Centro Culturale Italo Romeno
Milano

L’amore per la Romania del più grande scrittore di viaggi del Novecento: Patrick Leigh Fermor [1]

Giu 21, 2021

L’amore per la Romania del più grande scrittore di viaggi del Novecento: Patrick Leigh Fermor [1]

                                  “Tutto ciò che aveva a che fare con la Romania iniziò a emanare un  incanto contraddittorio e potente”

 

Con questa pubblicazione si apre il riassunto-commento di Armando Santarelli – che avrà cadenza settimanale – a due eccezionali libri di viaggio, Fra i boschi e l’acqua e La strada interrotta, nei quali l’inglese Patrick Leigh Fermor, considerato il maggiore travel writer del Novecento, dedica alla Romania pagine straordinarie. E’ a questo scrittore che dobbiamo le indimenticabili parole che troviamo nel secondo dei libri citati: “Tutto ciò che aveva a che fare con la Romania iniziò a emanare un incanto contraddittorio e potente”.

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È uno di quei casi in cui non sai se ti affascina di più l’autore o la sua opera; perché l’esistenza di Patrick Leigh Fermor e i suoi libri sono ugualmente ricchi di vita, di incanto, di entusiasmo, di cultura. Patrick Leigh Fermor, detto Paddy, nasce a Londra l’11 febbraio 1915; suo padre, Sir Lewis Leigh Fermor, è geologo e Sovrintendente al Servizio Geologico dell’India; sua madre, Muriel Æileen Ambler, è una donna colta, piena di interessi, ma anche stravagante e – come scrive Artemis Cooper nella biografa di Patrick – “incontestabilmente snob”.

A circa un anno di età, il bambino viene affidato a George e Margaret Martin, una coppia di Weedon Bec, villaggio del Northamptonshire, perché Æileen deve raggiungere il marito in India. Naturalmente, la donna vorrebbe portare con sé sia la figlia maggiore, Vanessa, sia il piccolo Patrick; ma le navi inglesi sono sotto il tiro dei sottomarini tedeschi (siamo in piena Guerra Mondiale) e i Fermor non vogliono rischiare di perdere entrambi i figli.

Nonostante il distacco dai genitori, gli anni dell’infanzia di Paddy rimangono fra i più felici della sua vita; il bambino cresce in un clima di grande libertà e affetto. L’inusuale idillio finisce nel giugno 1919; il ricongiungimento con la madre e la sorella, “due bellissime sconosciute”, si rivelerà non privo di problemi.

A scuola le cose non vanno meglio: il ragazzino, che ha un buon profitto in latino, inglese, storia e geografia, rivela scarse doti nelle materie scientifiche; ma soprattutto è un alunno volubile e indisciplinato, “una pericolosa mescolanza di sofisticheria e di incoscienza”. Negli anni, collezionerà una serie incredibile di espulsioni, l’ultima delle quali dalla scuola più antica d’Inghilterra, la King’s School di Canterbury. Ma se il rapporto con le istituzioni scolastiche si rivela problematico, l’atteggiamento verso la lettura è totalmente differente; i libri saranno suoi fedeli compagni per l’intera esistenza.

A 18 anni Paddy non ha ultimato gli studi, non sa cosa fare della sua vita, non ha una vocazione né attitudini specifiche. La possibilità di un riscatto viene dalla pazza idea di attraversare a piedi la Mitteleuropa e raggiungere Costantinopoli: “Cambiare panorama; abbandonare Londra e l’Inghilterra e andare in giro per l’Europa come un vagabondo – o, dissi tra me e me – come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante. Mi sarei spostato a piedi, avrei dormito coperto da mucchi di fieno d’estate, cercando rifugio nei granai quando pioveva o nevicava, e avrei frequentato solo gente di campagna e vagabondi… Una nuova vita! Libertà! Qualcosa di cui scrivere!”.

Quando espone il progetto ai familiari, Paddy incontra comprensibili perplessità; ma il suo entusiasmo e la sua decisione fanno presto cadere ogni ostruzionismo. La madre, in particolare, si schiera decisamente dalla sua parte, e si mette a studiare le carte geografiche insieme a lui; le possibili situazioni comiche che si presentano alla reciproca immaginazione li fanno sbellicare dalle risa.

