Salvatore Scarpitta, Michelangelo Pistoletto. Per me Mario Merz e Marisa Merz, Joseph Beuys e Gino de Dominicis, fanno parte di un’ideale transavanguardia celeste, sono e saranno il disegno provvidenziale di partecipare alla creazione. A Torino ho sentito che l’opera di un artista era considerata non solo un oggetto artistico ma un atto sociale. Torino è la città del pensiero artistico, scientifico e razionale, una città che ha dato al nostro paese la sua unità. A Torino, con istituti come il Cottolengo, c’e il nucleo del pensiero religioso più santo: quello basato sulla carità.
Nei suoi lavori, i soggetti che scegli sono calati in atmosfere senza tempo; anche grazie al sapiente uso di materiali come il gesso è conferita loro quell’aura di antichità, evocatrice di mondi arcaici in cui passato e presente sono una cosa sola. L’interesse per le cose sopravvissute al tempo c’e sempre stata, infatti, negli anni Sessanta, hai partecipato agli scavi archeologici sulla costa del Mar Nero. Sembrerebbe che il passato perduto, e che viene, se non ritrovato, almeno evocato, possa in qualche modo dire ancora qualcosa agli uomini. Che ne pensi?
Le tracce del passato significano il futuro, riconosco in loro la proiezione e l’aspirazione verso una nuova dimensione, verso una dimensione etica e spirituale. Noi siamo antichi e soli, il divino viene radicato nella terra, nel mistero, nel profondo. Il frammento come reliquia, il frammento come lettere di alfabeti…tutto è dato, occorre solo riconoscerlo. Gli oggetti si cercano, si incrociano, si inseguono. Avvicinarli significa stabilire un rapporto fra loro legami profondi e segreti.
Le tue opere contengono vari simboli, come ad esempio l’albero, o la croce. Ci sveli qualche significato?
Il pittore partecipa alla creazione, ha sempre dipinto per un luogo impossibile, che non esiste e deve essere creato. Disegnare è un rito di evoluzione, è come seminare, seminare un punto di luce, come sorgente e come orizzonte.
Qual è, il più grande potere dell’arte?
L’arte ha la capacità suprema di emozionare gli animi, è gioia, educazione alla libertà e al ragionamento intuitivo, che ci rende degni di essere umani, che ci porta a contatto con Dio. L’artista partecipa alla creazione e questo e il suo dovere.
Da molti anni insegni all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Come vedi le nuove generazioni d’artisti?
La via dell’arte deve rimane fluida e libera, lavoriamo per non farla morire. L’arte era ed è, oltre il suo tempo, molto ricca ed estremamente generosa per i giovani artisti, dà potere, creatività e legittimità. L’arte si presenta come antitesi al sistema e alle strutture del mondo, è una forma di preghiera. Oggi la qualità viene sacrificata all’esigenza superiore della quantità e della mediocrità. Vado sempre con i miei giovani artisti a guardare Beato Angelico, e mi commuove ancora oggi; ha una grande capacità di scuotere gli animi. Per noi è un nutrimento.
Ricordi qualche episodio significativo con una o più persone da te citate, che hai incontrato a Napoli e/o Torino?
Negli anni 1975 e 1976 passavo giorni e giorni in compagnia di Vettor Pisani a Roma. Ricordo i momenti di grande fratellanza. Si parlava del destino dell’arte. Parlare di destino e fare arte sono due avvenimenti misteriosi. Per me il significato dell’arte non cambierà mai. Si parlava di vedere il lavoro da dentro, di non accontentarsi della superficie, ma di scoprire le ragioni profonde dietro esso. Si parlava di una gloriosa avventura che possiamo assumere con tutte le sue conseguenze, se vogliamo che la nostra vita abbia un senso, altrimenti altri si approfitteranno perversamente del nostro comportamento.
Chiudi gli occhi, pensa alla parola libertà. Cosa vedi?
Un punto di luce, come sorgente e come orizzonte.
L’intervista integrale – Anna D’Agostino – nel volume “Radu Dragomirescu – una forte luce orizzontale- sopra il sentiero di vetro”, edizioni Accademia delle Arti del Disegno 2008
Radu Dragomirescu nasce a Roseti (Romania) il 7 giugno 1944. Nel 1973 si stabilisce definitivamente in Italia. Frequenta l’Istituto Romeno di Arti Plastiche N. Grigorescu di Bucarest diplomandosi nel 1969. Partecipa agli scavi archeologici sulla costa del Mar Nero, nelle città di Costanza (Tomis), Mangalia (Calatis) e ad Ischia con la guida dell’archeologo romeno Vasile Canarache negli anni dal 1960 al 1965. È docente della cattedra di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Firenze