Lo scrittore Armando Santarelli, membro dell’Associazione “Insieme per l’Athos” e da anni assiduo frequentatore del Monte Athos, ci parla di un antesignano della preghiera del cuore, il gioiello spirituale che consente al monaco di attingere l’esichia, lo stato privilegiato di quiete interiore e di perenne unione col Signore
Fra le tante questioni dibattute nel campo filosofico, una ha trovato da tempo immemore una risoluzione indiscutibile. La questione riguarda i rapporti tra la filosofia e la religione cristiana; la sua definizione è avvenuta col riconoscimento di quanto la teologia cristiana degli inizi debba alla filosofia degli antichi greci.
I primi tentativi di costruire l’identità del Cristianesimo furono compiuti da studiosi provenienti dall’area mediorientale, in particolare l’Egitto, la Palestina e l’attuale Turchia. E’ in queste regioni che nasce l’interpretazione allegorica del Vecchio Testamento e la prima elaborazione del messaggio evangelico. Il complesso lavoro è iniziato nel I secolo dai Padri Apostolici (così chiamati perché legati agli apostoli e al loro spirito), autori di Lettere che illustrano soprattutto singoli punti della dottrina cristiana e tematiche morali e ascetiche; in effetti, Clemente Romano (Papa Clemente I), Ignazio di Antiochia, Policarpo di Smirne, Erma, e l’autore della cosiddetta Lettera di Barnaba non affrontano ancora vere problematiche filosofiche.
Il compito prosegue con i Padri Apologisti, che nel II secolo iniziano a usare i concetti della filosofia per costruire l’identità del cristianesimo, difendendolo dalle persecuzioni e dagli attacchi che gli vengono mossi soprattutto da autori ebrei e pagani, come Luciano e Celso.
La terza fase è quella della Patristica vera e propria, che va dal III secolo agli inizi del Medioevo, e che vede la filosofia, specie quella platonica, giocare un ruolo considerevole, rimanendo sempre, però, parte integrante della fede. La Patristica ha inizio ad Alessandria d’Egitto verso la fine III secolo, con la Scuola Catechetica fondata da Panteno. Ma la sua età aurea si colloca nel IV e nella prima metà del V secolo, con teologi del calibro di Eusebio di Cesarea, Ario, Atanasio, Gregorio di Nissa, Basilio, Gregorio di Nazianzo, e successivamente Dionigi Areopagita, Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno. La Patristica latina raggiunge invece il suo apogeo con Sant’Agostino.
I testi fondamentali per la grandiosa opera di mediazione tra filosofia e pensiero cristiano sono le Lettere di Paolo e soprattutto il Prologo del Vangelo di Giovanni, dove si parla del Verbo o Logos divino; Logos che – è questo il punto nodale della sistemazione della filosofia cristiana – diventa persona e viene identificato in Cristo.
Molto diverso era il concetto di Logos nella filosofia greca. Il pensiero ellenico era culminato, soprattutto grazie allo stoicismo, nel concetto di Logos inteso come immanente principio divino del cosmos. Per lo stoico, il vero bene è la virtù, vivere “secondo natura”, ossia conciliarsi e attuare pienamente il proprio essere razionale. Essendo l’uomo un frammento del cosmos divino, la morte è l’inevitabile fusione con questo cosmos, ritorno ad esso, e dunque non immortalità, ma eternità in seno all’armonia cosmica.
Si delinea così il diverso atteggiamento della filosofia e della religione di fronte alla morte. Infatti, la religione è una dottrina della salvezza eterna, dell’immortalità, un traguardo che è possibile raggiungere soltanto attraverso la fede in Cristo, il Figlio di Dio, nel quale il Logos, il divino, si è incarnato. Qualcosa di inaudito per il pensiero greco; la fede prende il posto della ragione, annulla il vago concetto di eternità cosmica e promette l’immortalità individuale a chi agisce secondo la verità proclamata dal Verbo incarnato. La soteriologia cristiana permette di superare non solo la paura della morte, ma la morte stessa. E’ una delle straordinarie novità introdotte dal Cristianesimo, che vale da sola a spiegarne l’enorme potere di seduzione, il motivo per cui la religione cristiana riuscirà, per secoli, a soppiantare la filosofia, riducendola a sua ancella.
