Credo che scrivere sia un atto di estrema libertà e che ci vuole molto coraggio per scrivere e ancora di più per scriversi, perché attraverso la scrittura l’individuo può svelarsi a se stesso…
Mihai, iniziamo con l’anno 2007 che ti ha portato un premio da parte del Comune di Roma per il tuo impegno nella vita della comunità romena, per la visibilità che hai dato a questa comunità in Italia, per la partecipazione a molti convegni e seminari. Che significato ha questo riconoscimento per i romeni e per quanto ti riguarda?
Sono stato premiato per alcuni articoli pubblicati sulla rivista Internazionale, testi in cui avevo affrontato la questione delle migrazioni in Italia e più specificatamente l’immigrazione dalla Romania. Non saprei quale significato possa avere questo premio per i romeni in generale. A Roma, alla cerimonia di premiazione, mi ha avvicinato una giovane connazionale per dirmi quanto fosse contenta che anche la Romania risultasse “rappresentata” in qualche modo a questa manifestazione. Per quanto mi riguarda ho difeso, anche con la scrittura di articoli, un principio che dovrebbe essere riconosciuto ovunque ed in base al quale non si devono condannare le persone soltanto per l’appartenenza ad un popolo. Si dice che fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce. A partire da questo ho ricordato nei miei articoli, in tempi che oggi diremmo “non sospetti”, che in Italia c’è una foresta di romeni – ma anche di italiani, migranti ed altri viaggiatori – che in silenzio, con umiltà e modestia, dà all’economia di questo paese molto più ossigeno di quanto gliene tolga respirando. La responsabilità, prima di essere collettiva è individuale. Io penso di aver cercato di assumermi questa responsabilità. Forse questo sforzo è stato riconosciuto anche nei premi che ho ricevuto.
Le tue radici sono in Romania ma la tua formazione intellettuale l’hai acquisita arrivando in Italia. Praticamente ti sei stabilito in Italia subito dopo gli anni della rivoluzione del 1989 e da un regime oppressivo sotto il quale avevi vissuto sei arrivato in un paese democratico. Con quali occhi hai visto allora questo passaggio? Quali sono state le prime cose che ti hanno sorpreso, tenuto conto del fatto che eri molto giovane?
A dire il vero la mia formazione è iniziata in Romania. Penso di aver imparato lì, sin da piccolo, cosa vuol dire un approccio onesto alle relazioni sociali ma anche la necessità di tenere aperti i confini del proprio pensare. Soprattutto in un periodo dove questa cosa non era poi così scontata. Ho proseguito la mia formazione e soprattutto la mia ricerca esistenziale, cogliendo anche grandi opportunità che l’Italia mi ha offerto. È comunque un percorso che continua ancora e di cui non intravedo la fine. Un percorso che si può evincere anche dai miei scritti e la loro presentazione sarà un complemento alla risposta a questa domanda. Non mi considero un intellettuale. Mi ritengo un operaio della scrittura, uno che si sporca le mani con i temi che riguardano la vita delle persone. Ricordo, ogni volta che mi chiamano “intellettuale”, quanto diceva Prévert: «La differenza tra operaio e intellettuale? L’operaio si lava le mani prima di pisciare, l’intellettuale dopo». Perciò io mi sento un operaio della scrittura, uno che scende in campo, affronta anche temi antipatici e quando c’è bisogno lo fa anche in maniera impopolare.
Porti con te un registro dei ricordi che hanno lasciato il segno negli anni dell’adolescenza? Ricordi cosa significavano a casa, a scuola, in strada… quel genere di argomenti tabù, argomenti evocati soltanto in silenzio o sottovoce?
Ho vissuto, negli anni dell’adolescenza, la frustrazione dell’impossibilità di esprimere apertamente le proprie opinioni, il proprio pensiero, ma anche la delusione della scoperta di atteggiamenti delatori e opportunistici, persino tra i compagni di scuola. A quell’età sono cose che, certo, lasciano il segno. Per quei tempi, se devo usare immagini comprensibili per un italiano allora cito “Prospettiva Nevskij” di Franco Battiato: «E studiavamo chiusi in una stanza/ la luce fioca di candele e lampade a petrolio/ e quando si trattava di parlare aspettavamo sempre con piacere». La scuola, al di là dell’indottrinamento, è stata comunque una buona esperienza dal punto di vista dell’acquisizione di un metodo di studio e di una disciplina nel approccio agli studi. Io sono rimasto orfano di madre a otto anni, ero il più piccolo di quattro fratelli e certo non è stato facile dal punto di vista economico. In quel periodo ho imparato questo ed anche il fatto che “difficile” non vuol dire necessariamente “impossibile”.
Le radici della tua famiglia si ritrovano in una parte della Romania segnata da una storia tumultuosa, quali ricordi conservate nella tua famiglia rispetto ad un anno tragico della storia della Transilvania, mi riferisco al Diktat di Vienna del 1940, all’occupazione della Transilvania da parte degli ungheresi… cosa puoi dire di queste cose in cui anche tuoi parenti si sono ritrovati coinvolti?