Paddy non può sapere, allora, che il suo viaggio non si risolverà nella mera esperienza iniziatica sognata da studenti e girovaghi di ogni epoca; i libri in cui rifletterà l’epica avventura, pubblicati con i titoli Tempo di regali, Fra i boschi e l’acqua e La strada interrotta, lo promuoveranno a scrittore di culto per moltissimi amanti della letteratura di viaggio.

L’itinerario attraverso la Romania è descritto negli ultimi due libri; perciò, con poche eccezioni – imposte dalla necessità di chiarire o completare la narrazione – è ad essi che rivolgeremo la nostra attenzione.

Ci sembra opportuno precisare – e sarà forse una piacevole sorpresa per diversi lettori romeni – che la Romania degli anni Trenta aveva calamitato l’attenzione di altri scrittori e studiosi britannici. Le manifestazioni del folclore romeno costituivano uno dei motivi di tale interesse; non meno importante il prestigio da cui era circondata la Regina Maria, moglie del re Ferdinando I di Romania e nipote della regina Vittoria.

Se lo scrittore Donald Hall, in Romanian Furrow (1933), aveva narrato le ancestrali condizioni di vita dei contadini romeni, il musicologo Philip Thornton aveva percorso il Paese alla ricerca delle più autentiche tradizioni folcloristiche. Il travel writer Henry Baerlein, in Enchanted Woods (1932), descriveva la selvaggia bellezza dei boschi transilvani; il novelliere George Borrow, affascinato dai Gypsies, ne aveva rappresentato la libera e gioiosa vita itinerante. Lo storico dell’arte e critico musicale Sacheverell Reresby Sitwell, in Roumanian Journey (1938), riportava con maestria le peculiarità artistiche e musicali delle terre romene. Sul piano storico, spiccava la ponderosa e importante History of the Roumanians (1934) di Robert William Seton-Watson, che Paddy leggerà con estrema attenzione e citerà più volte nei suoi libri.

Il giovane Fermor lascia Londra l’otto dicembre 1933, munito di passaporto, uno zaino, un pesante cappotto militare e qualche cambio d’abito, un bastone da passeggio, alcuni blocchi da disegno e bloc-notes, un cilindro in alluminio pieno di matite, e tre libri: un piccolo dizionario inglese-tedesco, l’Oxford Book of English Verse e un volume con le Odi di Orazio. Quanto ai soldi, ogni tanto avrebbe ricevuto qualche sterlina nei fermo posta concordati con la famiglia.

Nei mesi invernali Paddy supererà l’Olanda, la Germania, l’Austria e la Cecoslovacchia. Proseguendo per l’Ungheria e la Transilvania oltrepasserà le Porte di Ferro del Danubio. Dopo aver attraversato una buona parte della Bulgaria, piegherà a nord, entrerà nella Valacchia e soggiornerà a Bucarest. Incamminatosi nuovamente verso sud, costeggerà il Mar Nero, e il mattino del 1° gennaio 1935 farà il suo ingresso in Costantinopoli.

L’impresa del diciannovenne inglese è straordinaria di per sé, e avrebbe reso interessante e avvincente qualsiasi narrazione; ma ciò che rende così affascinanti i libri di Fermor è il fatto che l’autore stese il racconto del viaggio più di quarant’anni dopo averlo effettuato. Nel frattempo, aveva incamerato un enorme bagaglio di esperienze umane, culturali e sociali, partecipato eroicamente alla Seconda Guerra Mondiale, imparato molte lingue, intessuto rapporti di amicizia con intellettuali di mezza Europa. Il risultato è la scrittura potente, elaborata e forbita di Tempo di regali, Fra i boschi e l’acqua e La strada interrotta.

Come già detto, noi ci occuperemo del secondo e del terzo dei libri citati, perché includono il tragitto di Fermor in Transilvania e in Valacchia; non crediamo che sia uno spirito di parte a suggerirci che proprio nella descrizione delle regioni romene la prosa di Fermor si fa più viva e partecipata, e paesaggi idilliaci e incontri emozionanti si susseguono “come in un felice e gradito incantesimo”.

