Centro Culturale Italo Romeno
Milano

21 febbraio. La Giornata internazionale della lingua madre

Feb 21, 2021

 

“La lingua è il fiore dell’anima etnico della nazione romena” (Mihai Eminescu)

 

C’è tutto un mondo in una lingua madre ed è unico per la sua identità, formata dall’espressione, dalla gestualità e dai suoni tipici diversi da qualsiasi altra lingua – è la prima lingua che sentiamo ed impariamo in modo naturale spontaneo.

Per questo motivo, dal 2000 si festeggia in tutto il mondo, il 21 febbraio, la Lingua Madre, grazie all’iniziativa del Bangladesh, con l’approvazione dell’Unesco. La data non è stata scelta a caso, ma ricorda la tragedia avvenuta nel 1952 quando diversi studenti bengalesi dell’Università di Dacca rimasero uccisi mentre protestavano per il riconoscimento del bengalese come lingua ufficiale.

Nel 2016 una risoluzione dell’ONU rafforzò anche il motivo per cui la giornata è stata istituita spiegando che è necessario “promuovere la conservazione e la salvaguardia di tutte le lingue usate dalle popolazioni del mondo”.

Esistono 7000 lingue parlate sulla terra, ma più della metà è a rischio di estinzione per via della globalizzazione, insieme a loro scomparendo anche il patrimonio culturale ricco di usanze tradizionali.

Ed in questo giorno di festa, ognuno per la propria lingua, che tutti percepiamo meglio l’importanza del proprio idioma e la grande valenza culturale che la propria lingua ha nel paese in cui si vive.

I romeni e gli italiani hanno un passato comune di emigrazione ed immigrazione e quindi uno scambio culturale e linguistico continuo. In Italia esiste una minoranza romena ed in Romania una minoranza italiana, infatti le associazioni italo-romene e romeno-italiane sono numerose in ogni aspetto sociale. La lista della personalità rumene di origine italiana sarebbe lunga da elencare: attori, scrittori, registi, giornalisti, medici, cantanti, tutti professionalmente molto apprezzati e spesso presenti in prima persona nella difesa della comunità rumena in Italia

Per la vicinanza linguistica e culturale, i rumeni preferiscono infatti emigrare in Italia; mostrano attaccamento all’Italia; molti dei romeni in Italia – per lavoro e ricongiungimento con la famiglia – parla italiano anche in famiglia e molti sono riusciti ad avere la cittadinanza italiana. Gran parte del popolo romeno, infatti, ama l’Italia e afferma di non voler lasciare il nostro Paese.

Da cittadino di origine romena in terra straniera, posso dire, che nonostante le origini latini comuni con la lingua di adozione, è molto differente – la sua melodia con note lamentose, melancoliche, l’espressione del viso mentre si pronuncia ed i gesti tipici – la rendono unica.

La lingua romena è molto creativa e originale a creare espressioni e modi di dire popolari. Infatti, solo tu, che sei romeno, puoi capire la parola “doină” o “dor de ducă”, solo tu puoi pronunciare correttamente le parole con diacritici romeni (â, ă, ș, ț), solo tu capisci i modi di dire e la loro ragione di esistere.

A volte rimango senza parole davanti ad uno straniero quando mi chiede di spiegare qualche parola o concetto romeno, più mi sforzo a fargli capire cosa significa per noi dor (un sentimento profondo che la parola trasmette a chi la pronuncia, riconosciuto da linguisti internazionali come parola intraducibile) oppure colindă e più mi rendo conto che non è possibile tradure queste parole, solo romene al mondo, perché devi nascere romeno per sentirle. Per non parlare dell’espressione “m-a tras curentul” (più o meno l’equivalente del “ho preso un raffreddore per via della corrente d’aria) o “mă mănâncă piciorul” (“sento prurito alla gamba”) Ma questo aspetto è valido per ogni lingua – per esempio, un romeno solo dopo tanti anni passati in Italia riuscirà a capire il significato dell’espressione “fare ponte” (mini vacanza di durata superiore a due giorni consecutivi, che si ottiene collegando una festa infrasettimanale con una domenica).

Pur assimilando molto della lingua adottata, quella materna non si scorda mai, sempre in maniera naturale e allo stesso modo in cui viene appresa per la prima volta, perché le radici sono più forti delle nostre volontà.

Come è stato anche per me … (frammenti dal racconto “Pasto nudo”, Antologia “Lingua Madre duemila diciotto”)

 

“La vita è fatta di ricordi e di come i ricordi vengono raccontati.

Dal momento che per me gli unici ricordi che esistono al mondo sono legati alle mie radici, lontane nello spazio e nel tempo, non avrei mai immaginato che quel viaggio di soli due giorni verso il paese dove sono nata e cresciuta fino all’adolescenza sarebbe stato così determinante per me, che una vita intera non basterebbe per raccontarlo.

