Arch. Sorin VASILESCU, direttore degli studi post-universitari della Università di Architettura e Urbanistica “Ion Mincu” di Bucarest
La seconda parte dell presente articolo propone ai lettori uno studio complesso che riguarda l’architettura moderna in Romania.
Come nella maggior parte dei casi in cui si è tentata la trasposizione su altra scala degli elementi del linguaggio architettonico anche in questo caso si è verificato il pericolo di esagerazioni e di interpretazioni discutibili del significato del termine tradizione. Nonostante tutti i difetti inerenti a qualunque stile che si e’ voluto novatore, il neoromeno ha portato un’aria fresca, originale e vigorosa ed ha compreso la “base ideologico-architettonica” per i momenti che dovevano susseguirsi nel divenire dell’architettura romena.
Cosi, il neoromeno “razionalizzato” ha generato una specie di proto-razionalismo che “abbinato” agli esperimenti modernistici del settore visuale ha generato una Art Deco raffinata e pregiata, stile che è sopravvissuto sino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale in parallelo alle ricerche razionaliste o classicheggianti. L’Art Deco fu considerata in tutto il paese, per un certo periodo di tempo, l’”Architettura moderna”, espressione dei desiderata delle nuove generazioni intellettuali e borghesi.
Dopo aver percorso, dalla metà del XIX° secolo sino alla Prima Guerra Mondiale, tappe simili a quelle occidentali, cioè dall’”architettura degli ingegneri” nella variante speciale di Art Nouveau denominata architettura “neoromena”, nel periodo interbellico, l’architettura romena ha percorso tutti gli “ismo”, raggiungendo il culmine nello stile moderno internazionale che si voleva razionalista e che ha generato opere ricche di originalità nel più fiorente periodo della storia moderna della Romania in cui alcune personalità hanno acquisito dimensioni europee: Constantin Brancusi, Tristan Tzara, George Enescu, Dinu Lipatti, Mircea Eliade.
TRADIZIONALISMO – MODERNISMO
In Romania, il momento del modernismo che ha coinciso con l’apice economico-finanziario del paese che aveva un reddito nazionale, negli anni prima della Seconda Guerra Mondiale, maggiore rispetto a quello del Belgio, ha generato un notevole adeguamento alla modernità dell’intera società e cultura nazionale; questa operazione non fu però fatta senza rimpianti e fu accettata come un male necessario, spesso in contraddizione con lo “spirito romeno” e avvolte generando echi senofobi o addirittura antisemitici, dovuti all’origine non sempre “molto ariana” di alcuni dei suoi protagonisti.
Nel periodo interbellico, in vari settori della cultura romena si sono manifestate forme conflittuali su piano teorico tra tradizionalismo e modernismo. Questi “conflitti” erano simili a quegli europei, ma si avvicinavano di più a quelli dell’Italia, essendo tuttavia anche il frutto di “tensioni’ internazionali”. Eugen Lovinescu, noto esponente della critica letteraria romena, è stato uno dei più importanti e costanti promotori del modernismo “dichiarando con calma e urbanità l’impossibilità di qualunque ripresa o continuità dell’eredità culturale” e affermando che “non può esistere una pittura romena moderna a continuazione di quella bizantina, una architettura urbana nata dall’architettura del casale”. In opposizione, un’altra personalità marcante della cultura romena, Nichifor Crainic – poeta e filosofo di fattura cristiana ortodossa – considera che il modernismo sia in gran misura nato dai tumulti politici e morali apparsi dopo la Prima Guerra Mondiale che hanno generato un fenomeno di oscuramento, di allontanamento e alienamento, “promosso dai capitalisti stranieri, in non-concordanza con lo spirito romeno(…) L’architettura di stile nazionale e quella moderna, definite una in relazione all’altra, compaiono, rispettivamente, come orientamento tradizionalista e modernista. Entrambe hanno un’essenza comune, l’assolutizzazione di una delle componenti del rapporto tra tradizione e innovazione. Entrambe, in ultima analisi, acquisiscono nell’architettura il carattere di un fenomeno plastico. Apprezzando il ruolo progressista dell’architettura moderna, addirittura rivoluzionario, non possiamo ignorare i suoi limiti: negare la legge fondamentale dell’architettura quale fenomeno, la continuità. L’architettura moderna ha sin dalla nascita il difetto del modernismo.”