La più antica Apologia del Cristianesimo a noi pervenuta (scoperta solo nell’Ottocento) è di Marciano Aristide, e risale all’epoca dell’imperatore Antonino Pio (metà del II secolo). Marciano sostiene che solo i Cristiani hanno trovato il vero Dio, e con la loro purezza di vita e l’amore per il prossimo danno testimonianza della verità che professano. Gli Apologisti greci più importanti sono però Giustino martire, Taziano l’Assiro, Atenagora di Atene e l’anonimo autore della Lettera a Diogneto. Quest’ultima è un documento straordinario, in cui l’identità dei cristiani è determinata con parole chiare e vigorose: “Abitano nella propria patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini, e tutto sopportano come forestieri; ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è per loro terra straniera… Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo”.
La figura più rilevante fra gli Apologisti greci è quella di Giustino martire, nato a Flavia Neapolis (ora Nablus) nella Samaria, nel 100 d.C. e morto nel 165 a Roma. La ricerca della verità lo porta da Platone a Cristo; nella Seconda Apologia, Giustino scrive che “la dottrina di Platone non è incompatibile con quella del Cristo, ma non rinverga perfettamente con essa”. Ma nella sua conversione risulta decisiva la testimonianza dei martiri cristiani. “Io”, scrive Giustino, “quando ancora ero discepolo di Platone, ascoltavo le accuse dirette contro i Cristiani; ma vedendoli intrepidi di fronte alla morte e a ciò che gli uomini maggiormente temono, capii che era impossibile che essi vivessero nel male”.
Giustino è il primo a identificare il Logos con il Verbo incarnato. E poiché siamo figli del Verbo incarnato, che è ragione, che è Logos, tutti noi uomini, in quanto creature razionali, partecipiamo del Logos. Dunque, coloro che vissero secondo ragione sono cristiani anche se non conobbero Cristo: Socrate ed Eraclito fra i greci, Abramo, Anania ed Elia fra i barbari. Grazie al seme del Logos deposto in loro, questi cristiani ante litteram hanno visto la verità, ma in modo parziale. Solo il Verbo incarnato, coronamento dell’antica sapienza giudaica e di quella greca, offre il possesso completo della verità: “Tutto ciò che è stato detto di vero”, scrive Giustino, “appartiene a noi cristiani”.
Tralasciando Taziano l’Assiro. Atenagora di Atene e Teofilo di Antiochia, arriviamo ad Alessandria d’Egitto, dove, verso il 180, lo stoico Panteno, convertitosi al Cristianesimo, fonda una Scuola catechetica che avrà in Clemente Alessandrino e in Origene i suoi massimi esponenti.
Clemente Alessandrino, nato ad Alessandria d’Egitto intorno al 150 d.C., vuole dimostrare la possibilità di accordo tra la fede (pistis) e la conoscenza (gnosis). La fede, per Clemente, è il principio e il fondamento della filosofia; questa, congiunta alla fede, ha il solo compito di rendere impotenti gli attacchi dei nemici della verità.
Il primo, grandioso tentativo di sintesi tra filosofia greca e fede cristiana è svolto da Origene, nato verso il 185 d.C. ad Alessandria d’Egitto. Il padre, Leonide, morì martire, e Origene si guadagnò da vivere insegnando nella Scuola catechetica. Costretto ad abbandonare Alessandria per l’avversione del vescovo Demetrio, si trasferì a Cesarea di Palestina, dove fu raggiunto dalla persecuzione di Decio; incarcerato, morì in conseguenza delle torture nel 253 d.C.
A differenza di altri apologisti, Origene pone al centro del suo pensiero non il Logos, ma Dio e la Trinità. Solo il Padre è Dio in senso stretto, in quanto è l’unico ingenerato; è il Padre ad aver creato dal nulla tutte le cose, e la sua azione si estende a tutta la realtà. Egli deve essere pensato come incorporeità; infatti, essendo un’Entità trascendentale, non può essere conosciuto nella sua natura. Il Figlio è generato dal Padre e funge da intermediario fra Dio e la molteplicità degli esseri creati. Lo Spirito Santo, che deriva dal Figlio i suoi attributi, estende la sua azione solo ai Santi. Come è noto, il pensiero di Origene si compendia nella dottrina dell’apocatastasi, la redenzione universale. Se il male non fosse sempre riscattabile, l’efficacia della redenzione non sarebbe completa. Perciò, alla fine dei tempi, ogni spirito sarà purificato, e tornerà nella sua condizione originaria di vicinanza con Dio.
Mentre gli apologisti orientali, cercando una fusione tra filosofia greca e dottrina cristiana, giungono alla conclusione che Cristo ha condotto la filosofia al suo ultimo compimento, gli Apologisti occidentali (cui qui accenniamo appena) tendono a rivendicare l’originalità della rivelazione cristiana nei confronti della sapienza pagana, e a fondarla non sulla speculazione, ma sulla forza della fede.
