Con questa pubblicazione si apre il riassunto-commento di Armando Santarelli, che avrà tre puntate, dedicato al diario: Storia della mia vita, di Regina Maria, che oltre ai meriti connessi alla sua carica regale e all’impegno sociale, politico e filantropico, ha lasciato una ricca produzione letteraria, composta da memorialistica, lettere, volumi, racconti, fiabe e poesie.
Nata il 29 ottobre 1875 a Eastwell Park, nella contea inglese del Kent, era un distillato della più alta aristocrazia europea: figlia del principe Alfredo di Sassonia-Coburgo-Gotha e della principessa Marija Aleksandrovna Romanova; prima cugina del Kaiser Guglielmo II di Germania e di Prussia; nipote, per parte di padre, della regina Vittoria e del principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha; e per parte di madre dello zar Alessandro II di Russia e della granduchessa Maria d’Assia e del Reno. Grazie a una tale ascendenza, e ai privilegi che conobbe nell’infanzia e nell’adolescenza, sviluppò un’indole positiva, allegra, estroversa. Un drastico cambiamento di vita la condusse in una realtà che mise alla prova tutte le sue qualità, e la sua nuova Patria, la Romania, beneficiò di una madre del popolo, di una sorella di carità, di una regina amata dall’intera Nazione.
Qui tratteremo delle memorie di Maria di Sassonia-Coburgo-Gotha, l’appassionante Storia della mia vita. L’opera originale, The story of my life, fu pubblicata contemporaneamente a Londra e a New York nel 1934; tradotta in italiano dal giornalista e scrittore Mario Borsa, apparve per i tipi di Mondadori in due tomi: il primo, Storia della mia vita, nel 1936, e il secondo, Il mio diario di guerra, nel 1938. È indiscutibile merito di Rediviva Edizioni aver riproposto questa affascinante testimonianza di una vita ricca di trionfi, tragedie, sconfitte cocenti e vittorie esaltanti, una vita drammatica e irripetibile.
Non pare ozioso porsi una domanda preliminare: perché Maria redige un diario persino durante i terribili e spossanti giorni di guerra, e perché decide di consegnare alla pubblica opinione le sue memorie? Per più di una ragione, crediamo; innanzitutto, Maria ama scrivere, lo fa sin da quando uno dei suoi bambini le chiese di mettere per iscritto le favole e le storie che inventava per loro. Inoltre, Maria scopre presto che fissare sulla carta i propri pensieri equivale a indagare meglio i fatti, le persone e quell’io privato che, anche in considerazione del ruolo che occupa, non sempre può trovare espressione. Ma soprattutto, realizzando che il suo operato è destinato in ogni caso a divenire oggetto di indagine storica, Maria sente il bisogno di fornire la propria versione dei fatti e di confermare la legittimità dei propri comportamenti.
La Storia della mia vita costituisce un documento interessantissimo, anche se non molto accurato dal punto di vista storiografico. Ma non era certamente questo l’intento di Maria; c’è da aggiungere che la rapidità (e la drammaticità) degli eventi rappresentati esercita sul racconto una costante forza centrifuga, fatto che non gioca a favore di una narrazione più accurata e profonda.
Piuttosto, in virtù della prosa sciolta e discorsiva, della tensione emotiva, del continuo crescendo delle vicende narrate, abbiamo a volte l’impressione di leggere un romanzo. Evitando il fastidioso compiacimento di chi ha avuto in sorte un’esistenza speciale, Maria ci trasporta dalla fanciullezza dorata alla solitudine di una diciassettenne trapiantata da un giorno all’altro in un Paese di cui non sa nulla; dalle gioie di una vita libera e selvaggia alle responsabilità connesse al ruolo di futura regina; dai privilegi garantiti dalla posizione aristocratica all’umile servizio di assistenza ospedaliera nei giorni di una guerra fra le più cruente di ogni epoca.