Ci corre l’obbligo di un’ultima, doverosa osservazione. Alcuni degli episodi narrati da Fermor hanno sollevato dei dubbi sulla loro veridicità; per esempio (la seguiremo nei dettagli) la romantica fuga con István e Angéla per le strade e le città storiche della Transilvania. Interrogato sulla questione, l’autore ammise che ogni tanto aveva lavorato di fantasia. E’ Artemis Cooper a fugare ogni inutile polemica sull’argomento: Fermor – osserva la sua biografa – ha riflesso nei libri il romanzo della sua vita, ed è comprensibile che passim abbia aggiunto alla memoria dei fatti un’ulteriore memoria, quella plasmata dall’immaginazione; tutto ciò, naturalmente, al fine di rendere il racconto più ricco e avvincente.

 

Quando abbandona la sconfinata pianura magiara, Paddy sembra presago che stia per iniziare un nuovo capitolo del suo viaggio. Gli dispiace lasciare l’Ungheria, perché ne ha apprezzato la bellezza e l’ospitalità; ma si porta appresso un certo senso di colpa, perché, ripropostosi di dormire nei fossi e nei pagliai, in terra magiara non ha fatto altro che “passare di castello in castello, sorseggiando tokaj da coppe di cristallo e fumando pipe lunghe un metro in compagnia di arciduchi”. Di conseguenza, la possibilità di dormire in un odoroso fienile e la consapevolezza che nessuno può sapere dove si trovi gli procurano un’estatica e beneaugurante euforia.

Ma come fu possibile – viene da chiedersi – che un giovane sconosciuto sia stato accolto tanto favorevolmente da alcune tra le famiglie più nobili d’Europa? I motivi sono diversi: Paddy era suddito di una delle Nazioni più potenti e influenti del mondo; veniva da una famiglia di notevole importanza; non di rado era munito di lettere di presentazione; era dotato di eccellenti qualità: bella presenza, brio, simpatia, curiosità intellettuale. Infine, come il prediletto Proust, come Oscar Wilde e altri letterati di ogni epoca, era affascinato dall’aristocrazia del sangue. Scrive Alice Cooper: “Era sempre felice di parlare con chiunque, ma c’era un qualcosa riguardante gli antichi lignaggi che trovava irresistibile. Mentre non mostrava che un labile interesse per l’albero genealogico della sua famiglia, era entusiasmato dall’idea che c’erano persone che potevano seguire i propri antenati così indietro nel tempo”.

Uno di questi munifici ospiti, il barone austriaco Philipp Schey von Koromla, era stato particolarmente gentile e paterno nei confronti del giovane inglese. Nel constatare che quell’uomo colto e stimato lo trattava alla pari, Paddy ebbe l’impressione di aver ricevuto un grande dono, una sorta di investitura con la toga virile, come ai tempi degli antichi romani.

La “frontiera più ostile d’Europa” viene attraversata su un treno. Sono i primi boschi collinari ad annunciare le marche della Transilvania, e la bandiera blu, gialla e rossa a segnalare il confine romeno; il 27 aprile 1934, a Curtici, Paddy supera la sesta frontiera del suo viaggio. Si ritrova in un villaggio desolato chiamato Decebal, dal nome dell’ultimo re della Dacia; nell’intreccio geometrico di terreni arativi dai colori gialli e cioccolato attraversa altri piccoli borghi, ciascuno con una chiesa per i cattolici e un’altra per gli uniati, e a volte una terza per i calvinisti o i luterani. Ma ecco i primi romeni, una comitiva di contadini armati di falci e roncole. Le donne hanno i lattanti al collo, gli uomini vestono ampie tuniche tessute a mano, rimborsate in vita da larghe cinture; sopra, indossano giacche di vello di pecora, e in testa sfoggiano coni bulbosi di pelo nero o bianco. Nel loro volto Fermor nota una differenza che non sa se riferire alla sua immaginazione: i lineamenti si discostano da quelli dei magiari, perché hanno un aspetto più latino. Ma la grande sorpresa arriva dalla lingua; quei contadini dall’aria ardita e selvaggia parlano latino! Uomo è om, donna femeie; di seguito, Paddy ode pronunciare ochi, nas, mână, câine, bou, vacă, cal!