Il massimo esponente dell’apologetica latina è certamente Tertulliano. Tertulliano, nato a Cartagine verso il 160, rigetta la dialettica, principale strumento dei filosofi greci, e le contrappone l’immediatezza dei sentimenti. Per convincersi della verità della rivelazione è sufficiente appellarsi alla testimonianza dell’anima, che è naturaliter cristiana. La ragione non può penetrare i misteri della realtà; la salvezza sta nella fede, che si basa sul sentimento e rende inutile ogni dottrina: “Dopo Gesù Cristo, noi non abbiamo più curiosità; dopo il Vangelo, non abbiamo più bisogno di cercare” (De praescriptione haereticorum).
Ho volutamente lasciato per ultimo il precursore di tutti gli apologisti e Padri della Chiesa, Filone Alessandrino. Ebreo nato ad Alessandria fra il 15 e il 10 a.C., è autore di numerose opere, fra le quali spicca un Commentario allegorico del Pentateuco. La figura di questo filosofo è di straordinaria importanza per il Monte Athos; infatti, una parte rilevante del suo pensiero è molto vicina alla concezione della vita cristiana che alcuni secoli dopo di lui si radicherà al Monte Athos, rimanendo sostanzialmente inalterata sino ai nostri giorni. Un’immagine del filosofo che compare negli affreschi del refettorio della Grande Lavra confermerà la contiguità spirituale cui ho appena accennato.
L’importanza di Filone risiede nell’aver tentato per la prima volta nella storia una fusione tra filosofia greca e teologia mosaica; il metodo con cui cercò questa mediazione è l’allegoresi. Filone sostiene che la Bibbia ha un significato letterale e un significato allegorico; gli eventi e i personaggi biblici sono simboli di concetti e verità spirituali e morali.
Naturalmente, Filone si rifà al pensiero della Grecia antica (soprattutto Platone), ma utilizza anche concetti nuovi. I cardini della sua filosofia sono tre: 1) la trasformazione del Dio personale della Bibbia in una realtà assoluta e trascendente; 2) il concetto di Logos come intermediario fra Dio e l’uomo; 3) il ritorno dell’uomo a Dio, sino all’unione con Lui nell’estasi.
E’ quest’ultimo punto a occupare una posizione importante nel suo pensiero. L’uomo, afferma Filone, ha una vita che si svolge secondo tre dimensioni: 1) quella del corpo, meramente fisica; 2) quella razionale, connessa all’anima-intelletto; 3) e quella superiore, trascendente, dello Spirito.
Ora, l’anima sarebbe cosa misera se Dio non vi soffiasse il suo Spirito (pneuma); è questo l’elemento che consente di realizzare l’unione dell’uomo col divino. Infatti, l’anima-intelletto non è di per sé immortale, come sosteneva Platone, ma può diventarlo se vive secondo lo Spirito che Dio le ha donato.
E qui, Filone chiama in causa il nostro comportamento morale; l’etica è inseparabile dalla fede e si identifica nella comunione col Signore. La vita piena e felice consiste nel vivere per Dio con tutto se stesso, nel trascendimento dell’umano nel divino, realizzato in uno stato eccezionale di grazia che è l’estasi, dono per mezzo del quale si raggiunge l’unione mistica con Dio.
Nessuno studioso dell’Athos può negare quanto la conclusione di Filone coincida con quella che rimane la più alta espressione di spiritualità del monachesimo athonita, ovvero la contemplazione, lo stato di quiete dell’anima (esichia) che conduce all’unione perenne col Signore.
Al Monte Athos c’è una famosa raffigurazione dell’albero di Jesse, dove, insieme ai santi e profeti cristiani, sono rappresentati alcuni fra i maggiori saggi e filosofi dell’antichità. Sto parlando del refettorio (la tràpeza) della Grande Lavra, che presenta degli affreschi straordinari, attribuiti dalla critica moderna a Teofane il Cretese. Questo grande pittore bizantino, nato a Creta intorno al 1500 e morto nel 1559, ha lì rappresentato il Giudizio Universale, le scene della vita della Vergine, le teorie di alcuni Santi asceti e una magnifica rappresentazione della scala spirituale (che si rifà alla Scala del Paradiso di Giovanni Climaco).
