Venezia ti fu data, raccolta poetica – Eugenia Bulat
(Diario di una latitante dell’ Est)
Quando Nicolae Iorga inaugurava, nell’aprile del 1930 a Venezia la Casa Romena (così hanno chiamato i veneziani il Palazzo Correr in Piazza Santa Fosca), il grande storico sperava che quanti avrebbero soggiornato lì portassero con loro al ritorno in patria „un po’ di Venezia”. Molti studenti e professori hanno varcato le soglie dell’Istituto Storico-Artistico che ha riaperto le sue porte nel maggio 1992 con il nome di Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia; dato che, diceva Iorga, „le porte sono aperte, che entri la luce!”. E „qualcosa di Venezia” li accompagnerà sempre quelli che sono passati da quelle parti. Venezia è affascinante, è „la donna più bella” – scriveva anche il poeta Iurie Bojoncă, originario della Bessarabia e stabilitosi da qualche tempo a Mogliano Veneto, anche lui vittima di un doloroso esodo.
Molti scrittori, da Eminescu a Ion Barbu, ci hanno lasciato, naturalmente, delle pagine memorabili sullo spirito veneto. Se per il nostro grande poeta la città era dannata, respirando un’aria funerea, abbracciata da acque che sanno di ruggine, entrata come in una sontuosa agonia, per Eugen Barbu, un impareggiabile pittore del vizio, promotore della festa del linguaggio, la città esalava un fascino crepuscolare, sensuale, inneggiando alla passionalità e alla vita in eccesso.
Arrivata a Venezia, Eugenia Bulat scopre una prospettiva totalmente differente e, inevitabilmente, scopre se stessa. „Venezia ti fu data…” è, in fin dei conti, un dono che il destino, nelle sue leggi paradossali, offre all’autrice. Anche se si è allontanata soltanto fisicamente dalle barricate della romenità della Bessarabia, anche se ha bruciato „senza resto” (come lei stessa confessa), la poetessa tenta di dimenticare, di separarsi da alcune realtà apocalittiche, di ritrovarsi/ ricostruirsi, risorgendo attraverso la poesia. Perché la poesia è respiro e arriva in modo fantasmatico („con mille dita arriva / vibrante su un organo celeste”), invadendoti, facendoti attraversare – sana e salva-, le acque della vecchia Stige. È, perciò, un qualcosa di dato.
Eugenia BULAT
Anima tumultuosa, giustiziaria e febbricitante, estranea alla febbre dell’isolamento, Eugenia Bulat è nata il 19 settembre 1956 a Sadova, Călăraşi e si è laureata lì, nella Valle del Pianto, presso la Facoltà di Filologia (1982). Poi è stata professoressa nel suo villaggio natio e sempre lì, nell’ambiente esplosivo degli anni ’90, è stata il primo sindaco eletto in modo democratico. Giunta a Chişinău, lavora in diverse istituzioni ma, cercando di fissare meglio il volto del futuro, dal 1991 fonda e dirige il cenacolo, poi la rivista „Clipa siderală”/ „L’attimo siderale”– un vivaio di coscienze, di notevoli intelligenze e di giovani speranze letterarie. In poesia Eugenia Bulat è un’arma di giustizia, ricca di tensioni, che accusa con veemenza la realtà „apocalittica”, dividendosi tra sogno e sensibilità ferita, tra Patria ed Est (alias Bessarabia). Un’inarrestabile corsa circolare sotto il peso dei dubbi (sempre più torturanti a misura che ci si avvicinava all’equilibrio e alla lucidità), pensando con passionalità la Riunificazione. Conosce accumulazioni, angosce, sprofondamenti e strazi, sogna „un mare di bianco” come accordo finale, scrive en trance e, confidandoci la sua voce interiore, si libera in attesa di „un treno” (la luce in capo al tunnel, quindi) in una „stazione malata”, su un „binario di transito”, realtà che, sfortunatamente, si è fossilizzata nella Bessarabia di oggi.
Una combattente, quindi, visitata da esaltazioni e pesanti tristezze, animata da grandi progetti, vegliando „il sogno del bimbo”, proteggendo al livello della scrittura una causa sacra (‘il testo è la Patria’, dice la poetessa), Eugenia Bulat dà ora alla stampa una plaquette memorabile: „Venezia ti fu data … ovvero diario di una latitante dell’Est ” volume che, indiscutibilmente, le conferirà uno statuto di scrittrice e una visibilità letteraria ancora più grandi.
Si tratta sostanzialmente di un libro-viaggio, da Est verso se stessa (finalmente). „Ricca di parti”, „plasmata con il desiderio del volo dentro”, diventa, migrando fuori da se stessa, „triste viandante”, soldato e donna profuga. Eugenia Bulat custodisce nella sua poesia un dolore vivo, ci rende partecipi di una reincarnazione, ma anche testimoni di un viaggio a ritroso. Sedotta da questa città irreale, la sua creazione respira „uno stato d’incantesimo”. La placenta veneziana nutre la sua rêverie, la sua solitudine, le sue insonnie, la febbre dello scrivere, l’introspezione.
„Generosa di parti”, l’autrice conosce la gioia del nuovo frutto. Al di la della leggera contaminazione di Cezar Ivănescu, grondante di logos, sentendo bollire in sé il seme del parto quando, „con unghie che straziano la carne”, si affida alla pagina bianca. „Presa in adozione” dai canali veneziani, la poetessa assapora la fioritura, diventa consapevole e supera l’incubo della sterilità. Il vivere sul limite, l’esperienza di vita, dura, accumulata nello spazio di interminabili confronti permette all’autrice di sentirsi „un vaso pieno, straripante” portando, d’ora in poi, il mondo con sé e in sé, sforzandosi a resistere a tutte le prove della vita.