ARCHITETTURA INTERBELLICA
Gli eccessi generati dai mancati adempimenti dovuti al rigido dogmatismo del razionalista stile moderno internazionale condurranno alla ricerca di una nuova forma del moderno attraverso l’uso di una sintassi e di un vocabolario a volte arcaicizzanti, a volte neoclassici. Non si è trattato soltanto di un semplice rifiuto dello stile moderno, ma forse della ricerca di una nuova variante del moderno, non nello spirito del neoclassico ma in quello della “classicità”. Possiamo elencare alcune tra le più rappresentative opere di questo periodo: Ministero della Giustizia, architetto Constantin Iotzu (Bucarest, 1929-1932), la Sala della Fondazione Dalles, architetto Horia Teodoru (Bucarest, 1932), l’edificio centrale della Stazione Nord, architetto Ph. Stefanescu, eseguito dall’ingegnere Gheorghe Ignat (Bucarest, 1932-1934), il Palazzo AGIR (Associazione Generale degli Ingegneri della Romania), architetto Constantin Mosinschi, eseguito dall’ingegnere Emil Prager (Bucarest, 1935), l’ospedale balneare Eforie Nord, architetto N. Nenciulescu, un palazzo con abitazioni su Splaiul Unirii nr.5, architetto Nicolae Cucu (Bucarest, 1936), la Biblioteca dell’Accademia della Romania (Bucarest, 1936-1937), architetto Duiliu Marcu, il Palazzo Amministrativo CFR, architetti Duiliu Marcu e Stefan Calugaru (Bucarest, 1937-1940), la Stazione Reale di Baneasa, architetto Duiliu Marcu, la Scuola di Guerra, architetto Duiliu Marcu (Bucarest, 1937), il Palazzo CAM, architetto Duiliu Marcu, ingegnere M. Hanganu (Bucarest, 1937-1940), il Ministero dell’Industria delle costruzione di macchine, architetto Arghir Culina, ingegnere D. Mavrodin (Bucarest, 1937-1938), il Ministero degli Esteri (Bucarest, 1937-1944), architetto Duiliu Marcu, la Casa dei Pensionati dei Teatri e dell’Opera Romena, architetti Nicolae Cucu e Ion Davidescu (Bucarest, 1936), il Collegio dell’Università (Casa degli Universitari di Cluj), architetto George Cristinel (1936), il Circolo Militare di Cluj, architetto N. Georgescu, l’Istituto Agronomico di Bucarest, architetti Florea Stanculescu, Stefan Peternelli, Radu Udroiu e Leonida Plamadeala, il Padiglione Romeno all’Esposizione Universale di Bruxelles (1935), architetto C. Mosinschi, il Padiglione Romeno all’Esposizione-Fiera di Belgrado (1937), architetto V. Smigelschi, il Padiglione Romeno all’Esposizione Internazionale di Parigi (1939), architetto Duiliu Marcu, il Padiglione ufficiale della Romania all’Esposizione Internazionale di New York (1939), architetto G. M. Cantacuzino, il Padiglione Romeno all’Esposizione-Fiera di Varna (1940), architetto C. Mosinschi, l’Istituto di Storia “Nicolae Iorga”, architetto Petre Antonescu (Bucarest, 1936), i Padiglioni del Parco Herastrau “Luna di Bucarest” (1938), architetti Horia Creanga e Haralamb Georgescu.