E’ il momento, per il narratore, di fare un’incursione nella storia dei romeni, che porta con sé il fascino della fusione daco-romana, ma anche le loro successive sofferenze e le controversie che investono quella che nel 1918 è diventata la Grande Romania. Qui l’animo di Fermor si mostra inevitabilmente diviso; infatti, nel recente tragitto ungherese ha preso in simpatia il popolo magiaro, da secoli nemico di quello romeno; ma in Transilvania entra in immediata empatia con i romeni, che proprio per la questione del possesso dell’Ardeal sono da sempre contrapposti agli ungheresi. Fa quasi tenerezza constatare come Fermor cerchi un faticoso equilibrio nelle questioni che dividono le due Nazioni; è una realtà di cui ha già parlato in precedenza, ma che l’attraversamento della Transilvania impone di trattare più profondamente.

La premessa è la definitiva perdita della Transilvania subìta dall’Ungheria a seguito del Trattato di Trianon del luglio 1920. Fermor inizia in modo chiaro: “La decisione su chi avrebbe dovuto subire l’inevitabile ingiustizia (perdita dei fratelli transilvanici da parte dell’Ungheria, perpetuazione dello statu quo da parte della Romania) dipese esclusivamente dall’esito della guerra. (…) Gli ungheresi fondavano la loro rivendicazione della Transilvania sulla priorità storica più che sulla preponderanza etnica; i romeni su entrambe”. Di seguito, espone le opposte versioni: i romeni vantano la loro priorità sulla base della discendenza dalla popolazione latinofona risultante dalla fusione daco-romana e sopravvissuta alle plurime invasioni; gli ungheresi sostengono invece che il ritiro dei coloni insediati da Roma fu totale, e che i daco-romani eventualmente rimasti furono dispersi prima dai Goti e poi dagli Slavi. Dunque, per gli ungheresi, i romeni insediatisi nuovamente nei Carpazi dal XIII secolo non potevano essere i discendenti dell’originaria popolazione daco-romana, ma immigrati di quella popolazione valacca della Macedonia e dei Balcani che parlava ancora una forma di basso latino.

Consapevole che i portavoce di entrambi “sono in grado di controbattere ogni argomentazione contraria con convincente e sperimentata facilità”, Fermor liquida la questione con sottile ironia: bisogna riconoscere – osserva – che nella storia della regione carpatico-danubiana esiste un vuoto di mille anni, dal ritiro dei romani nel 271 ai primi accenni di una popolazione transilvanica di lingua latina, che risalgono alla prima metà del Duecento. Inoltre, i Mongoli, invadendo la Romania, distrussero praticamente ogni cosa; ora, un tale vuoto documentale rappresenta un vantaggio enorme per le contrastanti versioni, perché “nel vuoto si può elaborare qualsiasi teoria…”.

Separàti dalla Storia, i proprietari terrieri magiari e i boiari romeni sono però uniti da sentimenti comuni: in primis la delusione per la perdita delle porzioni di latifondo distribuite ai contadini; e soprattutto il risentimento contro le iniquità dei funzionari del Regat, percepiti da entrambi come degli estranei. Al contrario, nel bene e nel male fra i vecchi possidenti e i contadini era riuscito a sopravvivere un certo sentimento di affetto. Resistevano – aggiunge Fermor – anche le forme: “Ma se pure si era dissolto l’antico legame feudale, i suoi simboli erano più duri a morire e sopravvivevano nelle scappellate, nei baciamani e nelle cerimoniose formule di deferenza, e questo conferiva alla vita in Transilvania una straniante, quasi disincarnata sensazione di lontananza dal mondo”.

È un possidente magiaro, il barone Tibor Solymosy, il primo ospite di Fermor in Transilvania. (Ciò, naturalmente, non deve stupire. Nel 1930, dieci anni dopo la conclusione del Trattato di Trianon, la Romania contava ancora 1.425.507 ungheresi, la maggioranza dei quali nei territori che avevano fatto parte dell’ex Impero Austro-Ungarico).

Tibor è proprietario di una magione con una facciata palladiana ed eleganti mobili Biedermeier; regina della casa è la polacca Ria, governante poliglotta e tuttofare. La biblioteca è ben fornita di opere in ungherese, tedesco e francese, ed è così che Paddy può dilettarsi in una delle sue attività preferite, la ricerca dell’originale di parole passate nel tempo da una lingua a un’altra.