Maria, che quando fissa le sue memorie è ormai una matura sessantenne, non ha remore nel mostrare, insieme ai pregi, le vulnerabilità che si celano in un’educazione come quella che aveva ricevuto. All’epoca del fidanzamento con Ferdinando di Hohenzollern-Sigmaringen, suo futuro sposo, era semplicemente «una ragazza che si trovava a suo agio solo in un giardino, a cavallo o in un circolo di amici». Naturalmente, Maria ha dimestichezza con le regole e i costumi dell’arte mondana; ma al di fuori degli ambienti amici avvertirà per anni il disagio che descrive così nelle sue pagine: «Eravamo state tenute nella più assoluta e anche, oso dire, nella più pericolosa e crudele ignoranza della realtà; la nostra educazione era stata fondata su illusioni e su un falso concetto della vita. (…) Ci ingannavano nella nostra innocenza, ci bendavano gli occhi perché non vedessimo la vita com’è; e così, a occhi chiusi e fidenti, ci avviavamo verso il nostro destino».
Un destino che, nel suo caso, viene deciso da altri in nome di esigenze politiche e dinastiche; sarà Maria a scegliere di sposare Ferdinando tra diversi altri pretendenti, ma l’incontro con il principe ereditario di Romania viene preparato dalla madre di lei, che di quella splendida figlia vuole fare a tutti i costi una regina. Il piano progettato da Marija Alexandrovna riesce pienamente: re Carlo I di Romania e la sua consorte, Elisabetta di Wied, non hanno eredi; Marija non ha difficoltà ad entrare in relazioni amichevoli con la coppia reale e con i genitori di Ferdinando, il nipote di Carlo destinato a salire un giorno sul trono di Romania.
Non più di un paio di incontri e già i piani elaborati dalle famiglie si concretizzano; infatti, Maria risponde affermativamente alla proposta di matrimonio del timido principe tedesco. Ma nella Storia della mia vita, la regina non tace le spiacevoli verità che emersero fin dal periodo di fidanzamento con Ferdinando. La prima riguarda i rapporti con il re Carlo I, argomento sul quale Maria è molto esplicita: quando si parlava di lui, Ferdinando «acquistava un’espressione di ansietà, quasi di terrore; si aveva l’impressione che rabbrividisse». Il principe ereditario ha delle ottime ragioni per temere la severa personalità dello zio; in occasione di una delle feste che precedono il matrimonio, re Carlo, alzando il bicchiere, brinda non alla luna di miele degli sposi, ma all’Honigtag, al giorno di miele. Maria non comprende l’allusione, ed è Ferdinando a rivelarle il senso di quel gioco di parole: «Invece di una lunga luna di miele, ci concede un giorno solo. Vedi com’è! Non si cura dei sentimenti degli altri. Con lo zio non si deve pensare che a lavorare dall’inizio alla fine dell’anno, mai a divertirsi».
Ma le possibili difficoltà della futura convivenza con il giovane erede al trono di Romania si affacciano alla mente della stessa Maria, cui sono sufficienti i pochi mesi di fidanzamento per constatare quanto diversi siano i suoi interessi, la sua indole, i suoi gusti rispetto a quelli di Ferdinando.
Ormai, però, il dado è tratto, e il 10 gennaio 1893, a Sigmaringen, le campane a festa annunciano il matrimonio di Ferdinando di Hohenzollern Sigmaringen e Maria Alexandra Victoria di Sassonia-Coburgo-Gotha. Emblematico è quanto ricaviamo dalle pagine della Storia relative a quei giorni: Maria scrive di non ricordare niente del banchetto nuziale, né del gran ballo tenuto in onore degli sposi; durante la luna di miele si sente sola e brama «qualcosa di più della passione di Nando». Ricorda invece il pianto della madre e il suo nella notte che precede la partenza per la Romania. La triste testimonianza è mitigata da quanto avviene alla stazione di Coburgo, quando il treno si allontana e i volti delle persone care non si distinguono più; una mano si posa sulla spalla della giovane sposa: è quella di Nando. «Nando», scrive Maria, «aveva il cuore il cuore buono, c’erano delle lacrime anche nei suoi occhi. Nando mi capiva; non aveva forse lasciato anch’egli la propria casa per un Paese lontano che non poteva ancora chiamare suo?»
