Nei primi anni del Novecento, proprio quando fra i componenti della Corte reale si raggiunge una maggiore comprensione e armonia, la Romania è attraversata da una serie di episodi tragici, che culmineranno nella partecipazione alla Prima Guerra Mondiale.
Agli inizi del 1907 nel Paese dilaga una massiccia rivolta dei contadini, che reclamano la divisione delle grandi proprietà e l’aumento del salario per i lavoratori dei campi. Questo evento è di grande importanza nella vita di Maria, come dichiara essa stessa: «Ho varie ragioni per ricordarmi quella famosa primavera del 1907, quando i miei occhi si aprirono a certe verità e quando incominciai a interessarmi più intimamente ai bisogni del mio Paese. (…) Non ero più una straniera in un Paese straniero; avevamo un numeroso gruppo di amici e mi ero, per così dire, sistemata. Anche il mio interessamento si era alla fine destato e quando lo zio e mio marito parlavano di politica o di questioni militari non restavo più muta e indifferente; a poco a poco afferrai l’importanza delle loro conversazioni e mi interessai agli avvenimenti vitali del Paese: agricoltura, industria, politica interna ed estera, progetti di espansione…».
Intanto, nel dibattito nazionale irrompe la grave questione dell’oppressione dei romeni che vivono in Ungheria; entrano in scena personaggi della politica come Ion I.C. Brătianu e aristocratici come il principe Barbu Ştirbey. Quest’ultimo avrà una notevole influenza non solo sulla vita del Paese, ma anche su quella privata di Maria, perché la loro amicizia si trasformerà presto in amore.
Le memorie di Maria corrono veloci a questo punto, e ci proiettano all’ottobre 1912, quando scoppiano le Guerre Balcaniche, che vedono Serbia, Montenegro, Grecia e Bulgaria coalizzate militarmente contro la Turchia. Inizialmente il Governo romeno proclama la propria neutralità, ma quando la Serbia e la Grecia dichiarano guerra alla Bulgaria, anche la Romania decide di entrare nel conflitto. L’esercito romeno non trova resistenza e già il 12 luglio 1913 è alle porte di Sofia, che Carlo risparmia dall’occupazione per non umiliare re Ferdinando I di Bulgaria, suo amico personale e zio della principessa Maria.
Se la guerra con la Bulgaria non fa registrare spargimenti di sangue, le truppe romene vengono aggredite da un nemico persino peggiore dei fucili e dei cannoni: il colera. La violenza di questa epidemia è resa da Maria con scioccante realismo: «Il colera genera terrore. La rapidità fulminea e la virulenza con le quali si manifesta e attacca le sue vittime sono tali che anche i nervi più saldi ne restano scossi». Ma la comparsa della terribile calamità segnerà una svolta nella vita della principessa di Romania: «Io mi trovai improvvisamente di fronte a questo flagello mentre mi recavo a visitare le truppe e gli ospedali della Croce Rossa disseminati lungo il Danubio. Fino ad allora non avevo conosciuto né gli orrori della guerra né quelli dell’epidemia. Rimasi esterrefatta da ciò che vedevo, ma al tempo stesso nacque in me un vivo desiderio di aiutare ad alleviare le sofferenze dei nostri soldati. In me scaturì improvvisamente qualcosa che non avevo mai provato: il bisogno di servire, di rendermi utile, anche di sacrificarmi se era necessario, di mettermi a disposizione del mio popolo».
Con la forza, la tenacia, l’orgoglio che la contraddistinguono, Maria diventa presto il fulcro attorno al quale gira la pietosa e difficile opera di assistenza ai malati. In un inferno fatto di visioni atroci, odori disgustosi, caldo soffocante, la principessa reca assistenza, cibo, medicinali; ma non solo questo. È lei ad avere l’idea di distribuire fiori ai malati; quasi giornalmente ne fa arrivare intere ceste da Sinaia, e quegli uomini, quasi tutti contadini, li baciano, li tengono contro le guance, li fissano sulle testiere dei letti, se li appuntano sul berretto o sulla divisa, ritrovando nel gesto della sovrana e nel profumo della loro terra un commovente sollievo. Maria non sa ancora che quei gesti di abnegazione preludono a un impegno molto più gravoso e profondo, in virtù del quale da iniziale spettatrice diventerà protagonista della vita politica romena.
