Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Gheorghe Cerin, chirurgo

Mar 9, 2009

 

Il medico Gheorghe Cerin

Il medico Gheorghe Cerin

 

Gheorghe Cerin – medico chirurgo, responsabile del Dipartimento di Cardiologia della Clinica San Gaudenzio di Novara

“il mestiere di medico è un mestiere privilegiato, ha avuto sempre una posizione a parte nella società, legata al fatto che il medico è colui che prova a curare uno stato di sofferenza…”

 

Lei ha un palmarès molto ricco per quanto riguarda il mestiere di cardiologo, ha acquisito stima sia da parte degli italiani che da parte dei romeni che vivono in Italia. E’ un “medico pieno di grazia”, cosa significa questo mestiere per Lei?

Ritengo che sia un mestiere privilegiato, ha avuto sempre una posizione a parte nella società, legata al fatto che il medico è colui che prova a curare uno stato di sofferenza di un suo simile, indipendentemente dalla sua nazionalità o dalla sua posizione nella scala sociale. E la sofferenza ha, in un certo senso, un carattere universale, perché può colpire chiunque. Pochi fra di noi hanno la fortuna di esserne completamente immuni. Aggiungerei anche che la possibilità di studiare la vita e la sofferenza dell’uomo rappresenta un privilegio, perché ti si dà la possibilità di vedere con gli occhi della mente quello che c’è dentro di noi, cosa vuol dire e com’è composto questo piccolo motore così complesso e sorprendente. Sono stato e rimango estasiato e appassionato da quella che è la meraviglia dell’essere umano nella sua profondità. Perché il piccolo motore di cui parliamo ha a che fare con qualcosa di speciale. Questo piccolo motore sorprendente è stato progettato, secondo la mia opinione, da colui che ha creato tutte le cose che ci circondano: dalla luce, al buio e dagli uccelli del cielo, ai pesci dell’acqua. Direi che davanti alla sofferenza, “il medico pieno di grazia”, come Lei lo ha definito, mette alla prova tutte le sue forze, l’energia e le conoscenze che ha accumulato in anni di studio e di esperienza, per aiutare il prossimo in difficoltà, per provare a curare un ammalato. Se dovessimo semplificare, si potrebbe dire che la medicina clinica è un fatto di conoscenza inter-umana: il medico mette in gioco tutta la sua esperienza per “ decifrare” e curare l’ammalato, e questi con la sua malattia gli trasferisce informazioni legate alla sofferenza e al suo essere. Il mestiere di medico ti gratifica immensamente, ma sei sempre in prima linea! Per un cardiochirurgo come me, è una continua scommessa.

Visto che parla di questo legame speciale, si è sempre detto che la scuola di medicina romena ha come fondamento la medicina clinica, questo significa l’anamnesi, l’esame clinico e la valutazione dell’ammalato. In pratica, nel momento in cui si è toccata questa fase si passa ad un’altra tappa: l’esplorazione paraclinica. Dall’esperienza acquisita in Italia, come abbina questi due aspetti che portano alla conoscenza profonda del caso e della malattia?

Questa affermazione riguardo alla medicina romena è molto vera! Si tratta di una medicina con un profondo senso clinico, per tradizione e perché è più povera e meno tecnologica di quella occidentale e ha mantenuto quella parte sottile di valutazione del malato partendo dall’anamnesi e dallo stetoscopio. Sarebbe bello che al giorno d’oggi, si comportassero così anche i miei colleghi degli ambulatori, guardia medica e degli ospedali, a qualsiasi livello! L’approccio medico che ho appreso alla Romania ha avuto un ruolo fondamentale nella mia formazione come professionista. Le fondamenta della mia carriera di medico clinico, le ho gettate lì! La medicina romena dà ancora tanta importanza a questo rapporto, insegna al medico tantissimi gesti clinici e il loro valore, insegna a osservare il malato che si trova davanti a lui; è soprattutto valutazione, comprensione e anamnesi. Ho avuto la grande fortuna di avere professori con una dedizione speciale verso questo aspetto della medicina, i quali mi hanno insegnato ad apprezzare l’uso del parere clinico nell’affrontare un caso.