Fino a quel momento, i posti e le persone che mi avevano riempito la “vita da romena” non erano state cariche di nostalgia, nemmeno di rimpianti. Ricordavo tutto così come è sempre stato: un luogo incantato nel tempo, dove i cambiamenti nella vita quotidiana avvenivano raramente, dove tutti conoscevano tutti e la vita scorreva lentamente, abitudini radicate che per nessuna ragione al mondo dovevano essere sostituite perché rassicuranti. A differenza della città adottiva straniera troppo rumorosa, troppo abitata, troppo illuminata, là si aveva la percezione del suono del silenzio e dell’ombra del paesaggio all’imbrunire. Siluette di bestiame che tornava a casa dal pascolo, galline acquietate appollaiate sopra i rami bassi degli alberi, concerto di grilli e rumori attutiti dalla stanchezza della giornata. Più tardi, a notte piena, le mille lucciole in Terra e i milioni di stelle in Cielo trasmettevano la sensazione di essere al centro dell’Universo!

[…] L’odore che inondava il locale proveniente dalla cucina mi faceva tornare in mente i pasti nudi, come li chiamavamo noi, nelle sere in cui si cenava con pasti freddi composti solo dal contorno di un piatto completo, mancava la carne; l’ingegnosità di mia madre di combinare più tipi di verdure e legumi e la presentazione del piatto ci faceva venire l’appetito solo a guardarlo, erano i migliori pasti che avevo mai mangiato, era l’unica realtà che conoscevamo e ci bastava, intorno a quel pasto nudo c’era serenità, comunione, appartenenza, riusciva a bilanciare il peso dei vuoti.

Viaggiavo in macchina sotto la pioggia e nella mente sotto l’influenza dei ricordi. La pioggia in campagna è diversa dalla pioggia in città: la luce è più chiara, l’odore forte della terra e delle piante bagnate, il sapore dell’acqua della pioggia bevuto direttamente dell’incavo di una gigantesca foglia di geranio, il silenzio del mondo per sentire il rumore della pioggia sulle tegole di legno, tutto induceva alla riflessione e all’incanto alla comparsa finale di un arco multicolore nel cielo. E durante quelle ore di pioggia che avevano inizio i lavori manuali: impellicciare una sedia rotta, lavorare a maglia o rattoppare, pulire le pannocchie di mais dei chicchi secchi come cibo per le galline, tacchini, anatre, maiale o cucinare dolci aromatizzati con foglie fresche di menta e semi di papavero.

Era impossibile trattenere la valanga di rimpianti che mi riempiva la testa per tutte le volte in cui avevo semplicemente trascurato le richieste di compagnia da parte sua, dando per scontato la sua presenza incondizionata. Gli spiegavo in vano che la vita nella città straniera aveva ritmi diversi da quelli di casa, che la giornata lavorativa finiva a mezzanotte e non con il calare del sole come nella campagna romena e che parlavamo poco perché sempre concentrati ad esercitare le capacità vitali per la sopravvivenza urbana. Lui capiva che sua figlia non voleva guardare la realtà in faccia e nascondeva qualcosa da sé stessa a tal punto da rifiutare una conversazione con lui, perché era come guardare fino in fondo dentro di sé. A volte nascondeva il desiderio di tornare indietro alla semplicità, ai pasti nudi e alla famiglia, altre volte la vergogna per l’incapacità di offrire loro una vecchiaia serena.

[…] Non ha mollato nemmeno quando ha capito che sua figlia non sarebbe tornata a casa dopo più di dieci anni di vita in Italia, in cuor suo giaceva un segreto, che per qualche ragione strana intuivo nell’inflessione della sua voce ogni volta che mi chiedeva di raccontare la mia vita in terra straniera, i pro e i contro, le perdite e le rivincite.

[…] Non riuscivo a staccare gli occhi dalla firma leggibile in corsivo sull’ultima pagina dell’atto di vendita della casa, temevo che nell’istante esatto in cui avrei girato lo sguardo in un altro punto lo stacco sarebbe stato talmente forte da farmi cadere a terra per lo spavento, come si fa a lasciare per sempre il luogo dove sei comparso per la prima volta sulla Terra, dove hai respirato per la prima volta i profumi di quel posto e hai riempito lo spazio con i primi suoni e gesti, dove hai conosciuto, imparato, acquisito e offerto tutto te stesso?

[…] Il viaggio in futuro, di ritorno all’altra casa, all’altra famiglia, all’altra vita. Sempre meno straniera. Che mette altre radici.

Cerco nel paesaggio mediterraneo somiglianze con quello dei miei ricordi, non le onde del mare e nemmeno le spiagge, non l’aria salmastra imbevuta di finocchietto, ma la percezione del suono del silenzio e dell’ombra del paesaggio all’imbrunire. Siluette di querce e pini colme di cicale concertando fino a tardi, i rumori casalinghi per la cena lasciano spazio alle mille lucciole in Terra e le milioni di stelle in Cielo che trasmettono la sensazione di essere al centro dell’Universo!

Mi ritrovo in questo posto incantato nel tempo, dove i cambiamenti nella vita quotidiana avvengono raramente, dove tutti conoscono tutti e la vita scorre lentamente, abitudini radicate che per nessuna ragione al mondo devono essere sostituite perché rassicuranti.”

Articolo a cura di Lorena Curiman

 

 

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