Centro Culturale Italo Romeno
Milano

  C’era una volta una festa, si chiamava Dragobete

Feb 15, 2021

 

C’era una volta una festa, si chiamava Dragobete.

 

Era una festa dedicata all’amore, in tutte le sue varietà e per tutte le forme di vita: uomini, animali, insetti e vegetali. E in quel giorno speciale, tutto l’universo si risvegliava dopo una lunga pausa di riposo invernale.

La luce del sole tornava ad essere più forte e più calda, riusciva a sciogliere un po’ di neve, abbastanza da aiutare i piccolissimi bucaneve a sbucare finalmente, e a rendere vivace il verde crudo dei primi vegetali primaverili. Gli uccelli riprendevano a canticchiare timidamente e a volare brevemente da un ramo ad altro, già pronti a pensare alla prossima nidiata. Gli insetti spuntavano per metà dalle tane annusando con le antenne l’aria di festa e si promettevano di sgusciare completamente magari in tarda mattinata a festa già iniziata. Poi gli animali, sorpresi dalla ripresa improvvisa della natura, esploravano l’ambiente con cauzione e tra la scoperta di una macchia d’erba fresca e il grande traffico di un formicaio, giocavano spensierati, divertendosi come bambini a rincorrersi e mordendosi leggermente, la loro dimostrazione di affetto.

Ma la festa, per gli uomini, era di un’importanza fondamentale perché in quel giorno seminavano tanto amore da farlo durare tutto l’anno, infatti dicevano che chi non festeggiava tutto il giorno sarebbe rimasto tutto il resto dell’anno infelice e solo.

Quindi di buon mattino, iniziavano a pulire per bene la casa e a preparare cibo squisito da condividere durante la festa con il resto del paese. Si vestivano con gli abiti migliori che avevano e si addobbavano i capelli. Le donne si lavavano il viso con le ultime chiazze di neve sopravvissute alla frenesia primaverile, secondo la credenza popolare aveva il dono di rendere la pelle ancora più bella e giovane. Gli uomini raccoglievano la legna, per i fuochi all’aperto della festa, tra battute scherzose e canti popolari.

Invece i giovani se ne andavano nei boschi e con la scusa di raccogliere i primi fiori spuntati dalla neve, passavamo un po’ di tempo insieme, lontani dagli sguardi protettivi degli adulti, chiacchierando e legando amicizie. Amicizie che spesso si trasformavano in promesse di finanziamento sulla strada di ritorno al paese, legalizzate tradizionalmente con un bacio in pubblico. Ma il primo bacio era emozionante, tanto atteso e tanto sognato, e seguendo la leggenda andava rubato o conquistato con fatica; allora le ragazze scappavano con la speranza ovvia di essere raggiunte in fretta dai ragazzi, che le inseguivano per ottenere il simbolo del loro amore.  Questa tradizione aveva un doppio significato: la dichiarazione pubblica dell’amore tra due giovani futuri sposi e l’approvazione da parte della comunità.

La festa continuava fino a tarda sera con banchetti all’aperto, musica e balli intorno ai fuochi, con dichiarazioni d’amore tra innamorati, tra amici, fratelli, genitori e figli, vicini e compaesani. Parole e gesti, regali e fiori, buoni consigli e preziose lezioni di vita, tutto era impregnato dell’amore più grande che esisteva al mondo. Tutti erano felici e tutti donavano e ricevevano amore. Tutti credevano nel suo potere misterioso. E l’effetto di questa festa, delle credenze folcloristiche e del potere dell’amore duravano a lungo, un anno intero, fino alla prossima festa, quando veniva rinnovato.

Ed è stato rinnovato fino ad oggi. Con poca memoria di tante usanze e poca conoscenza delle leggende che ancora qualcuno le racconta legate a questa festa, ma comunque anche oggi festeggiamo la stessa festa ma con un altro nome.

Certo che i cambiamenti degli stili di vita, magari ci hanno costretto a rinunciare al rito della pulizia del viso con l’ultima neve recuperata dal davanzale della finestra dell’appartamento al terzo piano in pieno centro citta; oppure rinunciare alla gita nel bosco più vicino a raccogliere i primi bucaneve nel bel mezzo della settimana lavorativa; magari anche la corsa al bacio rubato per le vie della città non fa più il caso nostro … Restiamo invece fedeli alle dichiarazioni d’amore, ai gesti ed ai regali, a qualsiasi forma di affetto che possa sorprendere e convincere che il nostro amore c’è e sarà.