In Occidente, grazie alla tecnologia avanzata, la medicina clinica ha perso terreno, il medico è visto più come un tecnico, un operatore che si serve di tutti i mezzi tecnologici di cui può disporre, ma si limita a quello. Di solito, non c’è una grande differenza tra le domande e l’anamnesi del personale di guardia medica e del medico stesso del guardia medica. Si ricorre alla diagnosi tecnologica, più che all’anamnesi e all’esame clinico. In Italia mi dicono spesso che ho un modo tutto mio di fare il dottore ed è frutto dell’attenzione che ho imparato ad accordarla al malato, a tutto il suo essere e alla sua sofferenza, partendo dalla discussione attenta con lui e arrivando all’esame clinico. In qualità di ecocardiografista, quando eseguo un ecocardiogramma, lo faccio con estrema attenzione perché so che dopo di me non c’è più nessuno che può controllare, c’è solo la sala operatoria e il confronto diretto del chirurgo con quello che io ho visto sul monitor. Dopo tanti anni passati in ospedale, sono convinto che l’ammalato debba poter affidare con convinzione la sua malattia a qualcuno e questo “ qualcuno” è un dottore che si mette al totale servizio dell’ammalato.

Una tecnologia avanzata può andare a discapito del malato dal punto di vista clinico perché disumana il rapporto medico-paziente. Ma anche la sola preparazione clinica, per quanto ottima, senza l’utilizzo di tecnologie avanzate non basta. Bisognerebbe poter disporre di entrambe. Il sistema sanitario in Romania deve ancora recuperare molto terreno in campo tecnologico, a partire dalle moderne apparecchiature.

Certo! La Romania è ancora sulla strada dell’acquisizione di queste nuove tecnologie, di cui c’è un immenso bisogno. Chi viene dall’America in Occidente, pratica il mestiere di medico con maggiore successo perché viene da una medicina basata sulla tecnologia. Altrettanto non si può dire di un medico che provenga dalla Romania o dall’Albania. Qui in Occidente, come dicevo, il dottore ha più un ruolo di tecnico, che dispone della TAC, della risonanza magnetica, dell’apparecchiatura per le angiografie, scintigrafia e ecografie ecc., e spesso non guarda neanche in faccia l’ammalato. Si limita a guardare le immagini su di un monitor! A 40 anni, mentre studiavo medicina per la seconda volta nella mia vita qui in Italia, all’esame clinico di Medicina Interna, il professore è rimasto interdetto dalle manovre cliniche che praticavo al paziente che dovevo esaminare. Mi ha interrotto davanti al resto degli studenti e mi ha chiesto cosa stessi facendo e che senso avessero quei gesti imparati in Romania. Qui non si praticano più da tanto e non sono più neanche tramandati allo studente. La medicina tecnologica ha sostituito le sottili informazioni ottenute in parte dalla discussione con l’ammalato, dalla sua osservazione attenta e dal controllo clinico. Si perde qualcosa che si è accumulato durante anni e anni di osservazione, qualcosa che costa poco, e aggiungerei, vale tanto… Al contrario, la tecnologia costa soldi e a volte implica troppe radiazioni. E richiede molto tempo. Ma aggiunge precisione e profondità alla diagnosi, senza le quali non possiamo andare avanti! È così! La medicina e i tempi sono cambiati! E noi dobbiamo tenere il passo.

Nella clinica San Gaudenzio di Novara, dove lei svolge la sua attività, direi che è una lotta continua per la vita. Che ritmo impone questo ad un medico, quali sono i costi e i sacrifici che non si vedono, ma che lei e la sua equipe conoscete bene?

In una clinica, in un reparto di cardiochirurgia, ma non solo è una questione di lavoro di squadra; vogliamo ottenere un risultato e lottiamo insieme per conseguirlo, ci piace quello che facciamo e ne siamo appassionati. Solo così riusciamo ad affrontare le difficoltà. Per me, l’orologio da polso ha, vi prego di credermi, una funzione puramente estetica; sono entrato qui ma non so quando esco e non mi pongo più questa domanda. Perché diversamente non si può …