Il 28 giugno 1914, a seguito dell’assassinio dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e di sua moglie, la Corte romena, come l’intero mondo, rimane col fiato sospeso. Le angosciose incertezze e le manovre diplomatiche dei governi coinvolti nella crisi durano esattamente un mese: il 28 luglio, l’Austria dichiara guerra alla Serbia; il 1° e il 2 agosto iniziano le ostilità tra Francia e Germania.
È proprio la Romania a versare in una delle posizioni più delicate. Da una parte ci sono i buoni rapporti con gli Imperi Centrali, la presenza sul trono del tedesco Carlo I, l’assoluta fiducia di questi nella vittoria dell’esercito germanico, i timori per l’atteggiamento della Russia, che aveva già disatteso gli accordi con la Romania nella guerra russo-turca del 1877-78. Dall’altra c’è il popolo e quasi tutti i vertici del Paese, desiderosi di completare la riunificazione della gente romena in un unico Stato e di mettere fine ai soprusi subìti dai connazionali entro i confini dell’Impero Austro-Ungarico.
Dopo una drammatica conferenza volta a definire la situazione, si decide che per il momento la Romania debba rimanere neutrale. Re Carlo, che confidava in una pronuncia favorevole alla Triplice Alleanza, ne esce amareggiato; già malato, peggiora rapidamente nel giro di pochi mesi e muore nella notte tra il 9 e il 10 ottobre 1914.
All’alba del giorno 10, Ştirbey chiama la principessa per annunciarle che è la nuova regina di Romania. Maria avverte la solennità del momento, ma non prova alcun timore; il commento che leggiamo nelle memorie è degno del suo carattere: «Io ero la stessa donna di ieri, ma il domani era separato dall’ieri come da un colpo di spada; non potevamo più indietreggiare, non potevamo più trovare un rifugio, eravamo in piena luce. Qualcosa era morto, ma al tempo stesso qualcosa era venuto alla vita, una grande responsabilità, ma anche grandi possibilità, se avessimo saputo mostrarci all’altezza della situazione, se fossimo stati abbastanza forti per afferrare il giorno che stava per spuntare».
Dinanzi al Parlamento, non appena il nuovo Re Ferdinando I ha pronunciato il giuramento, il nome della sua consorte risuona con forza nella grande sala: “Regina Maria… Regina Maria…”. Non è un’acclamazione di prassi, non è un omaggio scontato: i presenti conoscono la tempra, la decisione, il senso morale della nuova sovrana, e la chiamano all’azione. E Maria comprende: «Sentii improvvisamente che dovevo scoprire il mio volto, che dovevo presentarmi al mio popolo senza che si interponesse un velo di lutto. Un grande clamore salì fino alla volta, qualcosa di potente e tremendo che veniva dal fondo di tanti cuori. “Regina Maria!”. E ci trovammo faccia a faccia, il mio popolo e io! E questa fu la mia ora, tutta mia, un’ora che fu concessa a ben poche persone, perché in quel momento essi non acclamavano solo un’idea, una tradizione, un simbolo, ma una donna, la donna che amavano! E in quell’ora seppi che avevo vinto, che la straniera, la ragazza venuta dai Paesi d’oltremare, non era più una sconosciuta, che appartenevo al mio popolo con ogni goccia del mio sangue».
Le affermazioni di Maria non contengono alcuna esagerazione o retorica; chi conosceva la realtà della monarchia romena e aveva vissuto le vicende politiche degli ultimi due decenni sapeva che Ferdinando, di carattere ritroso e schivo, di poche parole, a lungo sottomesso allo zio Carlo, aveva bisogno di essere consigliato e sostenuto. Nessuno poteva farlo meglio della donna coraggiosa e indipendente che era al suo fianco da più di vent’anni: «Così, quando venne il momento del bisogno, mi feci avanti, non perché volessi usurpare prerogative alle quali non avevo diritto, ma perché mi trovai naturalmente spinta in mezzo a quelli che operavano per giocoforza».