Una grande lezione di storia l’ho ricevuta da mio padre. Egli è stato, fino a due anni fa, uno dei pochi sopravvissuti del massacro di Ip, in Transilvania, nel 14 settembre 1940. Io sono nato nello stesso giorno, 29 anni dopo. Più di 150 morti ammazzati dall’esercito ungherese, con la complicità e la collaborazione di compaesani, in un paese più piccolo del suo nome. La mia raccolta di poesie “Borgo Farfalla” (Eks&Tra 2006) si apre con un omaggio a coloro che sono caduti in quella notte, a mio zio Gavril che ha perso la famiglia ed ha visto fucilare i suoi famigliari, a mio padre, un dodicenne sopravvissuto ad una notte terribile. La prima poesia, ispirata a questo episodio, si intitola “Eccidio 1940” e, data la sua brevità, la riporto integralmente: «Papà Gheorghe:/ Sparano contro la folla./ Devo scegliere se morire/ o raccontarvi tutto…» Ho imparato da mio padre la lingua ungherese perché diceva: «Più lingue sai più hai accesso alle varie culture, e puoi parlare anche con gli ungheresi, anche con quelli che non sanno la tua lingua». E non serbava rancore e non m’insegnava l’odio. Giocavo nel cortile – e a quei momenti ho dedicato il racconto “Segmenti di mercato” in un’altra antologia – con Levente, amico d’infanzia, ungherese, che oggi vive e lavora in Ungheria. Siamo rimasti amici, e siamo sordi agli appelli nazionalisti, più o meno subdoli, più o meno irresponsabili, che ogni tanto arrivano dalla Romania o dall’Ungheria. Noi sì, abbiamo tenuto aperti i confini del nostro pensare. E se accetto di parlarne ancora è per riportare anche la lettura della storia ad un dibattito che abbia da insegnare, che eviti di fomentare correnti e venti sciovinisti, che non dimentichi, che sappia perdonare e soprattutto costruisca con questa memoria percorsi di pacifica convivenza. Anche altrove, ovunque ce ne sia bisogno. La storia va conosciuta non per innescare conflitti ma perché non abbia a ripetersi nelle sue più drammatiche e dolorose pagine.
Dicevi da qualche parte che ti consideri un migrante per tutta la vita. «E anche se la mia integrazione è considerata da molti riuscita, rimango comunque un romeno, tutto quello che ho è nello zaino – in spalla – con il quale salgo sul treno, zaino in cui metto ogni giorno cose nuove. Mi sento un cittadino del mondo ma le mie radici sono comunque a casa. Rimango un romeno che è emigrato dal suo paese, ma che vive questa esperienza con armonia…» Ho trovato nella tua dichiarazione un’equilibrata definizione dell’uomo tra due mondi…
Pensavo così, di vivere tra due mondi che poi, oggigiorno, si rivelano molti mondi che si intrecciano in molti luoghi. Questo mi fa capire che il cammino del viaggiatore non è circoscrivibile in confini geografici o culturali. È un percorso che avvicina i confini e li attraversa. Ed è la vita di un viaggiatore che si fa attraversare dai confini. Per conoscere e per capire il proprio cammino, con la certezza del punto di partenza e con l’incognita del punto d’arrivo. Ma con una apertura ad esplorare oltre gli orizzonti.
Una parte dei romeni arrivati negli anni ’70, ’80 o subito dopo la Rivoluzione, integrandosi nella società italiana perdono il contatto con il mondo romeno; non parlo di un fenomeno di isolamento quanto di una mancanza di dialogo con la propria comunità… tu come hai ripreso questi legami? Come è avvenuto questo cambiamento? Qual è stata l’immagine che hai percepito? Ti chiedo questo perché sei arrivato ad essere coinvolto anche in attività di ordine culturale e sociale nel interno della comunità romena?
Io penso che i riferimenti alla cultura d’origine siano necessari ma non possono essere gli unici. Ricordo che, qualche anno fa, le comunità romene in italiana organizzavano ancora eventi esclusivamente in lingua romena. Questo poteva risultare autoreferenziale ed autoghettizzante e tutt’al più avrebbe prodotto la conservazione della cultura romena, non certo la promozione nel paese che ci ospita. Cosa che ritengo invece necessaria. Ho sottolineato più volte la necessità di organizzare eventi almeno in versione bilingue, per poter coinvolgere sempre pensiamo che oggi, anche in un momento di aggregazione informale, troviamo quasi sempre amici, mariti, fidanzati italiani, non possiamo non tenerne conto. Dobbiamo stabilire un comune veicolo linguistico per parlare della nostra cultura e dobbiamo interrogarci se questo possa essere il romeno mentre siamo in Italia. Molti connazionali mi chiedono spesso, quasi avessero dubbi, se le mie radici sono ancora in Romania. Certo che ho delle radici molto forti, inestinguibili, in Romania. Ma io sto crescendo, in questo momento, altrove e con questa realtà devo fare i conti. È da qui che il mio sguardo si volge al passato ed è da qui che guardo al futuro. Nel frattempo ho messo anche nuove radici. Ma questo non m’impedisce di pensare che il mio cammino possa ancora avere altre tappe, nuove radici e nuovi spazi di crescita. Senza dimenticare dove sono nato. Per superare i malintesi attraverso la chiarezza. E di questo siamo responsabili tutti quanti, romeni ed italiani, anche nell’ottica di un futuro che metterà in discussione le nostre diverse, e talvolta plurime, appartenenze.
Intervista tratta dal volume “Personalità romene in Italia”, di Violeta Popescu, Edizioni dell’Arco, Milano 2008.