Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Dieter Schleask: uno scrittore romeno-tedesco-italiano

Mar 16, 2010




di Afrodita Carmen Cionchin

A Dieter Schlesak – poeta, romanziere e saggista di lingua tedesca nato in Romania, a Sighişoara, dunque sassone di Transilvania, emigrato poi in Germania e da molti anni stabilitosi in Italia – ci si può accostare da diverse prospettive, che seguono e segnano il suo percorso allo stesso tempo umano e letterario-culturale.

Minoranza, esilio, diaspora

Una prima prospettiva è quella della letteratura in lingua tedesca quale letteratura delle minoranze etnico-linguistiche, prospettiva relativa al periodo in cui Schlesak viveva ancora in Romania dove, dopo aver condotto studi di germanistica, aveva svolto l’attività di redattore della rivista Neue Literatur aspetto, questo, che illustra anche la particolare cultura da cui questo autore proviene, quella dei sassoni di Transilvania, di forte impronta mitteleuropea, in quanto austroungarica prima e romena dal 1918.

Una seconda prospettiva è quella della letteratura dell’esilio, con tutta la problematica che essa implica soprattutto sul piano dell’identità e della crisi dell’identità individuale (che opera con concetti quali «doppia identità», «identità in movimento» o «identità in rottura»). Questo piano entra in scena a partire dal 1969, quando Schlesak fugge in Germania per sottrarsi alla pesante cappa del regime comunista romeno: se “deutsch sein / essere tedesco” è difficile, ancor più difficile è essere un tedesco a Est. Al riguardo, il celebre scrittore triestino Claudio Magris, germanista e specialista della problematica mitteleuropea, così osservava nel 2007: “Credo di aver visto, venticinque anni fa, l’ultimo residuo di una reale presenza tedesca in Transilvania, girando per quelle turrite città da stampa medievale (Kronstadt-Braşov, Hermannstadt-Sibiu, Klausenburg-Cluj); i «sassoni» se ne stavano già andando, specialmente gli scrittori, abbandonavano quelle terre che per secoli erano state anche loro e in cui regnava Ceauşescu. Ora sono quasi tutti in Germania”. E a proposito del “deutsch sein / essere tedesco”, Dieter Schlesak si considera un autore tedesco “di terzo grado”, anche perché dopo la Romania e la Germania, vive oggi in Italia – senza trascurare che la difficoltà di essere tedesco riguarda anche il livello dell’espressione linguistica, con forti implicazioni sul piano psicologico.

Una terza prospettiva fa riferimento alla letteratura della diaspora – concetto che riguarda il periodo successivo alla Rivoluzione romena del 1989, che portò al crollo del regime comunista di Ceauşescu –, nonché alla letteratura di frontiera, opera cioè di ‘scrittori di frontiera’, autori che, nella loro creazione, si muovono in realtà culturali adottive. Il concetto di «frontiera», peraltro, è legato a tutta una simbologia che implica la necessità e allo stesso tempo la difficoltà di attraversare le frontiere, non soltanto nazionali, politiche, sociali, ma anche psicologiche, culturali, religiose. Varrà la pena ricordare che, in occasione dell’edizione 2006 del Premio letterario internazionale “Trieste Scritture di Frontiera”, dedicato a Umberto Saba, Dieter Schlesak ottenne il primo premio nella Sezione Scritture di Frontiera – Poesia.

Zwischenschaftler, lo scrittore del tra

La vita di Dieter Schlesak nell’ultimo quarantennio è fortemente contrassegnata dall’esperienza dell’esilio. Dalla prospettiva della cultura romena – e senza considerare ora la questione della ricezione della letteratura dell’esilio in Romania nonché della sua integrazione nella letteratura romena contemporanea – bisogna sottolineare che il cosiddetto “esilio” si riferisce alla comunità di persone originarie della Romania che, vivendo nel “mondo libero” dell’Occidente fra gli anni 1945/1948 e il 1989, hanno svolto un’attività pubblica politico-democratica, anticomunista, impegnata nella promozione dei veri valori del loro Paese di provenienza, a prescindere da come personalmente siano arrivati in Occidente e dal loro statuto di rifugiati politici o meno. La nozione di “esilio” si sovrappone dunque, nel nostro caso, a quella di “esilio militante”; in questo senso, l’impegno e la scrittura di Dieter Schlesak si possono dire esemplari. D’altronde, è stato a ragione evidenziato dalla critica e dallo scrittore stesso che la lingua e la cultura romena sono sempre state al centro della sua attenzione, avendo egli seguito con interesse costante gli sviluppi della scrittura romena ed il destino dei romeni, nell’ambito di un’instancabile attività intenta a far conoscere la letteratura e la cultura romena in particolar modo in Germania, ma anche in Italia.