Il compito del nuovo re si presenta, in effetti, particolarmente difficile. È impossibile pensare di poter rimanere neutrali a lungo, e la Romania viene continuamente e alternativamente blandita, minacciata, esortata, provocata da entrambe le parti belligeranti. Un’eclatante e dolorosa dimostrazione di tali pressioni è costituita dalla visita a Maria del conte boemo Ottokar Czernin, ministro austroungarico a Bucarest. Bello, simpatico, intelligente, ferratissimo nelle faccende diplomatiche, adopera tutti gli argomenti in suo potere per convincere l’influente interlocutrice a seguire le sorti di tedeschi e austriaci. La regina Maria è travolta da quella tempesta oratoria, i suoi nervi ne vengono scossi sino al parossismo, e non può evitare di piangere; ma non cede, confermando la sua incrollabile convinzione: «Non posso agire diversamente da come agisco ora. Nulla può smuovermi».
Alla fine del gennaio 1915, Ferdinando scrive una lettera al Kaiser Guglielmo II, rivelando la drammatica situazione per cui, nonostante i suoi personali sentimenti, egli sentiva il dovere di stare dalla parte del suo popolo, che unanime invocava la liberazione dei romeni sottoposti al dominio straniero. Pochi mesi dopo, nel marzo 1915, in una missiva inviata a re Giorgio d’Inghilterra, è la regina a ribadire la condizione in cui si dibatte la monarchia romena: «Nando si trova in una situazione crudele e vi assicuro che è triste osservare le sue pene, poiché tutte le sue affermazioni, le sue idee, le sue tradizioni lo spingono naturalmente verso l’altro campo. Ma egli è innanzitutto l’uomo del dovere e io so che alla fine non penserà che al bene del suo Paese».
Incoraggiata dalla positiva risposta di re Giorgio, Maria, dietro consiglio di Brătianu, gli invia un’altra lettera, nella quale indica le questioni territoriali che la Romania vorrebbe veder risolte a suo favore come compenso dell’entrata in guerra a fianco dell’Intesa: le frontiere del Danubio sino al Tibisco, quelle del Prut in Bucovina, l’acquisizione del Banato di Timişoara e dei territori della Transilvania dove i romeni sono in maggioranza. La regina, ormai protagonista della scena politica, scrive anche all’imperatore di Russia Nicola II, che si mostra disposto ad assecondare le richieste della Romania sulla Transilvania e sulla parte meridionale della Bucovina, ma non sui territori abitati, insieme ai romeni, da altre etnie.
La neutralità della Romania si protrae per un altro anno, oltre il quale la scelta di campo e l’intervento militare non possono più essere procrastinati. Il 14/27 agosto 1916 la Romania entra in guerra contro l’Austria. La decisione era nota a Maria da settimane, ma la regina, per ragioni di Stato, ha tenuto per sé il terribile segreto. In quel drammatico momento, la sovrana trova parole di tenerezza e di comprensione per chi, nei due lunghi anni di attesa, ha sofferto più di lei: suo marito, il re Ferdinando. «Giorno dopo giorno», scrive nel Diario, «l’ho visto patire, lottare, dubitare, sperare, ma il calice doveva essere vuotato sino all’ultima goccia. Nulla gli fu risparmiato: né le minacce, né le suppliche, né gli appelli al suo onore come Hohenzollern e come ufficiale tedesco; gli furono ricordati i trattati d’un tempo, l’eredità del vecchio zio, la politica del passato… Dall’altra parte lo guardavano sospettosamente, come fosse un nemico: il suo stesso Paese dubitava di lui; era chiamato codardo, traditore, veniva insultato nei giornali! Ben pochi credevano a quello che io affermavo, e cioè che, quando fosse giunto il momento, egli avrebbe fatto il sacrificio che gli si imponeva, ma che non avrebbe tentato di anticipare quell’istante, per mantenere lontani il più a lungo possibile gli orrori della guerra».
L’inconfondibile temperamento della regina Maria ci è restituito in pieno dal suo Diario di guerra; il lungo e operoso pellegrinaggio tra gli ospedali militari, molti dei quali sarà lei stessa a fondare, è tuttora considerato come una delle azioni filantropiche più notevoli di ogni tempo.