Ci pare di avere la scena davanti agli occhi, grazie alla capacità di Maria di trasferire quel toccante momento dalla realtà alla pagina. È il pregio di una prosa franca, fluida, immediata; l’autrice si muove sempre velocemente nella narrazione, e quasi tutti i suoi personaggi sviluppano presto le loro peculiarità. A differenza di molti aristocratici del tempo, Maria è fortemente attratta dall’ethos delle classi più umili; possiede una regalità che non spaventa, non allontana, perché rivestita di un’umanità che le consente di aderire alla vita della servitù, delle damigelle, della gente comune. In una cornice in cui non percepiamo alcun buonismo, riporta i destini e i caratteri individuali senza mai incorrere nella convenzionalità: ecco Robert, il cocchiere di Eastwell Park, che aveva un perenne sorriso all’angolo della bocca e guidava «con la solita inappuntabilità inglese»; “Mademoiselle”, la governante francese di Osborne, nell’isola di Wight, che leggeva per i principini storie e romanzi e contemporaneamente lavorava a maglia; a Malta, dove Maria arriva all’età di undici anni per vivere quello che definirà «il paradiso della mia infanzia», incontriamo Miss Butler, la maestra di musica, fervente cattolica che il venerdì «odorava d’aglio sino alla nausea»; a Coburgo, città in cui i principi Alfredo e Marija si trasferiscono affinché i figli possano studiare il tedesco e acquisire una cultura germanica, ecco Wiener, il domestico dal cuore d’oro, felice quando poteva offrire a Maria e alle sue sorelline le ghiottonerie locali; infine, ovunque, i contadini romeni, i «bravi e pazienti lavoratori della terra» che Maria amerà per tutta la vita.
Non è in mezzo alle persone del suo seguito che si verifica, però, l’episodio più importante dei primi anni trascorsi presso la corte di Romania. Siamo nella primavera del 1893, e Maria, che è in dolce attesa del primo figlio, vive nella residenza bucarestina di Cotroceni giornate monotone e nostalgiche. Nelle stanze enormi e male arredate, che definisce «pompose, fredde, inospitali», ricava un suo nido in un piccolo spogliatoio, nel quale, sdraiata su un divano, trascorre le ore più tristi. L’unica compagnia è costituita dalla cameriera inglese e da quella tedesca, entrambe di nome Louise, e dalla signora Grecianu, sua dama d’onore. Ferdinando, continuamente alle prese con gli affari politici e amministrativi, e succubo dello zio, il re Carlo I, non fa molto per alleviare lo stato di prostrazione di una «figlia della natura» (come lei stessa si definiva) cui non era permesso di vedere nessuno ad eccezione delle persone ricevute ufficialmente.
Ma l’amore per la vita di quella giovane inglese è troppo radicato perché possa accettare di frapporre fra sé e il mondo i divieti che ne opprimono la libertà e lo spirito. Un giorno la signora Grecianu trova il coraggio di riferire al re sulle cattive condizioni della principessa, imputabili all’isolamento sociale e alla noia di quella che è diventata una vera e propria reclusione. Preoccupati per la salute della donna che deve dare un erede alla Nazione, il re Carlo, Ferdinando e i “saggi” del regno pensano che organizzare settimanalmente dei tè gioverebbe al benessere e all’umore della principessa. L’iniziativa non riscuote il successo sperato, così viene deciso che una visita ai monasteri e alle fortezze intorno a Bucarest potrebbe rappresentare una distrazione utile e piacevole; i conventi prescelti sono quelli di Cernica e di Pasărea. È la novità che contribuirà non poco a mutare lo stato psicologico della principessa e il rapporto con il Paese che l’aveva accolta per farne una regina. Ecco le parole di Maria, che splendono di vivezza e intima partecipazione: «Lo zio (Carlo I, N.d.A.) non immaginava certo che con quella breve gita egli mi avrebbe deposto nel cuore il primo seme d’amore per la Romania. (…) Quell’escursione a Cernica e a Pasărea mi iniziò allo spirito del Paese, al mistero e alla poesia dei santuari sparsi qua e là nella verde campagna. Da quel giorno nacque nel mio cuore un vivo amore per i conventi e i monasteri della Romania, per la loro bellezza, la loro calma e la loro pace, per il loro fascino antico, per il loro forte legame con la catena del passato».
