Nei giorni scorsi è ribaltata sui media la notizia dell’ultimo plagio attribuito al prof. Umberto Galimberti, in passato già coinvolto in casi simili. La vittima è il pensatore romeno Constantin Noica (1909-1987), peraltro poco tradotto all’estero e in Italia. Ne abbiamo parlato con colui che ha scoperto e segnalato il caso alla stampa italiana.
Costică Brădăţan, 40 anni, originario di Suceava, Romania, è ricercatore (assistant professor) all’università americana Texas Tech. Ha insegnato anche in altri atenei statunitensi (Cornell University, Miami University), europei (Inghilterra, Germania, Ungheria, Bulgaria e Romania) e dell’India. Ha studiato filosofia alle università di Bucarest e Durham (Inghilterra). Tra le sue pubblicazioni, The Other Bishop Berkeley. An Exercise in Reenchantment (2006), Jurnalul lui Isaac Bernstein (2001) e O introducere la istoria filosofiei româneşti în secolul XX (2000). Oltre alle curatele di volumi e agli studi nelle riviste specializzate (Utopian Studies, Philosophy & Literature, Parallax, Angelaki, The European Legacy, Minerva, The Heythrop Journal, Acta Philosophica, Minerva, The Journal of the British Society for Phenomenology, East-European Politics & Societies, ecc.), ha pubblicato recensioni e articoli in periodici nord-americani (Christian Science Monitor, Philadelphia Inquirer, The Globe & Mail) e in riviste culturali come Times Literary Supplement. Alcuni dei suoi lavori in inglese sono stati tradotti anche in altre lingue (polacco, spagnolo, portoghese, olandese, romeno e bulgaro).
Horia Corneliu Cicortaș: Come ha scoperto questo plagio?
Costică Brădățan: Per puro caso, come probabilmente vengono scoperti il più delle volte i plagi. Qualche mese fa ho recensito la traduzione inglese del libro di Noica per il Times Literary Supplement. Così, per quell’occasione, ho riletto il libro. Più o meno nello stesso periodo, stavo leggendo anche il libro di Galimberti, dove ad un tratto mi hanno colpito i relativi passi noichiani, poiché hanno una certa audacia speculativa e una forza poetica che non puoi facilmente dimenticare. Ho fatto subito ricerche sull’autore e ho scoperto che vi è una intera storia dei plagi galimbertiani. Lì per lì ho pensato di lasciar perdere, mi sono detto: un plagio in più o in meno ormai non conta più. Mi sono poi reso conto che questa vicenda ha qualcosa di molto divertente (come è stato osservato, il mio testo è scritto in una chiave marcatamente ironica): nel Paese dove è comparso lo stereotipo “i romeni sono ladri”, ecco che qualcuno si è messo a rubare dai romeni. Come potevo resistere? Se almeno Galimberti avesse fatto un gesto, per prendere le difese degli immigrati romeni d’Italia: “Signori, non è proprio così, alcuni non sono ladri, direi perfino: al contrario.” Ma non lo ha fatto.
…a differenza di un Umberto Eco, che invece è sceso in campo, due anni fa, con un divertente articolo sui “maledetti romeni”.
Infatti. Peraltro, da quanto venivo a sapere, era per la prima volta che Galimberti plagiava un autore straniero (tutte le sue vittime scoperte finora erano stati autori italiani), il che mi è sembrato molto interessante, una dimostrazione di cosmopolitismo e spirito ecumenico. Non potevo lasciare inosservate questo genere di cose.
Lettera43.it ha avuto, grazie alla sua segnalazione, una notizia d’oro, anche se l’amica Delia Coșereanu, che lavora in quella redazione, mi ha detto che inizialmente la direzione del giornale non era troppo interessata a pubblicare la notizia. Aveva inviato anche ad altre pubblicazioni italiane la segnalazione del plagio?