A questa esperienza degli anni ’30 – ’40 si aggiungeranno le drammatiche conseguenze dell’ultima Guerra Mondiale, vera catastrofe su tutti i piani ed in tutte le direzioni.
ARCHITETTURA DEL DOPOGUERRA
La tragedia dell’ultimo conflitto mondiale ha condotto nel mondo occidentale ad un ampio processo di ricostruzione fatto, con tutti gli adempimenti e le sconfitte inerenti, in spirito moderno, razionalista. Però, per la Romania, come per tutti i paesi dell’Est, satelliti sull’orbita del totalitarismo sovietico, la ricostruzione del dopoguerra, compiuta con enormi sacrifici, ha condotto verso azioni anacronistiche ed esperimenti fondamentali antimoderni, verso un primitivo ritorno ad un neoclassico “caro”, reazionario e ridondante. L’esperienza stalinista è durata un decennio, logorando dal punto di vista visivo e morale l’intera architettura romena. I due decenni dell’occupazione sovietica hanno fatto apparire un’arte plastica ed una architettura di importazione, realista-socialista che, quale forma della “sovrastruttura”, grazie ad una espressività immediatamente visibile, seguiva il “riflesso perfetto della nuova società”, ridefinendo in maniera primaria la dicotomia tra forma e contenuto. Il realismo socialista – che non si è mai definito per quello che era, ma per quello che non era – si ingannava affermando di non essere “solo un sistema di norme e canoni astratti. La delimitazione degli orizzonti (…) è per natura estranea al metodo del realismo socialista che apre di fronte agli architetti possibilità illimitate di arricchimento del linguaggio artistico, della creatività e della comprensione dei vari stili. In tal modo, piano piano, sarà instaurato ciò che Pasternak chiamava il potere magico della lettera morta. Al posto della concezione dinamica e sempre novatrice sull’arte, al posto di una estetica della rivoluzione e di un’arte in relazione costante con la realtà…, è apparsa una miscellanea di forme, si è tornati verso una espressione tradizionalista unica e verso un moralismo detto realista, la cui vera funzione era di nascondere qualunque forma di realtà. Questo fenomeno segnerà, attraverso altri mezzi, l’intera evoluzione dell’architettura … stalinista”. (Anatol Kopp, L’Arte realista–socialista, Editrice ???, Parigi 1994).
La pseudo-arte realista–socialista si è voluta “classica” e fu anti-classica, retrograda e sterile, come il monumento dedicato al soldato sovietico (traslocato e demolito dopo l’89) realizzato da Constantin Baraschi o il prodotto diretto dell’architettura stalinista, “delle alte costruzioni in Mosca” quale la “Casa della Scintilla”, opera degli architetti Horia Maicu e Nicolae Badescu. L’invasore sovietico ha imposto non solo ricette estetico – architettoniche, ma anche ricette urbanistiche quali i “rioni stalinisti” sul Viale Panduri. Nonstante l’obbligo alla “prostituzione” morale e professionale, furono realizzate, usando il linguaggio neoclassico, opere considerevoli dal punto di vista della qualità e del valore quali il Palazzo di Snagov, la facciata verso la Piazza del Palazzo, della Società Immobiliaria, facciata denominata “Palazzo Calcaneo”, dell’architetto Richard Bordenache.
All’inizio degli anni ’60 il relativo distacco dallo stalinismo e l’allontanamento da Mosca hanno permesso l’abbandono delle forme architettoniche del realismo socialista tentando una nuova sintonizzazione con il moderno, ma con i mezzi materiali sempre più modesti di un paese che da ricco e civile si trasforma in un paese su via di “sotto-sviluppo”, grazie ad un processo socio-politico che tramite l’incompetenza e l’indottrinamento distruggeva materialmente e moralmente tutto. Tuttavia, uno dei lavori architettonici più importanti di questo “decennio della speranza” è il Municipio di Baia Mare, realizzato dopo molti anni di imposto silenzio professionale dall’architetto Mircea Alifanti, pertinente dimostrazione che l’espressionismo è piuttosto “uno stato che uno stile”.