In particolare, è il monastero di Cernica a impressionare la giovane sposa: «Mi piaceva la quiete del santuario, la sua luce soffusa, i suoi ceri, le lampade d’argento appese, gli affreschi semidistrutti; tutto era poetico, primitivo, orientale; un quadro a mezzi toni, che colpiva la mia immaginazione, faceva vibrare in me qualche corda recondita e svegliava l’artista dormente nella mia anima: erano poetiche anche le casette bianche dove vivevano i monaci, quelle casette col tetto di paglia, con i giardinetti lungo la palude piena di giunchi; e dappertutto crescevano i sottili ireos gialli come il sole, che mettevano una nota vivace nella quiete del paesaggio. (…) Per la prima volta, dacché ero giunta nella mia nuova Patria, qualcosa si destò in me, qualcosa cominciò ad agitarsi nella mia anima, come una vaga speranza. Era una piccola voce che veniva da non so dove e mi prometteva che un giorno… un giorno forse sarebbe sorto un legame, una comprensione fra me e questa terra straniera».
Nell’estate del 1893, altre novità, quanto mai opportune, contribuiscono ad allietare la vita di Maria. Infatti, come ogni anno, il re e la Corte si trasferiscono in montagna, a Sinaia, nell’imponente castello di Peleş. Lì Maria può tornare a godere delle foreste, dei prati, dei ruscelli e soprattutto dei numerosi e incantevoli fiori della regione, che anche Nando ama in modo particolare e che rappresenteranno per i coniugi un perenne legame affettivo. Prima del parto arriva a Sinaia la sorella prediletta di Maria, Vittoria Melita, detta Ducky, poi la principessa madre; ed è in un’atmosfera di rinnovata fiducia nella vita che la giovane sposa, il 15 ottobre 1893, dà alla luce Carlo, erede al trono di Romania.
A quella nascita ne seguiranno altre; e ogni volta, con un nuovo bimbo fra le braccia, fra i colpi di cannone del saluto regale, Maria proverà la profonda emozione che descrive così: «Sentivo che il mio Paese ascoltava con me, vegliava con me; sentivo il cuore del mio popolo battere nel mio, e il mio nel suo. Sì, ho avuto queste consolazioni. Ero diventata a poco a poco una fervente patriota, facevo parte della grande macchina del Paese, e questo sentimento di amore e di unione col mio popolo era per me un santo e nobile sentimento che rendeva leggero e facile ogni sforzo, ogni sacrificio, ogni abnegazione».
Di fatto, prima di ottenere il rispetto della sua libertà e delle sue idee, Maria dovrà superare altri ostacoli, e a periodi di intensa aderenza alla vita seguiranno prove in cui l’equilibrio e la capacità di sopportazione della principessa rischieranno più volte di saltare. Drammatico è, per esempio, il contrasto tra il suo stato d’animo in occasione dell’incoronazione dello zar Nicola II (maggio 1896) e quello in cui versa al ritorno in Romania. La cerimonia in terra di Russia è forse l’evento più spettacolare dell’intera esistenza di Maria. La sua intelligenza avida, curiosa, si appropria di ogni particolare delle grandiose scene dell’incoronazione; ecco il brano, quasi mistico, dedicato alla celebrazione: «Cerimonia solenne in un’atmosfera di fasto e di ricchezza, in mezzo a canti così belli da non sembrare nemmeno terreni. Fra una nebbia profumata d’incenso si compivano i riti misteriosi; pareva un sogno, non una realtà. Con lenti movimenti, i preti, magnificamente vestiti, si muovevano qua e là con le mani alzate in gesti di preghiera o di benedizione. I loro paramenti assomigliavano a quelli dei santi aureolati che dalle pareti abbassavano i loro sguardi sui grandi della terra. E dappertutto oro, null’altro che oro, interrotto di tanto in tanto dal luccichio di una pietra preziosa rossa, azzurra o verde. E i volti apparivano confusi in quell’atmosfera di solenne attesa: avevano preso qualcosa dell’immaterialità dei santi affrescati».