Ho sempre sentito, da bambina, la leggenda della festa di Dragobete, durante le lunghe sere invernali, quando i nonni raccontavano la versione regionale della leggenda del ragazzo benvoluto da tutti, nato dall’unione di una bellissima fanciulla ed il Dio della Montagna, insegnante per tutti gli umani dei misteri dell’amore e protettore di tutti quelli che regalavano amore. Raccontavano che la gente, una volta incontrato e innamorandosi di Dragobete, della sua bellezza fisica e della sua gentilezza, non poteva fare a meno che diffondere a loro volta l’amore ricevuto. Ma soprattutto sottolineavano il privilegio degli innamorati che venivano visitati nei sogni da Dragobete per svelare a loro come amare e farsi amare.

Più tardi, da adulto, ho conosciuto la leggenda di San Valentino di Terni, il protettore degli innamorati italiani: si narra che il vescovo innamoratosi di una ragazza cieca, figlia del suo carceriere, le restituì la vista poco prima di essere decapitato. Decise dunque di scriverle una lettera e si firmò “il vostro Valentino”. Che lo chiamiamo in un modo o in un altro, Dragobete o San Valentino, e che lo festeggiamo in giorni diversi, forse ha poca importanza, perché il significato ed il messaggio è sempre lo stesso: celebrare l’amore. Credere nel potere dell’amore in tutte le sue forme, regalarlo e viverlo come unico scopo della vita.

Nel dubbio, di chi come me, vorrebbe rispettare la tradizione ed anche condividere la festa più diffusa nel modo, Valentine’s Day, non ci resta che festeggiare due volte. Anzi, ogni volta che c’è l’occasione, festa o non festa, tradizionale o non tradizionale, della propria cultura o di altre culture, in qualsiasi lingua, perché l’amore è universale, accetta tutti, non ha tempo e non ha paura della diversità. Siccome non c’è una storia bella senza lotta, gli innamorati riescono vincere anche oggi, nonostante il distanziamento e la paura del contagio.

Immaginando lo stesso la passeggiata nel bosco, seduti in terrazzo in modalità live o virtuale, non importa tanto sono insieme comunque: la fantasia galoppa ed a turno descrivono il sentiero illuminato dai raggi primaverili ancora deboli, fanno a gara a chi riesce di più a ridare la sensazione di calpestare e foglie secche umidicce, l’odore pungente di terra bagnata e il suono molliccio quasi impercettibile dei ramoscelli ancora troppo teneri mentre si addentrano sempre di più nell’intimo del bosco immaginato.

Immaginando lo stesso i bellissimi posti che avrebbero voluto visitare, se fossero liberi di viaggiare: ed in questo caso in aiuto arrivano proprio i regali scambiati pochi attimi fa, libri ricchi di posti meravigliosi dove perdersi per qualche ora, lontani dalla folla, come la guida fuori dagli schemi dell’artista grafico Anamria Smigelschi dal titolo “Da vicino, da lontano”, dove ieri è ancora oggi e la lontananza di fatto è molto vicina. Oppure l’intramontabile “lungo la via incantata” di William Blacker e la sua insolita esperienza di vita in mezzo ai magici luoghi della Transilvania

Immaginando lo stesso la cena romantica, con tutto quello che richiede questo giorno speciale: candele, fiori, cioccolatini e questa volta un gesto in più d’amore e d’aiuto per gli chef che nonostante le difficolta sono a disposizione di chi non rinuncia nemmeno adesso ad un’ordinazione a domicilio per dire sì all’amore.

Se c’è una cosa che abbiamo imparato durante la pandemia è che le cose più semplici sono quelle più sentite. Non ci interessano più le cene romantiche al ristorante, nemmeno i regali particolari ed i viaggi lontani. Ci bastano le cose scontate una volta e riscoperte con stupore adesso

Come la sorpresa di sentire all’improvviso la voce dell’amato:

“Io sto bene quando mi sorridi. Se mi sorridi sempre, starò sempre bene.”

Rispondo, dallo schermo della videochiamata, con la scritta melancolica su lungomare di Livorno su un cartellone pubblicitario, nella quale ognuno di noi vi si riconosce e raggruppa la mancanza della persona amata insieme a tante altre cose semplici come l’amore:“Mi manchi come un concerto”

 

Articolo a cura di Lorena CURIMAN 

 

 

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