“Dodici più un angelo” di Ingrid Beatrice Coman
Ho ricevuto il libro “Dodici più un angelo”uscito recentemente per i tipi di Ellin Selae di Murazzano (CN) e l’ho letto tutto d’un fiato come fosse una preghiera, di quelle un po’ lunghe che si leggono spesso prima dell’inizio di una messa di rito bizantino per preparare l’anima a ricevere l’amore racchiuso nella consacrazione. E di fatto, il libro finisce con una sorta di sacrificio, di trascendentale indizio della “via verso casa”.
È la storia di una “ierofania”, della rivelazione del sacro nelle vesti di un barbone per cambiare le sorti di una città. E la sua odissea umana diventa una minuziosa opera di architettura letteraria e simbolica per rimettere insieme ”il fiore della vita”, l’armonia tra i vari tipi umani identificabili in qualunque città, come unica via per uscire dalla solitudine che affligge l’uomo moderno e che lo fa diventare spesso un mostro, un nemico o un estraneo a se stesso.
“Faceva freddo, molto freddo, nel mondo degli uomini…” e questo è l’unico miracolo compiuto da Emanuel, il profeta barbone: far risplendere la luce insita nell’animo umano per abbattere il freddo della solitudine. Il compito di questo straniero insolito era di trovare altre anime “giuste” che possano unirsi a lui e formare una forte base di armonia e amore per salvare la città in rivolta contro “gli altri”, contro “gli stranieri”, e che, in realtà, non riesce più a trovare la forza di combattere il marcio presente dentro la sua stessa comunità.
L’intero libro non è altro che una metafora che racchiude in se tanti fatti e fatiche del nostro vivere quotidiano: la corruzione e l’apatia delle amministrazioni, gli attacchi violenti e ingiustificati dei gruppi di malviventi di turno che qui si fanno chiamare “Il Clan dei Puri”, la gente senza dimora, gli immigrati che hanno paura di farsi vedere in giro e cercano di guadagnarsi da vivere come possono, i depressi, i delusi, i preti senza vocazione, i malati rifiutati dalla buona società e pure qualche anima rara che lavora in ombra a servizio degli altri. Tutto questo costruito intorno all’idea della grande solitudine individuale e della comunità che ha perso la sua traiettoria storica, che ha smarrito “la via verso casa” e che ha bisogno di un salvatore, di qualcuno o qualcosa che possa svegliare il loro sentire profondo: “Parevano tutti caduti in un sonno profondo. A ogni passo, la solitudine di ognuno di loro si allargava come una gabbia di ostilità che premeva contro le gabbie degli altri”.
Sembra la storia di due mila anni fa, un leitmotiv che si ripete in ogni epoca: ed è la storia della solitudine dello scrittore che butta un’ancora, che si nutre del quotidiano, del profano e che cerca di redimerlo, rivelando la sacralità profonda.
Sul piano filosofico, questa è la dimensione storica delle religioni che si sviluppa in un rapporto dialettico fra il sacro, che ha bisogno del profano per manifestarsi, e il profano, che da una parte vi si oppone e dall’altra lo rivela. Ma, come ha sostenuto anche il celebre studioso della storia delle religioni Mircea Eliade, la religione naturale non esiste, né può esistere in quanto la natura è sacra solo nella misura in cui manifesta un significato soprannaturale.
In questa lettura, anche i “dodici angeli” completano una geometria sacra formata da simbologie cristiane (i nomi Emanuel, Maria, il cane Lord, Giacomo, Pietro, Gabriele, Luca, il numero sacro, l’idea del Purgatorio replicato nello stato di coma all’ospedale in cui avviene una sorta di “giudizio dell’anima con il corpo”), ma anche simboli della mitologia orientale (Ashtar) e della cultura islamica (Abubakar). Una rosa di anime che reiterano la struttura originaria del simbolo e ricreano insieme il legame con il sacro attraverso l’amore che va oltre ogni legge o differenza. “Quando c’è l’amore, Maria, è tutto perfetto. È quando non c’è che bisogna rimpiazzarlo…con leggi, tribunali, giudici e quant’altro per mettere a posto le cose. L’amore non ha bisogno di essere aggiustato”.
Come nelle varie ierofanie, e come accade spesso anche nella prosa fantastica di Mircea Eliade, sono i personaggi comuni o al margine della società che intercettano i “segni” e accedono a entrambe le dimensioni. Qui c’è il “negro” disprezzato ma poeta, il barbone che una volta era un normale capo famiglia che non riesce a fare pace col passato, un’infermiera in cerca d’amore, un bambino autistico, un cane etc. Grandi, piccoli e animali in un unico abbraccio. S’identificano anche alcune delle strutture principali che acquistano particolare importanza in tutti i sistemi mitici e religiosi: la trascendenza (il mondo di Emanuel, il vento che benedice i presenti alla fine del romanzo “Poi il vento fece il giro della piazza …come una carezza affettuosa sulla testa di un bambino”, “e tutti seppero”), il centro del mondo, che qui è “uno scantinato qualunque, in un anonimo quartiere di periferia”, la chiamata o l’impulso che ognuno dei dodici riceve, senza accorgersene, di cercare dentro se stessi e di aprirsi verso gli altri.
Il libro continua la serie di romanzi della scrittrice Ingrid Beatrice Coman dedicati ai più deboli, scegliendo questa volta la periferia di una città di oggi come luogo prediletto. I primi tre romanzi: “La città dei tulipani”, “Tè al samovar” e “Per chi crescono le rose” erano ambientati in paesi diversi alle prese con grandi provocazioni della storia e dell’animo umano. Anche qui la scrittrice si avvicina ai suoi personaggi sempre con discrezione, con grande sensibilità e dispiego di metafore e comparazioni che suppliscono una minuta descrizione e autonomia degli eroi. I personaggi sono descritti sommariamente e vivono di rimandi e tratti dominanti, di sensazioni molto forti, piuttosto che di epicità, anche se ognuno di loro compie un forte gesto di “conversione” o di “ritorno” in se. In ogni pagina si respira lirismo e i dialoghi servono soprattutto per puntualizzare le idee e i sentimenti.
“Emanuel sedeva in silenzio in mezzo a loro, come un fiume stanco di stare dentro i suoi argini, e lasciava scorrere tutta la luce che aveva dentro, tutto l’amore che portava da casa sua, tutta la compassione che gli faceva prudere le dita dalla voglia di consolare, abbracciare, accarezzare quella famigliola nata dal nulla. Non era merito suo. La scintilla nel loro cuore lo rendeva possibile e lui era solo lo specchio in cui rifletterla”.
Maria Floarea Pop