Il soggiorno in Russia si protrae oltre la cerimonia di incoronazione, ed è occasione di incontri stimolanti, cavalcate gioiose, gite in luoghi ameni, feste e balli in dimore principesche. Inevitabilmente, il ritorno in Romania si rivela sofferto, desolante: «Tutto mi sembrava meschino, triste, indifferente, e la vita era piatta e incolore. La mia sola gioia fu di rivedere i bambini…».
Il magone che affligge Maria è sempre lo stesso, e consiste in quella costrizione ed espropriazione del suo io che si pone in forte conflitto col naturale bisogno di vita, di calore, di libertà: «Io ero molto sola in quei giorni. Non riuscivo mai ad ottenere l’approvazione del “vecchio palazzo”, come chiamavano la Corte reale; mi consideravano troppo inglese, troppo libera, troppo frivola; mi piacevano troppo gli abiti, le cavalcate, la vita all’aria aperta, e non avevo abbastanza rispetto per le convenzioni e l’etichetta». Maria avrebbe potuto far sue le parole schiette e assertive che la duchessa di Montpensier, detta la Grande Mademoiselle, aveva pronunciato due secoli prima: «Io sono una di quelle persone per le quali si deve vivere con i vivi e non bisogna distinguersi in alcun modo per affettazione e per scelta».
La presenza a corte dell’eccentrica regina-poetessa Elisabetta di Wied (Carmen Sylva) non può spostare gli equilibri. Maria riassume in poche, chiarissime righe, la complessità del rapporto fra il re Carlo e la sua consorte: «Erano due personalità forti e magnetiche, ma la sobria e implacabile logica dell’uno non poteva conciliarsi con l’eccitata fantasia dell’altra. Lo zio non aveva immaginazione, era serio e rigido all’eccesso; tutto per lui costituiva un “grave” problema. La vita diventava quindi un peso, e l’aria di corte era a volte irrespirabile per quelli che volevano un po’ di libertà, ma la volontà ferrea del sovrano e la sua assoluta sicurezza in sé e nel suo punto di vista ne facevano un padrone assoluto; non si osava disubbidire ai suoi ordini, ma a volte la ribellione nasceva in seno alla sua stessa famiglia».
E nell’estate del 1903 la ribellione arriva proprio dalla futura regina, l’«elemento più disturbatore», come scrive lei stessa. Maria, incinta del quarto figlio, è esasperata per gli equivoci e i malumori con damigelle e servitori; re Carlo li tiene tutti in pugno, per cui, in caso di conflitto, si schiera sempre dalla loro parte. Accusata ingiustamente e pubblicamente di aver umiliato la dama d’onore, per averla ospitata nella carrozza facendola sedere con la schiena rivolta ai cavalli invece che al suo fianco, Maria, presa dalla disperazione, convoca il Primo Ministro Dimitrie Sturdza, e dà pieno sfogo alla sua indignazione: «Nessuno di voi ha un briciolo di pietà! Non capite che sono un albero trapiantato e che le mie radici sono state estirpate dalla mia terra? Sono una straniera in terra straniera, inerme e sola, alla mercé di un Paese nel quale ero venuta con tanto entusiasmo e buona volontà. Ma mi hanno ingannata; per voi bastava che io mettessi al mondo dei figli e dessi così dei prìncipi al Paese; i miei sentimenti, i miei dolori, le mie rivolte, la mia solitudine, le mie lotte non vi interessano e nemmeno la mia tristezza per non essere mai e poi mai compresa! (…) Mi avete giudicata con la vostra mentalità fredda, insensibile a tutto fuorché alla politica, senza trovare attenuanti per la mia gioventù. (…) Se questa situazione continua, ho deciso che abbandonerò questo Paese; gli volterò le spalle per sempre, tornerò da mia madre portando con me il mio bimbo non ancora nato, che doveva essere il mio quarto dono a coloro che si divertono a sospettare di me, a calunniarmi e a giudicarmi così negativamente».