A questo decennio di parziale distacco dalle influenze sovietiche di vari tipi seguirà, per motivi socio-politici ben definiti, uno strano fenomeno retrogrado, reazionario, di restauro, con dogmatica intransigenza, da parte dell’intendenza politico-culturale, dell’idea che l’architettura “arte di stato” deve rispondere agli alti comandamenti di fattura propagandistica e politica dell’”epoca d’oro di Ceausescu” tramite l’uso di forme stilistiche il cui linguaggio dovrebbe appartenere allo stile internazionale-accademico-neoclassico.”
I risultati di tale azione “tipicamente-specifica” del mondo totalitario hanno condotto non all’inserimento nella contemporaneità, attraverso l’uso del “citato storico”, come postmoderno”, bensì alla realizzazione su scala gigantesca, megalomane, di un semplice e maldestro decalco delle forme neoclassiche, reazionarie per il loro anacronismo e ridondanza. Per l’adempimento di tali ideali, il potere totalitario ha corrotto “totalmente” tutto, attuando uno dei più schizofrenici piani di tutta la storia dell’architettura moderna. Bucarest, “la piccola Parigi”, con tutta la sua storia di cinque secoli, è stata vittima di una esperienza retrograda e reazionaria senza paragone per dimensioni e infamia. Questo esperimento ha condotto all’apparizione del viale “Vittoria del Socialismo” e della “Casa del Popolo”.
SORTE DELLA CITTA’
In Romania, il sistema totalitario, considerato una mutazione al limite del patologico apparso a livello della relazione reciproco-biunivoca tra stato e potere, ha generato negli ultimi due decenni una nuova forma di ri-modellatura delle coscienze attraverso “l’architettura”. Si considerava che l’esperienza architettonica interbellica fascista, nazista e stalinista non poteva ripetersi più alla fine de XX° secolo e che l’architettura totalitaria sarebbe diventata solo una pagina di storia. Però, con una incredibile perversità e con un’informazione specializzata da invidiare, in Romania fu data all’architettura totalitaria una nuova interpretazione, che ha condotto ad un totalitarismo di seconda generazione, megalomane ed assurdo, destinato a cancellare qualunque elemento della “memoria architettonica”.
L’architettura, quale principale strumento della rappresentazione dello stato, ha cambiato “il significato ed il significante” diventando il principale strumento della “propaganda visuale”, generando così l’”Arte di stato”. Ma ”l’Architettura arte di stato” significa architettura totalitaria. E questa architettura totalitaria si è pienamente compiuta nella capitale della Romania, Bucarest, ed in alcuni villaggi del paese, aggredendo profondamente il vero settore della spiritualità rappresentato dalla “memoria” perenne.
