Credo sia giunto il momento di rifare un po’ di conti col coronavirus e con i diversi limiti che ci ha imposto. A che cosa assomiglia la nostra quotidianità, qual è la modalità con cui identificare, oggi, l’esistenza che conduciamo?
Per rispondere, vorrei rifarmi alla notissima teoria della “modernità liquida” del sociologo Zygmunt Bauman, estendendo l’assimilazione fra gli stati della materia e la condizione umana.
Uno dei primi concetti che apprendiamo nello studio delle scienze è che i principali stati di aggregazione della materia sono tre: quello solido, quello liquido e quello aeriforme (o gassoso). Partiamo dal primo: l’aggettivo solido, sia esso riferito a un elemento, a una persona, a una società, suggerisce immediatamente un’idea di stabilità, di compattezza, di durata nel tempo.
Ora, guardando alle civiltà umane succedutesi nel corso della storia, non c’è dubbio che siano le società antiche quelle che possiamo avvicinare alla solidità, per vari motivi. Quasi tutte le strutture sociali del passato si fondavano su regole e tradizioni rigide, con governi forti, rapporti regolati da usi ancestrali, stretta obbedienza a canoni morali e religiosi.
Ciò non equivale, ovviamente, ad attribuire un particolare valore ad un tale stato sociale, se non nel senso che tutti, o quasi, conoscevano il ruolo e i compiti che li attendevano, insomma agivano in un ordine prestabilito e durevole. Per contrasto, queste società presentavano profonde disuguaglianze ed ingiustizie; nascere e morire da schiavi vuol dire vivere miseramente, all’opposto di chi aveva la fortuna di appartenere alle classi dominanti.
Nel Settecento e nell’Ottocento, i valori della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, guadagnano terreno ovunque; è la classe sociale emergente, quella borghese, a contribuire maggiormente alla tenuta delle strutture sistemiche del nuovo ordine, benché esso venga profondamente scosso, nel Novecento, dalle due Guerre Mondiali e dalla crescente, inesorabile dipendenza dall’apparato tecnologico.
E’ proprio negli ultimi decenni del secolo scorso che abbiamo iniziato a vivere la condizione “liquida” descritta da Bauman: il consumismo bulimico, la necessità di apparire a tutti i costi, la ricerca disperata della propria individualità, la paura sociale, i legami fragili e mutevoli; una vita segnata dalla precarietà e dai mutamenti repentini, proprio come succede ai liquidi, che assumono la forma del recipiente che li contiene.
E ora? Come viviamo la particolare, inusitata condizione in cui ci ha costretto la pandemia? Io credo che siamo alle prese con un’ulteriore modalità esistenziale, anch’essa curiosamente coincidente con uno stato della materia, il terzo, quello aeriforme. La società aeriforme è quella in cui siamo diventati ancor più volubili, evanescenti, invisibili. Salvo eccezioni (mi riferisco a chi continua a stare in trincea nella battaglia contro la pandemia) ci sentiamo eterei, irrilevanti, incapaci di immaginare un futuro: rarefatti i rapporti con familiari e amici, sospesa la normale fruibilità delle strutture sociali, ampliate le nostre paure, e non solo perché vediamo perire migliaia di persone, ma perché si avverte un senso di abbandono, di regressione dalla vita quando non possiamo abbracciarci, o seppellire i nostri cari, o scambiarci una visita.
Ovviamente, il particolare momento che stiamo vivendo è oggetto di continue riflessioni, dibattiti, giudizi. Fra i tanti, vorrei citare quello di una studiosa più che mai sulla cresta dell’onda, la brava grecista Andrea Marcolongo, autrice del fortunato “La lingua geniale”.
In un’intervista concessa il 24 luglio 2020 al quotidiano la Repubblica, Marcolongo ha affermato testualmente: “Il virus ha portato il caos nelle nostre vite, nella società, nella politica”.
Eh no, cara Marcolongo. Il Covid 19 ha portato molte cose negative: confinamento, crisi economica, disoccupazione, paura, solitudine, e una rabbia sociale che rischia di deflagrare da un momento all’altro; ha portato anche un certo caos, soprattutto nell’ambito normativo, con le ripetute e accentuate divergenze tra il Governo centrale e le Amministrazioni territoriali, e le crescenti disunità fra i particolarismi del Paese.
Ma il vero caos esisteva e imperava prima del coronavirus: il caos di una crescita illimitata cui non riusciamo a stare dietro, del sistema socio-economico globalizzato, dei media che fanno a gara per raccogliere il peggio, dei conflitti in atto persino in piena crisi pandemica; il caos delle mafie presenti ovunque, dell’investimento di ingenti risorse finanziarie e umane nella produzione di armi, di tecnologie capaci di violare il nostro cervello, di virus micidiali, invece di destinarle alla ricerca medica, alla convergenza delle politiche ambientali, alla riduzione delle disuguaglianze.
Detto questo, che cosa possiamo fare nella condizione gassosa di oggi? (per inciso, la parola gas deriva proprio dal greco chaόs). Come comportarci dinanzi alle limitazioni delle libertà e delle relazioni sociali, al senso di privazione e di inconsistenza che stiamo vivendo? Sono perfettamente consapevole che fornire consigli a chi è seriamente malato, a chi ha perso il lavoro, a chi non ha più soldi, a chi – come medici, infermieri e volontari – sta tutti i giorni in prima linea, può apparire irritante e inutile. Mi rivolgo dunque a tutti coloro che non versano in queste condizioni e tuttavia si lamentano di continuo, imprecano, proclamano dalla poltrona di casa che “siamo in guerra” e pensano che vivere felicemente sia un diritto acquisito per sempre.
A queste persone dico semplicemente di concentrarsi su tutto ciò che abbiamo conservato a dispetto del coronavirus. Pur impediti a vivere in libertà le nostre giornate, possiamo leggere, fare esercizio fisico e spirituale, vedere la tv, seguire film e documentari su you tube, telefonare a parenti ed amici, prestare volontariato dove serve o dove pensiamo di poterlo fare meglio, pregare, scrivere i nostri pensieri, fare cento lavori manuali in casa, gustare i piccoli e spesso dimenticati riti quotidiani; tutto questo a ritmi meno veloci, e perciò più appaganti di quelli cui eravamo abituati. Perché forse è vero che dovevamo fermarci (come ha scritto Mariangela Gualtieri in una bellissima poesia), che la nostra vita era diventata troppo comoda, che avevamo bisogno di una lezione per apprezzare ciò che avevamo trascurato.
Ma possiamo fare molto di più: estendere ad altri la fiducia, l’ottimismo, la voglia di resistere. Oggi più che mai vale l’affermazione di Peter Handke, Premio Nobel per la Letteratura nel 2019, che ci invita a “contagiare benevolmente la gente”. Di sicuro riusciremo meglio in questo compito con un semplice esercizio di memoria, quella dei nostri nonni e delle tremende sofferenze che patirono durante le Guerre Mondiali, quella dei campi di concentramento, quella di chi è vittima di malattie devastanti, quella di chi, a causa di disastri naturali, è rimasto senza casa e senza lavoro, quella di chi vive in condizioni di semi schiavitù, o di chi è in carcere per aver espresso un pensiero diverso da quello del despota di turno.
Ecco, tenendo a mente questi terribili traumi, e lavorando sul buon senso, potremo evitare il lockdown morale, e scoprire che proprio la strana realtà di oggi può rivelarci le nostre autentiche qualità e il valore del prossimo.