Io non posso sapere che cosa è stato discusso in redazione su questo fatto. Ciò che so, è che il direttore Paolo Madron è stato di una professionalità ammirevole. Mi ha risposto subito (in poche ore, il che, data la mia esperienza con le redazioni italiane, è una cosa rarissima). Ho capito da un’intervista rilasciata in seguito al Giornale che, quando avevano ricevuto il mio testo, quelli di Lettera43.it erano rimasti in qualche modo perplessi; per cui, la prima cosa che hanno fatto è stata quella di convincersi che io esista davvero (cosa che mi sembra una dimostrazione di spirito filosofico) e di andare in biblioteca per verificare se io non mi sia inventato tutta la faccenda (cosa che mi sembra un’ulteriore prova di professionalità).
Certo, avevo contattato anche altre pubblicazioni italiane prima di arrivare a Lettera43. Il modo in cui esse hanno risposto alla mia iniziativa è una storia a sé, troppo lunga e troppo complicata per raccontarla qui. Basti dire che in questo modo ho imparato moltissimo sulla società italiana di oggi. Alcune di queste pubblicazioni (ad es., L’Unità, Avvenire, Corriere) semplicemente non mi hanno risposto. E non avevo nemmeno scritto all’indirizzo generico della redazione, ma a delle persone in carne ed ossa: redattori della sezione di cultura, capi redattori e così via. Allora mi sono detto: questo sarà probabilmente una prova di buona crescita. Qualsiasi persona ben educata sa: “you don’t talk to strangers”. Altri (per es. Il Sole 24 ore) mi hanno risposto, educatamente, che non erano interessati alla cosa. La più onesta risposta, di una onestà quasi inverosimile, mi è venuta dal quotidiano La Stampa. Il redattore che mi ha risposto mi ha scritto qualcosa del genere: “No grazie. Sui casi di plagio di Galimberti è stato scritto così tanto qui da noi, che la gente si è letteralmente stufata”. Solo un rigo – ma quanta ironia! Mi hanno rifiutato il pezzo sul plagio di Galimberti per il motivo che il plagio in questione non era sufficientemente originale. In quel momento, mi è passata spontaneamente tutta l’arrabbiatura, rallegrandomi invece di essere il testimone di una situazione di un’assurdità talmente raffinata, che poche volte ci può capitare nella vita.
Da quanto ha potuto comprendere, perché Galimberti ha avuto bisogno di prendere dalla traduzione da poco pubblicata quei frammenti di Noica? Solo perché ne è rimasto stregato, oppure perché quei frammenti erano funzionali all’architettura del proprio discorso? Caso quest’ultimo, in cui sarebbe stato corretto, ovviamente, indicare la fonte del prestito.
Temo che solo Galimberti stesso potrebbe rispondere a questa domanda – sperando, naturalmente, che la risposta non sia anch’essa un plagio. Una domanda ancora più importante mi sembra questa: perché si tollera una cosa del genere? A differenza della cultura romena, ad esempio, che ancora soffre per via dei traumi totalitari e post-totalitari, la cultura italiana mi sembra una cultura coerente, sofisticata, matura. Beninteso, parlo di “cultura” in senso antropologico, intesa come sistema di pratiche, comportamenti, preferenze che manifestano, tutte, una certa unità stilistica e funzionale. In questo senso però, qualsiasi cultura è anche un sistema di interdizioni e, come tale, dovrebbe generare in maniera alquanto naturale anche una definizione di quel che è inaccettabile. E allora, perché la cultura italiana di oggi – diciamo, la sub-cultura degli ambienti universitari o giornalistici – non ha sviluppato certi meccanismi di autodifesa, degli anticorpi che l’aiutino semplicemente a non tollerare, ad esempio, plagi come questo?