L’esperienza veneziana mette in luce questa novità. Un’”altra” poetessa sembra che sia nata. Sospesa tra Est e Ovest („con occhi bifocali, che vedono simultaneamente due mondi”), Eugenia Bulat ci affida questo libro come salto qualitativo, come rottura. Si è liberata, è redenta („quanto chiuso è fuori / aperto è proprio in te/ !tu lo sai”). La solitudine, l’isolamento hanno rivelato la loro fertilità: una serie di nascite/ rinascite le hanno sconvolto le viscere/le sue energie latenti, quel „seme del parto”, ma anche la continua veglia del sé in sé. („in te sei sempre stata/ e mai sei mancata”), svegliando quelle potenzialità. Il frutto promesso è preannunciato, su toni quasi di giubilo, da acque verdi e gonfie, dall’odore putrido, dal fascino tenebroso che porta dentro una strana sensazione di inizio di mondo, l’autrice scendendo ugualmente in se stessa e nelle viscere di Venezia come in un grembo eterno.
Togliendo le illusioni, distanziandosi in qualche modo dalle sue opere precedenti (eppure la loro essenza ci arriva, ri-fusa, valorizzata di nuovo, in alcuni poemi) la poetessa bessaraba che vive in Italia vuole „fare da sola una verifica” della propria vita, filtrare attraverso l’intelletto la combustione dell’essere. Lei esiste, intera, in questi splendidi poemi. E „Venezia ti fu data…” rappresenta, senz’altro, un altro inizio.
ADRIAN DINU RACHIERU
… Dagli occhi bifocali che vedono due mondi simultaneamente…
Questa città è solo un décor un po’ più speciale, con acque silenziose e verdi che ti fanno volgere lo sguardo all’indietro…
proprio il paesaggio che fa diventare la donna
tutta sguardo, tutta udito
intenta al suo feto…
…!Silenzio. Scalpello.
… Scritto quasi esclusivamente a Venezia, nel pieno di una drammatica situazione esistenziale, questo volume non è una musica facile… È, forse, una sinfonia in chiave minore, con montagne alte ed acque profondi, con illusioni che partoriscono pienezza ma anche con tristezze urlanti nel troppo nulla, con pericolosi scivolamenti nel vuoto. È, forse, una musica sorgiva: la voce dell’eterna rotazione interiore che, grazie all’immensa capacità di concentrazione e di sintesi della poesia, rivela in nuce la propria esistenza contorta, violentemente catapultata fuori dal suo habitat naturale, ritrovandosi/ rigenerandosi nell’utero materno e protettivo dell’eterna Venezia. Quello che so, però, con certezza, è che questo tuffo nei cerchi concentrici del proprio rifugio (in sé oppure su alcune coordinate geografiche, da un certo punto in poi non ha più importanza…) è un’insperata liberazione/ redenzione attraverso la parola. I suoi orizzonti infiniti portano, senz’altro, verso la tanto cercata culla dell’armonia, dell’equilibrio e della serenità, – spazio in cui nel nostro viaggio verso l’Assoluto non ci spaventassero più le manifestazioni dolorose e paradossali della vita. E neanche il nostro continuo scivolare verso il Grande Tutto.
Eugenia BULAT
Venezia ti fu data….
Venezia ti fu data:
in acqua,
sull’acqua,
sott’acqua…
e piogge a coprirla
infinite
e folli.
Cielo ermetico, grigio,
mugghiante lontano,
triste leone
sanguinante
nella savana.
Acque verdi,
violente e bollenti
su soglie,
ponti alti,
biancheggianti,
fantasmi dissolti lontano…
… Gabbiani spaventati,
piccioni stretti su tetti…
e figure statuarie:
barbe bianche,
barbe bagnate,
romane…
morbidi fianchi di donne,
grondanti dall’alto
su chiese…
Sirena che stride,
putredine pregna d’ozono,
bagliori…
!Bagliori dal nulla.
Venezia, 26 settembre 2007
* * *
Venezia di mattina…
con occhi di nebbia,
opachi…
Scuri verdi, di caserma,
in fila, piccioni ad asciugarsi, ingobbiti,
spulciandosi le piume…
Acque verdi e quiete
baciano scale di legn in sonnolenti carezze.
Muschio verde, lucente, completamente sazio
di profondità…
Alcioni saette, arlecchini annoiati sulle bancarelle…
Casanova alle porte,
file nere, dondolanti, di gondole…
Putti si baciano, maschere fiorite sognano carnevali…
Fiori sulle muraglie, ferro battuto, bandiere…
Il cagnolino-pelouche
l’altra sera dimenticato in barca…
carrucole vecchie, spaventate,
! cigolanti
come le fontane di casa…
Venezia, 6 ottobre 2007
* * *
I piccioni di Venezia
L’anima mia
più piccola è
e più timida
della loro.
Camminano silenziosi
in Calle dei Boteri,
in Strada Nova,
tra armoniche
e turisti storditi,
tra i miei passi,
esitanti, incerti,
passi da straniera …
Sono più degni,
e più nobili
dei lord inglesi.
Nulla li preoccupa,
nulla li stupisce,
e solo
per piccionesco rispetto,
affrettano il passo
se ti avvicini.
Irreale il passo
e ti dilata lo sguardo,
la retina dentro
è tutta udito…
… Li segui a lungo
portarsi in giro
il frac lucidato e grigio,
la sciarpa perfetta,
madreperlacea…
Da sempre qui,
da sempre
terrestri…
… ! Come se dimenticassero
di avere ali,
il volo nascosto dentro
come … noi…
Venezia, 15 settembre 2007
* * *