L’impatto con i feriti più gravi è particolarmente penoso per la sovrana, che assiste al ripetersi di una scena impressionante e dolorosa: «Essi non si lamentano quasi mai. Quello che più mi commuove e che mi fa venire le lacrime agli occhi è che, se soffrono, dicono tutti: “Sì, soffro, ma poco importa, basta che voi diventiate l’imperatrice di tutti i romeni…”». Maria è afflitta, smarrita; la follia della guerra, che investe ogni cosa, si è materializzata già al primo incontro, nelle umili, eroiche parole dei soldati.
Col passare dei giorni iniziano i bombardamenti aerei, che falcidiano la popolazione di Bucarest e di altre città. Intanto, i tedeschi avanzano, e sul fronte bulgaro le operazioni belliche si risolvono in un disastro. La regina passa instancabilmente da un ospedale all’altro; non è a una solidarietà di facciata che la indirizzano i suoi prestigiosi natali e l’amore per il popolo romeno.
Purtroppo, proprio in quei giorni difficili un evento imprevedibile e tragico sta per abbattersi sulla famiglia reale: il piccolo Mircea, sesto e ultimo dei figli di Maria, contrae il tifo, all’epoca malattia perniciosa e spesso mortale. L’angosciosa agonia del bimbo, di soli tre anni, si protrae per dieci giorni, nel dolore indicibile di una madre che negli intervalli fra una crisi e l’altra trova la forza di continuare l’opera di assistenza ai militari ospedalizzati.
Mircea muore il 2 novembre, Allerseelen, il giorno dei morti. La regina è straziata, né viene risparmiata da altre sofferenze, legate a quanto accade sui campi di battaglia: la Dobrugia è perduta, il ponte sul Danubio, orgoglio di re Carlo I, deve essere fatto saltare, le perdite nelle file dell’esercito sono ingenti. Il dovere diventa il principale sollievo di Maria; nella Moldavia visita gli ospedali militari di Roman, Bacău, Teţcani e Târgu Ocna, poi si occupa dei feriti alloggiati nelle case sparse di Adjud. Il suo stato d’animo è racchiuso in un brano sconsolato: «Mormoro buone parole, do consigli, sorrido e ascolto le lamentele, ma il mio dolore mi isola e mi allontana dagli altri. Sono io che mi muovo, che agisco, che penso e parlo, eppure mi pare che sia qualcun altro col quale non sono ancora abituata a vivere…”.
Purtroppo, le cose vanno di male in peggio: la residenza di Buftea, che gli Ştirbey hanno messo a disposizione della famiglia reale, viene colpita dai bombardamenti; a novembre l’Oltenia cade nelle mani del nemico; negli ospedali mancano cibo, medicinali, indumenti, coperte. Arriva anche l’occupazione di Bucarest e la necessità di un’evacuazione in Moldavia; il panico e il caos si diffondono ovunque, e il 9 dicembre Maria sfoga la sua amarezza con parole brucianti: «Da tutte le parti giungono cattive notizie, e più le notizie sono cattive più i codardi alzano la voce».
Siamo dinanzi alle pagine più sofferte del Diario, e solo al lettore superficiale può sfuggire che in quel drammatico contesto la regina sia l’unico personaggio di rilievo a svolgere un ruolo politico e contemporaneamente un fondamentale ruolo assistenziale.
Quando la disperazione sembra propagarsi ovunque, Maria si convince di una verità fondamentale: ciò che l’aspetta non è altro che una battaglia tra il bene e il male, dove il male è lo scoramento, l’inerzia, e il bene risiede nell’indomabile desiderio di lottare, di non arrendersi. Così, dopo una breve esitazione, la regina convoca Brătianu esortandolo ad agire in modo più energico; cerca di piegare il re all’idea di militarizzare anche la popolazione civile; dietro consiglio del ministro italiano Carlo Fasciotti spinge Ferdinando ad aprire il Parlamento e favorire la formazione di un governo di coalizione nazionale; si batte con tenacia affinché venga eletto un capo supremo dell’Organizzazione Sanitaria; riesce a sventare il piano dell’Esercito di impadronirsi delle autoambulanze “Regina Maria”, con le quali i feriti vengono trasportati dal fronte agli ospedali. Certamente, Florence Nightingale, l’angelo dei soldati, l’infaticabile organizzatrice dei soccorsi ai militari e inventrice della moderna professione di infermiera, sarebbe stata fiera della connazionale divenuta regina della Romania.