L’aristocrazia transilvana si rivela più che mai composita. Dopo i rilassanti e fecondi giorni trascorsi insieme a Ria e Tibor, quest’ultimo conduce l’ospite nella villa di campagna del polacco Jaŝ, al cui bisnonno fu concessa la testa di turco sullo stemma di famiglia per aver catturato tre vessilli tatari in Ucraina. È un mondo dorato quello di Jaŝ, cacciatore dalla mira infallibile, ospite munifico, studioso la cui testa ribolle di idee di archeologia, storia, religione, fisica, economia, silvicoltura, geologia, e col quale Fermor affronta le discussioni più disparate. Sua moglie Clara, superba cavallerizza, viene da una famiglia di conti degli Alti Tatra che abita uno dei castelli più antichi d’Ungheria, ora però in territorio slovacco.

Fermor dichiara apertamente di aver provato un intimo coinvolgimento nella vita delle casate aristocratiche, e uscirà notevolmente arricchito dalla loro amicizia. Le sue parole non fanno che confermare il lusinghiero giudizio sull’aristocrazia espresso da Marcel Proust nella Parte di Guermantes II della Recherche: “I gran signori sono i soli, o quasi, dai quali si impari quanto dai contadini; la loro conversazione è nutrita di tutto ciò che concerne la terra, le dimore quali erano abitate un tempo, le antiche usanze, tutte cose che il mondo del denaro ignora profondamente”.

Inoltratosi una ventina di miglia a est di Arad, Paddy entra nella rigogliosa valle del Mureş (Maros in ungherese); risalendo il fiume può ammirare l’aerea bellezza delle cupole bronzee dell’abbazia di Maria Radna, complesso monastico che per la sontuosità dello stile barocco nessuno collegherebbe con l’Ordine Francescano. Ma è un francescano, fra’ Pietro, che il giovane viandante trova in cima alla scalinata che conduce all’abbazia. Responsabile della foresteria di Maria Radna, il religioso sta disponendo nel giusto ordine dei grossi birilli, in attesa di trovare un compagno per fare qualche partita. Senza quasi dirsi una parola, i due giocano per tutto il pomeriggio, poi, nel rimettere a posto i birilli, improvvisano un incredibile dialogo:

“Frater Petre, possumusne kugli ludere post Vesperas?”

“Hodie non possumus, fili”, risponde fra’ Pietro, “tarde nimium est. Cras poterimus”.

“Quando? Qua hora?”

“Statim post Missam. Expecte me ad egressum ecclesiae”.

“Bene frater, sed nonne ante Missam fieri potest?”

“Velnon. Est contra regulam nostram.

“Eheu!

A parte il termine kugli (cioè il gioco dei birilli, kegeln in tedesco), è in latino, sebbene maccheronico, che si parlano i due sconosciuti! E al lettore viene da pensare che il frate avrà ringraziato la sua formazione religiosa, e Fermor ciò che aveva assimilato di una cultura scolastica che prevedeva lo studio della grammatica latina; pur breve e semplice, quel dialogo gli comunica l’entusiasmante illusione di essere tornato ai tempi in cui il latino costituiva la lingua universale dell’Europa colta.

Maria Radna è un centro religioso molto importante. Paddy ne fissa la nascita al 1520, sebbene un primo nucleo fosse stato edificato nel 1325 dal re d’Ungheria Roberto d’Angiò. Caduto in declino dopo la conquista ottomana di Timişoara del 1552, il monastero riprese vigore un centinaio di anni dopo, grazie al francescano Andrija Stipančić, che si recò a Costantinopoli e ottenne dal Sultano i fondi necessari per restaurare l’intero complesso. Ma gli eventi che avrebbero trasformato Maria Radna in un prestigioso centro di culto ebbero inizio nel 1668, quando i frati acquistarono un’icona realizzata dallo stampatore padovano Giovanni Antonio Remondini. Trent’anni più tardi, alcuni soldati turchi devastarono e incendiarono la cappella dell’icona, ma questa fu ritrovata miracolosamente intatta. Da allora, Maria Radna divenne un magnete per i pellegrini, tanto che nel Diciottesimo secolo si rese necessario ampliare sia gli edifici monastici sia la chiesa. Se nella Pentecoste del 1767 più di 12.000 fedeli da tutta l’Europa parteciparono alle funzioni religiose, nel 1935, un anno dopo la visita di Fermor, più di 73.000 pellegrini arrivarono a Maria Radna, molti dei quali a piedi.

(continua)

di Armando SANTARELLI 

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