‘VOCABOLARIO ISTROROMENO-ITALIANO. La varietà istroromena di Briani (‘Bəršćina)’ Ed.ETS Pisa, 2011
Autore: Antonio Dianich |
Gli istroromeni, minuscolo gruppo linguistico dell’Istria, della cui storia non è certo quasi nulla eccetto le dolorose vicende dell’ultima guerra, che hanno provocato una loro drammatica diaspora, abitavano sulle colline intorno al lago di Felicia, ora, dopo la bonifica avvenuta negli anni ’30, splendente vallata ai piedi del Monte Maggiore: una piccola povera ma felice arcadia, l’hortus conclusus della loro vita e della loro particolare parlata romanza. Ma ormai le vecchie case di pietra, un tempo spesso coperte da tetti di paglia, sono occupate da gente venuta di fuori: solo alcuni anziani, che sono rimasti perché non hanno avuto cuore di allontanarsi, parlano ancora il vetusto idioma. Per un miracolo della storia, sopravvive a New York una piccola colonia, anch’essa destinata all’esaurimento. L’unica cosa che potevo fare, era recuperare dalla mia memoria e da quella dei contadini diventati a forza cittadini di una metropoli, i relitti di un funesto naufragio. Questo libro vuol essere un archivio di quanto ancora sopravvive della cultura degli ultimi istroromeni e specialmente della loro (e mia) lingua moritura. Ma esso è anche un ‘piccolo viaggio sentimentale’ nella mia autobiografia, un’elegia sulla fine di un mondo, del nostro mondo istroromeno. Antonio Dianich è un istroromeno nato a Fiume nel 1933. Nel 1948 ha dovuto abbandonare il suo paese. Si è laureato in Lettere Antiche all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore. Ha sempe insegnato italiano e latino nei licei italiani, anche in quelli di Madrid e di Istanbul. Attualmente è in pensione: vive a Pisa, ma ha scritto questo libro tra gli olivi della Casa di Cimitagna, sulle pendici di un altro Monte Maggiore, dove cresce e produce ottime prugne un albero che i genitori portarono con sé dall’Istria, quand’era solo un germoglio con due piccole pallide foglie. |
Prefazione
Da tempo ormai si è venuta creando, anche al di fuori degli ambienti accademici, una sensibilità diffusa per le deleterie conseguenze della sempre più frequente scomparsa di varietà linguistiche e di saperi, culture, interpretazioni del mondo che in queste lingue solevano essere espressi.
I linguisti sono ora in grado addirittura di quantizzare queste perdite costanti e le cifre fanno ve- ramente impressione. Ma se il fenomeno è conosciuto in tutta la sua ampiezza e gravità e nelle sue devastanti conseguenze, rimane problematico immaginare piani di intervento per la salvaguardia di tanto sapere che va scomparendo, ammesso che sia possibile nella maggior parte dei casi intervenire con qualche strategia, dal momento che tentare di contrastare tendenze così potenti assomiglia tan- to al nobile tentativo di arginare con pochi fuscelli il trabordare di una piena.
Il minimo che il linguista avvertito può fare è offrire almeno una descrizione delle varietà lingui- stiche agonizzanti e possibilmente tratteggiare anche alcuni pochi aspetti della cultura che muore o è morta già e sopravvive solo nella memoria di una generazione declinante.
Questo ho cercato personalmente di fare nella mia età matura limitatamente a lingue-culture mi- noritarie molto distanti da qui, incastonate nel cuore occulto dell’Africa.
Ma di lingue-culture devastate e morenti ce ne sono anche a due passi da qui, e il presente volu- me di Antonio Dianich, che ho voluto includere come attività del Dipartimento di Linguistica di Pisa in una ideale “collana” di studi sul tema delle lingue in via di estinzione, ne è preziosa testimo- nianza.
L’autore, parlante nativo di quella lingua che i linguisti chiamano istro-romeno e i parlanti desi- gnano come ‘vlwaški, ha con tenera passione e nostalgia struggente “rievocato” il suo idioma mater- no, circoscritto ad una piccola parte del territorio istro-romeno, sottraendolo all’oblio in cui sta per scivolare in conseguenza dei folli eventi con cui la Grande Storia, come è solita fare, ha marchiato a sangue questa popolazione.
Pochi sono oggi i parlanti ‘vlwaški nelle varie località di Briani, dove l’Autore ha vissuto la sua in- fanzia: per ricostruire il lessico di questa zona limitata egli ha dovuto recarsi a New York per incon- trare i suoi informanti, un tempo compagni di giochi infantili, ora attempati amici, sbigottiti dalle dure esperienze di una vita faticosa. Con il loro aiuto ha fatto rivivere una cultura ormai perduta, un mondo agricolo ancestrale ora non più immaginabile.
Ma non è solo il lessico, con la sua corrispondenza italiana acribicamente ricercata, che ci illustra quella cultura arcaica: i testi che accompagnano il dizionario, narrano storie individuali, storie co- rali, la vita quotidiana di quel mondo temporalmente sospeso e l’irrompere crudele dei convulsi, insensati eventi esterni nell’hortus conclusus del tempo dolorosamente ritrovato.
Il presente dizionario, corredato anche di una introduzione storica che illumina sulle vicende di questa popolazione non a tutti nota, ha il sapore di un romanzo, e, come la Istanbul di Orhan Pamuk, è la rievocazione di un mondo perso per sempre e bello come tutto quello che non potrà essere più.
Roberto Ajello