Parole durissime e inequivocabili, che ovviamente sconvolgono il temuto e rispettato Primo Ministro, il quale sfodera tutto il suo tatto e la sua intelligenza politica per calmare Maria e scongiurare la catastrofe. Le dice che, essendo nuova la Dinastia reale, bisognava agire sempre con discernimento e moderazione, per evitare passi falsi; che in quella parte del mondo non si avevano le stesse idee degli inglesi in fatto di costumi e di libertà; che avrebbe sistemato le cose, sostenendo che da parte della principessa non c’era stata alcuna intenzione di offendere la dama d’onore; che Maria doveva sapere che tutti l’amavano ed erano orgogliosi dei bambini che aveva dato alla Patria; e che comunque i superiori avevano il dovere di guidarla, in virtù della loro maggiore saggezza ed esperienza.
Maria non parla delle immediate conseguenze della veemente protesta; ma pian piano le cose iniziano a cambiare. L’aria di chiuso che opprimeva la vita nel palazzo bucarestino si dissolve quando i venti freschi della Romania, la sua magia, le sue peculiarità, tornano a circolare intorno alla principessa. Due splendide gite, a Gherghiţa e ai monasteri moldavi della valle di Bistriţa rasserenano gli animi e aprono Maria alla spiritualità e alle bellezze naturalistiche della nuova Patria. Contemporaneamente, molte valide amicizie vengono ad arricchire la sua vita: il brillante e altruista Waldorf Astor e la sorella Pauline, Nadeja Ştirbey, Maruca Cantacuzino, Hélène Suţu, Elena Creţianu, Sybille Chrissoveloni, Martha Bibescu.
Maria si sente più libera, rifiorisce, e finalmente può tracciare un ritratto più onesto e sincero di re Carlo: «L’educazione alla quale egli mi sottopose fu implacabile, ma con gli anni imparai a comprendere meglio i suoi motivi e le sue ragioni e a provare una vera ammirazione per le sue doti di re e di uomo; dal canto suo, egli comprese che poteva fidarsi di me e che non era il caso di sorvegliarmi troppo severamente». Del divario tra la sua natura libera e amante della vita, e i rigidi dettami imposti dalla corte romena, la principessa parlava inizialmente – come abbiamo visto – in tono aspro e accusatorio; ora, però, riconosce onestamente i benefici che ne ha tratto.
Abbiamo accennato all’inclinazione di Maria per la narrativa; Carmen Sylva, cui non è sfuggita la sua fervida immaginazione, la incoraggia a proseguire; lo stesso farà, qualche anno dopo, lo storico Emil Panaitescu. Coltivata soprattutto a livello memorialistico, ma aperta anche ad altri generi letterari, la pratica della scrittura darà alcuni dei frutti migliori proprio nella Storia della mia vita. I ritratti dei tanti personaggi descritti sono pieni di vitalità e autenticità; quando il terreno non diventa scivoloso – ovvero quando non sono in ballo affetti e faccende di famiglia, sulle quali è comprensibilmente reticente – Maria si esprime con ammirevole sincerità di giudizio. Fra tutte, spicca proprio la figura di Carmen Sylva, delineata con una fine mistura di realismo psicologico e sottile ironia. La zietta, la regina che «vedeva tutto attraverso il prisma della sua immaginazione romantica» viene ricordata così: «Era ardente, generosa, impetuosa, ma non perspicace; vedeva tutte le cose “en beau”, e quindi nella sua vita tempestosa e tragica cadde facilmente preda di coloro che per i propri fini abusavano della sua credulità. (…) E poi era un vero pozzo di erudizione; si potevano imparare tante cose da lei, ad eccezione naturalmente delle cose pratiche. Intensa, vibrante, exaltée, esagerata sia nell’amore che nell’odio, natura possente ma con un non so che di infantile, che la rendeva dolorosamente umana, mentre essa si considerava “ein Übermensch” (superdonna), sognatrice, sempre pronta a combinar matrimoni, troppo fiduciosa, troppo ingenua, facile a essere ingannata, caritatevole, altruista, ma con qualcosa di primitivo quando le sue passioni venivano risvegliate, tale era Carmen Sylva».