Le operazioni del tanto discusso “sventramento di Roma” del periodo mussoliniano svaniscono di fronte alle gigantesche dimensioni del viale “Vittoria del Socialismo”, asse trionfale che taglia diametralmente la città, dividendola in due parti ed avendo nelle zone più strette più di cento metri di larghezza. Per la realizzazione di questo nuovo centro politico-amministrato furono demolite più di quarantamila costruzioni: abitazioni, edifici amministrativi, monumenti d’arte e culturali, monasteri e chiese che rappresentavano, per la realtà romena, valori inestimabili. La superficie demolita è uguale alla superficie di Venezia. Questa asse piantata brutalmente nel cuore della città fu concepita volutamente come generatrice del vuoto urbano, tanto caro all’urbanesimo totalitario, provocando alla città una ferita che, bensì non letale, ha lasciato una cicatrice incancellabile. Il grande viale della “Vittoria del Socialismo” rappresenta la via delle processioni immaginarie e amaramente reali che hanno come meta la “Casa del Popolo”, forma architettonica aulica apparsa nel contesto degli anni ’80. Espressione plenaria delle aspirazioni e dei complessi di inferiorità del potere totalitario, dettata sino ai più fini dettagli dalla coppia presidenziale, la Casa del Popolo ha come significato la messa in opera di alcuni dei “lumpen-ideali” metamorfosati perche servissero il potere. Opera afunzionale e assurda, la Casa del Popolo e l’abietto sostituto di uno dei maggiori e significativi simboli della città di Bucarest, l’ex Corte Principesca, conosciuta sotto il nome di Corte Bruciata. In realtà è una ossessione del totalitarismo che tenta di “legittimarsi” attraverso l’architettura, fatto che ha condotto verso una costruzione astilistica, aculturale e soprattutto amorale, realizzata a scala gigantesca, megalomane, come avrebbe detto Speer, e che per le sue dimensioni è la seconda costruzione del XX° secolo dopo il Pentagono americano. Dal punto di vista estetico, la cacofonia architettonica, l’insicurezza linguistica toccano il kitsch attraverso citati postmoderni controllati “balcanicamente” ed adattati all’”acultura” del mondo totalitario romeno. Per la realizzazione di tale aberrazione architettonica totalitaria di seconda generazione, alla città di Bucarest fu amputata una superficie della città antica uguale a quelli di Venezia, con la netta intenzione di cancellare la memoria urbana, di creare una “meta-realtà” in cui i termini di riferimento fossero la nuova realtà (irreale) di Ceausescu. La vera antica città, ricca di significato, in cui gli eroi di Mateiu Caragiale erano quasi sempre presenti, è rimasta solo un ricordo.
La lotta di classe, idea leninisto-stalinista, considerata stimolo della storia è stata interpretata con “originalità” in altra chiave, in chiave architettonica. Ma non la lotta tra le classi sociali, ma la lotta tra la città nuova, rappresentante dell’unicità della società “complessivamente sviluppata” (“multilateral dezvoltata”), e l’antica città, condannata a “damnatio memoriae”, è stato l’impulso per un’azione simile, mutatis mutandis, a quella dei khmeri rossi. Il genocidio è simile.
Con uno sforzo inimmaginabile si è tentato di sostituire l’antica città con quella nuova ed eliminare qualunque legame con il passato. Sono state effettuate operazioni complesse di demolizione totale, parziale o di trasloco e di otturazione con le così dette “cache eglise” che hanno avuto come oggetto zone residenziali, monumenti d’arte, monasteri, chiese. Il trasloco di alcuni monumenti, atto difficile dal punto di vista tecnico, è diventato strumento propagandistico per presentare all’opinione pubblica nazionale ed internazionale “la cura del partito per i valori del passato”; in essenza, tale azione bramata e sottile ha avuto come meta il cambiamento del “significato” e del “significante” dei monumenti non attraverso la loro distruzione fisica, ma attraverso la distruzione dello spazio architettonico circostante.
Furono “sradicate” e traslocate: le Chiese Olari (Mosilor), Sant’Elia (Rahovei), il Nido con la Cicogna (Berzei), la splendida Chiesa del Monastero Mihai Voda, chiesa simbolica costruita dal Principe che ha unito per la prima volta i tre Principati Romeni nell’anno 1600. Il monastero è stato totalmente demolito, mentre la Chiesa ed il Campanile furono traslocati duecento metri dalla collina che gli ha ospitati per quattro secoli e nascosti ulteriormente nel cortile di servizio di alcuni palazzi con abitazioni. Il Convento delle Sorelle (Schitul Maicilor) ha avuto la stessa sorte: il monastero fu demolito integralmente, mentre la Chiesa traslocata ed abbandonata in un ambiente ostile della nuova città.