Ogni anno, nella nostra clinica vengono operati circa 800 pazienti, con un’età media di circa 67 anni e che, di solito, si trovano in uno stadio avanzato della malattia. Circa la metà sono diabetici, e solo questo particolare penso che dice tanto delle difficoltà che dobbiamo superare quando curiamo i malati. Raramente in sala operatoria effettuiamo solamente un intervento; la maggior parte degli ammalati ha bisogno di due, tre o anche più operazioni, che si accumulano nella stessa seduta operatoria. E questo accresce il rischio. Mi riferisco al rischio di morte. Il fatto che rispetto ad una mortalità stimata di circa 14% all’anno, abbiamo in realtà non più di 3% all’anno, dipende dalla professionalità del gruppo, ma soprattutto dal lavoro di squadra. Dove ognuno ha il suo ruolo. Questo implica sacrifici, che sicuramente non è facile raccontare né contabilizzare. Perché non si vedono. Direi che è uno sforzo che non può essere misurato in denaro: tra il mio lavoro e lo stipendio che percepisco, non c’è alcuna proporzione. Perché Il paziente è un essere ferito, nella sua sofferenza ha bisogno della presenza del dottore, che diventa così la sua “guida” e il suo punto di riferimento. Davanti all’intervento l’ammalato è pieno di paure, ti cerca, ti chiede, tutto il suo essere vibra, è spaventato. Come medico, hai il compito di stargli vicino, spiegargli che cosa succede in sala operatoria, convincerlo a fare questo passo e che sarà LUI a dover reagire. Che non è un armadio portato in sala operatoria, ma un essere vivente, con una sua volontà e che dovrà reagire e lottare! Questo comporta un dispendio di tempo e di energie, uno sforzo, uno stress particolare per te come medico, al di fuori di quello che devi fare nella sala operatoria.

Qui nel suo studio della clinica, ha portato una piccola parte della zona dov’è nato, della bellezza della natura dov’è vissuto da bambino: due bellissimi quadri dipinti da sua sorella. È originario dalla zona di Dobrogea, luogo carico di storia e di spiritualità. Che nostalgia ha delle sue radici? Del luogo che ha lasciato tanto tempo fa?

Sono andato via di casa quando avevo 14 anni, al liceo, poi all’università… nella mia mente resta quel paese con uomini onesti e perbene che ho conosciuto ai tempi della mia infanzia; ho avuto un’infanzia libera, felice potrei dire… dal mio punto di vista, quell’infanzia che in campagna, vicino ai miei genitori, mi ha dato una struttura verticale, una certa sicurezza e una libertà di essere, che penso abbia dato un’impronta profonda alla mia personalità. Il paese della mia infanzia mi ha insegnato molte cose, specialmente nelle relazioni con gli altri. Era un mondo con dei valori, aveva un suo modo di essere, era una gerarchia. Posso affermare con gioia di NON avere vissuto l’infanzia davanti alla televisione, né ho conosciuto il mondo grazie a delle immagini e dei reportage, ma attraverso il contatto incondizionato con la natura e il gioco con gli altri bambini. L’universo dei bambini era un universo a parte ed è molto importante.

Guardando indietro mi rendo conto che un altro aspetto essenziale della mia generazione è il fatto che noi abbiamo trascorso l’infanzia accanto ai nostri genitori, con i quali stavamo tutto il giorno. Vedevamo la loro fatica, vedevamo e sentivamo il loro amore e la loro autorità. Forse non abbiamo potuto avere tutto quello che desideravamo, ma non penso che questo sia così fondamentale per un bambino… La presenza del genitore è ciò che lo aiuta a crescere sano: è dalla famiglia che riceve i principi e i valori che lo accompagneranno nella vita…L’’uomo è come una pianta, ad un certo punto della vita, dell’infanzia e soprattutto dell’adolescenza, può crescere un ramo BUONO, che deve essere coltivato, o un ramo CATTIVO. Compito del genitore è di accorgersene e di estirpare il ramo cattivo. È molto importante, altrimenti posso trovarmi con un tronco cattivo troppo grande e, se lo taglio troppo tardi, rischio di perdere la pianta. E questo è un valore incontestabile! Il contatto con la realtà della vita deriva dal vedere i propri genitori nella loro fatica quotidiana. Questo ti matura. Altrimenti i bambini diventano adulti-bambini, instabili, e per poter avere equilibrio cominceranno a cercarlo in altri modi, dalle polveri e pasticche, fino all’alcol…

Intervista tratta dal volume “Personalità romene in Italia”, di Violeta Popescu, Edizioni dell’Arco, Milano 2008

 

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