In questo contesto risulta assai comprensibile l’autodefinizione identitaria dello scrittore quale Zwischenschaftler, cioè abitante del tra – romeno, tedesco, italiano e nessuno dei tre, in quanto egli non si identifica appieno né in un mondo né nell’altro. È questo il suo stato di “intermediarità” – die Zwischenschaftche non significa solo non-appartenenza, non sentirsi mai e da nessuna parte a casa, non avere un’identità e non avere frontiere, ma anche, e forse soprattutto, il fatto che in questa non-appartenenza egli trova la sua identità, il suo modo di essere sempre all’interno della propria frontiera. Quest’ultima diviene così un “ponte” aperto al mondo, come la scrittura che la esprime, idea rintracciabile anche nel libro dedicato da Schlesak alla rivoluzione romena, Bandiere bucate. Viaggio dentro una rivoluzione, nella traduzione di Mario Pezzella, Moretti & Vitali editore, Bergamo 1997. Da qui si evincono la duplicità della frontiera, i suoi aspetti positivi e negativi, i confini aperti e chiusi, rigidi e flessibili, anacronistici e travolti, protettivi e distruttivi; frontiere visibili e invisibili, nella realtà esterna, ma anche all’interno di un individuo, frontiere che separano le zone recondite e oscure della personalità e che vanno anch’esse varcate, se si vogliono conoscere e accettare pure le componenti più inquietanti e difficili dell’arcipelago che compone l’identità. Emblematico quanto osservava Claudio Magris in una recensione pubblicata sul Corriere della Sera: “Schlesak è un notevolissimo scrittore che ha vissuto le contraddizioni della sua identità di autore di lingua tedesca in Romania come un destino di frontiera. Non certo solo quella geopolitica della sua vicenda personale, bensì la frontiera esistenziale che nella storia contemporanea attraversa e divide così spesso non soltanto i territori, ma anche e soprattutto le persone, il loro cuore e la loro intelligenza, separando l’individuo dalla sua lingua, dal suo mondo interiore, da se stesso”.

Per Dieter Schlesak, l’«intermediarità» – die Zwischenschaftè arrivata a significare, col tempo, anche l’interdisciplinarietà, oggi così importante, che incorpora tutto – realtà e virtualità – nella rete della globalità. Questa chiave di lettura mette in risalto come il confine tra il vecchio mondo sensoriale e il nuovo mondo immateriale, tra la verità e l’illusione, sia spesso incerto, anche se il nostro compito è quello di cercare incessantemente di stabilirlo. Come Schlesak stesso ha confessato, tale tipo di discorso “interfrontaliero”, tale anamnesi – che vede la patria dei ricordi e lo spazio più vasto dei significati e delle corrispondenze e mira all’Uno, al ritorno a casa ad un livello superiore – rappresenta il nucleo della sua opera, con riferimento proprio all’idea dell’«eterno ritorno», tant’è che proprio un brano delle Osservazioni sull’Antigone di Hölderlin viene scelto come motto del romanzo Zile acasă şi arta dispariţiei (Giorni a casa e l’arte della scomparsa), traduzione e postfazione di Victor Scoradeţ, Ed. Fondazione Culturale Romena, Bucarest 1995. “Tutti i miei libri sono infatti dei ritorni a casa”, ha dichiarato Schlesak in un’intervista.

L’odissea della vita, la patria della lingua

Se la letteratura è per sua natura una frontiera ed una spedizione alla ricerca di nuove frontiere, un loro spostamento e una loro definizione, per Dieter Schlesak essa ha la possibilità di costruire dei ponti spirituali, metaforici, ponti dell’intermediarità, del dialogo con se stessi e con l’altro, del ritorno a casa, secondo quel modello di odissea tradizionale e classico, che va da Omero a Joyce: l’odissea come viaggio circolare, cammino dell’individuo che parte, attraversa il mondo per ritornare a Itaca, a casa, arricchito e certo cambiato dalle esperienze fatte nel corso del viaggio. Ne nasce così un’identità più profonda, profilata da frontiere né ossessivamente chiuse al mondo, né dissolte in uno stato di indistinzione e di confusione alienante. Come diceva Schlesak a proposito del libro Eine Transsylvanische Reise / Un viaggio transilvano (2004), è una sorta di “arte del ritorno”, di “psicologia del ritorno”, dato che il ritorno a casa può suscitare anche uno stato di shock o la sensazione di estraneità.

Una consapevolezza accompagna permanentemente vita e opera di Schlesak: die Heimat, la terra natia, la patria, rimane sempre la lingua. “Se non avessi avuto questa patria, sarei morto”, afferma. E, a proposito delle sue tre lingue, aggiunge: “L’italiano mi piace di più come lingua quotidiana, mentre il tedesco è la mia amante immortale ed anche il romeno è un amante, l’amante abbandonata” – tenendo conto che il romeno e il tedesco sono, date le vicende personali e storiche, anche lingue della colpa, della paura, degli interrogatori, degli ordini di esecuzione, per questo segnate da una relazione schizofrenica, mentre l’italiano è integro. La lingua resta infine indissolubilmente legata alla scrittura, intesa come modus vivendi: “La scrittura e i libri mi hanno aiutato a sopravvivere”, sostiene Dieter Schlesak. “È così che ho sposato e sono rimasto sposato con la lingua, un’amante tranquilla e immortale”. Quasi volesse dire: “Amo ergo sum”.

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