Sono state demolite totalmente parecchie chiese: Alba Postavaru, Spirea Noua, Sfantul Spiridon Vechi, Sfanta Vineri. Però il delitto massimo, abominevole, è stato la demolizione totale e gratuita del Monastero Vacaresti, benchè non si trovasse nella zona del nuovo centro politico-amministrativo, una delle più rappresentative opere d’arte ed architettoniche del Principato Romeno. Costruzione di ampie dimensioni, la forma più complessa, sintesi della nostra architettura, fu demolita nonostante i nostri disperati protesti, nonostante gli ampi lavori di restauro iniziati un decennio prima. Sono rimasti soltanto ricordi: il più grande monastero, la più grande chiesa, un magnifico e raffinato palazzo principesco, gli affreschi di eccezionale valore. Tali sacrilegi furono commessi non per creare uno spazio vuoto dedicato all’inserimento di un altro nuovo, ma per la sostituzione totale della memoria storica con un falso assoluto. Bucarest è diventata un “paziente” del totalitarismo comunista, sottoposto ad un intervento chirurgico di grandi dimensioni, fatto da fratelli “collaborazionisti” che hanno confuso coscientemente la chirurgia con la macellazione. Essi furono però soltanto “la man che ubbidisce all’intelletto”, un intelletto però profondamente anti-intellettuale rappresentato da un intero apparato ideologico-organizzativo di repressione, prodotto di un partito unico che voleva confondersi con lo stato e che si auto-rappresentava attraverso l’immagine pseudo-carismatica dell’essenza della personalità collettiva, il capo supremo.
Attraverso il suo ideale, mai confessato, ma facilmente decifrabile, e cioè di annullare irrevocabilmente qualunque forma di ricordo architettonico, l’esperienza urbanistico-architettonica della così detta “epoca d’oro – Ceusescu” ha creato, grazie all’arte di costruire, uno strumento efficace per la propaganda del potere che, anzichè conferire alle aspirazioni formali ed alle necessità sociali specifiche “abiti” nuovi contemporanei, ha offerto una divisa fuori moda, prodotta dalla pseudo-estetica del potere totalitario assoluto che ha corrotto in modo assoluto.
Il nuovo centro politico-amministrativo della Romania socialista, nella variante Ceusescu, è l’immagine di un’opera che con profonda efficacia perversa nasconde un vero agrammatismo realizzando, come affermava il professor Jacques Gubler durante i lavori del Seminario di Vicenza (1988) dedicato ai totalitarismi degli anni ’30: “La copulazione tra i complessi di inferiorità del potere semi-analfabeta e il surrogato di una ideologia neoclassica”.
Il nuovo centro civico di Bucarest, composto dal viale Vittoria del Socialismo e la Casa del Popolo, è un opera non post-moderna, così come alcuni degli architetti collaborazionisti hanno tentato di considerare, ma piuttosto eclettico-neo-classica, o meglio detto un miscuglio di bizzarria e abietto, di kitsch e neoclassico. C’è però neoclassico tra neoclassico; si tratta in questo caso di un neoclassico anacronistico ed a buon ragione Bruno Zevi affermava: “Chi parla oggi di neoclassico si sporca le mani”.
Nella speranza ingenua che i fatti di natura cancerogena che hanno colpito la città di Bucarest negli anni ’80 una volta conosciuti nella loro assurda e abietta infamia, non si ripetessero più, chiudo questo patetico capitolo dedicato alla storia dell’architettura contemporanea romena con le parole di Karl Jaspers: “Ciò che è successo costituisce un avvertimento. Dimenticare significa diventare colpevole. Dobbiamo ricordarcene costantemente” e con quelle dello storico romeno Nicolae Iorga: “Chi dimentica, non se lo merita”.
La caduta del sistema comunista, dopo gli eventi del 1989, ha condotto, con le difficoltà inerenti alla transizione, verso la reintegrazione dell’architettura romena sulla via della normalità non priva di pericoli specifici alla crisi generale della cultura moderna.