Sfortunatamente, come del resto è risaputo qui in Italia, la maturità della cultura italiana non si riflette in quella dell’ambiente accademico, nonostante i ripetuti tentativi di riforma degli ultimi decenni, da cui anche l’emigrazione degli intellettuali italiani, che continua tuttora. Ma insomma, questa è una storia lunga…
Nel mondo in cui viviamo il plagio è qualcosa che semplicemente “non si deve fare”. Ovviamente, ci sono delle basi di natura etica e anche epistemologica per questa proibizione, cui si aggiungono anche considerazioni di ordine immediato, pratico. Faccio due esempi. Quando compro un libro plagiato sono ingannato nella mia qualità di acquirente: in cambio di quel che pago ricevo una cosa diversa da quanto scritto sull’etichetta. Ho pagato per leggere Galimberti e scopro di leggere Noica, Giulia Sissa o chi sa chi? Questo fatto, di per sé commerciale, attraverso il quale vengo semplicemente “fregato”, mi sembra l’epifania brutale di tutta l’ingiustizia implicata nel plagio. È un aspetto semplice del fenomeno, ma estremamente rivelatore. In secondo luogo, immagino che il prof. Galimberti faccia parte di commissioni di esami dottorali o di concorsi per docenti universitari. Ebbene, su quale base potrà egli rifiutare una tesi copiata o respingere un candidato reo di plagio? Cosa potrà dire a colui che si presenta all’esame di dottorato con una tesi frutto di un plagio? Di più: come fa l’università in cui lavora Galimberti a chiedere agli studenti di rispettare gli standard accademici del mondo civilizzato (tra i quali anche il divieto di plagiare), quando tra i propri docenti ci sono delle persone che plagiano?
Purtroppo, la diffusione del plagio sembra dipendere, sia pure in proporzioni più ridotte rispetto alla Romania, dallo stato di salute dell’ambiente accademico e, in generale, della società italiana. Posso testimoniare, anche in base alla mia esperienza, che l’università italiana ha settori di eccellenza e di ottima qualità sia per la didattica che per la ricerca, ma anche parecchie carenze strutturali.
Certo, in questa vicenda io sono soltanto un osservatore esterno, un outsider. Queste cose non mi riguardano direttamente, ma l’intelighentsia italiana dovrà prima o poi prenderle sul serio. Personalmente, non penso che la gente in generale (la stampa italiana, gli accademici italiani ecc.) vogliano “coprire” a tutti i costi Galimberti. Probabilmente si tratta d’altro. E qui parlo proprio come outsider, una posizione che ha sempre anche i suoi vantaggi, a volte affatto trascurabili. Da quanto ho potuto comprendere – lei, che vive in Italia, sicuramente lo sa meglio di me –, la società italiana soffre di un certo complesso culturale “perfezionista”, un complesso nato probabilmente da un fatto psicologico banale (la paura di non essere derisi), ma che nell’Italia di oggi mi sembra che sfiori il patologico. Ogni qualvolta compare un fatto che potrebbe metterci in cattiva luce, la prima reazione è di reprimerlo, di scansarlo, di ignorarne l’esistenza, così che l’immagine che abbiamo di noi stessi resti inalterata; è quel che in italiano si chiama “fare sempre bella figura”. Ora, in questo mondo esistono anche cose evidentemente spiacevoli, esiste Berlusconi, esiste la mafia. Però, fin quando puoi localizzare tali cose (“cattive” per definizione), fin quando puoi affibbiarvi un’etichetta dicendoti “questo è esattamente ciò che io non sono”, tutto diventa sopportabile; sotto il tuo sguardo, il mondo si trasforma in una specie di finzione, in un processo quasi esclusivamente mentale. Il fattore chiave in tale processo è l’esistenza di una linea di demarcazione netta tra “noi” e “gli altri”. Ebbene, quando qualcuno arriva a fare il pendolare tra questi due spazi (ad esempio, quando un intellettuale, “uno dei nostri”, commette un furto, sia pure un furto di parole, ovviamente un atto brutto che solo “loro” possono compiere), in quel momento fingiamo di non vedere. Non è successo nulla, nessuno ha rubato niente. Ma quale furto? Quali parole? La linea di demarcazione è rimasta intatta. “Noi” siamo rimasti incontaminati, e tutto il male è rimasto da “loro”.
Nota: una versione più ampia del presente colloquio può essere letta sul settimanale romeno Observator cultural, n. 567 del 18 marzo 2011.
Fonte: http://firiweb.wordpress.com