Il tema che più incuriosisce è però proprio quello dell’albero di Jesse (presente nella parete sud del refettorio) in un ramo del quale, accanto ai santi della Cristianità, sono raffigurati alcuni fra i filosofi e i sapienti dell’antica Grecia. Teofane li ha dipinti in vesti curiali e cinti da corone. Ognuno di essi reca in mano una pergamena con un frammento della propria opera che profetizza la nascita di Cristo.
Perché Teofane e i monaci athoniti che commissionarono gli affreschi operarono questa scelta? E’ evidente che essa sta a testimoniare la consapevolezza della continuità fra il pensiero greco e il messaggio evangelico; anche il Monte Athos, dove la rappresentazione degli antichi saggi ricorre altre due volte, mostra di conoscere quanto la teologia cristiana debba alle conquiste della filosofia pagana. Ciò che è straordinario, però, è che il primo dei sapienti ad essere raffigurato è proprio Filone di Alessandria, che precede Cleante, Solone, Dialed (figura di cui non si è riusciti ad appurare l’identità) Pitagora e Socrate; dopo Jesse, che sta in mezzo, nel gruppo di destra troviamo Omero, Aristotele, Galeno, la Sibilla, Platone e Plutarco.
Perché Filone li precede tutti? Non certo per grandezza, né per un fatto cronologico (solo Plutarco e Galeno sono vissuti dopo Filone, tutti gli altri sono nati secoli prima!) La spiegazione più verosimile è che Filone, a differenza degli altri sapienti, è stato un filosofo cristiano. Ma allora, perché non raffigurare un Clemente Alessandrino, oppure Giustino Martire, o ancora Origene, teologi più noti e importanti di Filone? Io credo sia plausibile ipotizzare che la scelta di Teofane e dei monaci athoniti sia stata dettata dalla consapevolezza della vicinanza del pensiero di Filone a quella concezione della vita religiosa – e cioè la contemplazione, l’unione mistica col Signore – che ha sempre costituito il carattere dominante del monachesimo athonita.
E’ così ancor oggi: intatta rimane la vocazione del Monte Athos alla perenne ricerca dell’unione con Dio. Strumento privilegiato di questo cammino interiore, e gioiello spirituale del Monte Athos, è la preghiera di Gesù, o preghiera del cuore. E’ una preghiera semplice, di poche parole, che riassumono, però, un’intera teologia: “Kyrie Iesou Christé, Yié tou Theoù, eleison me tòn amartolòn” (“Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”).
La breve frase che compone la preghiera di Gesù viene ripetuta dal monaco esicasta incessantemente, sincronizzando le parole con la respirazione e con il battito cardiaco. In questo modo, il monaco dell’Athos raggiunge uno stato spirituale privilegiato, l’esichia, la perfetta quiete interiore, la comunione con Dio.
Su questo punto cruciale, la teologia ortodossa ha fissato definitivamente il proprio pensiero nella dottrina esicastica, il cui massimo teorico è Gregorio Palamas (1296-1359).
Alla vecchia concezione platonica secondo la quale il corpo è la prigione dell’anima, Palamas oppone la tradizione biblica secondo cui anche il corpo riceve la grazia dei sacramenti e la promessa della resurrezione finale; dunque, perché il corpo non può partecipare alla “preghiera pura” e diventare un ricettacolo della grazia? Lo stesso Figlio di Dio si è incarnato, e ha edificato sulla terra una Chiesa visibile; dopo l’Incarnazione, i nostri corpi sono diventati “templi dello Spirito Santo che è in noi” (1 Cor. 6,19); ed è nei nostri corpi santificati dai sacramenti e innestati in Cristo che dobbiamo ricercare lo Spirito divino.
In virtù della nota distinzione fra l’essenza divina, che è inconoscibile, e le sue energie, che invece l’uomo può contemplare, è possibile per il monaco attingere la luce che apparve ai discepoli nella Trasfigurazione del Tabor. L’unica differenza è che gli apostoli videro la luce esteriormente, mentre i monaci contemplano la luce divina all’interno di se stessi.
Ecco la filosofia ultima, l’ethos teantropocentrico del Monte Athos: offrirsi interamente a Dio, al fine di entrare in comunione con Lui. La contemplazione e le lunghe ore di liturgia e di preghiera costituiscono il senso della scelta esistenziale degli atleti di Cristo del Monte Athos. Nonostante le rinunce, nonostante le sofferenze, la vita di questi monaci, che come artisti lavorano se stessi giorno dopo giorno, è una vita di philokalia, di amore della bellezza, perché coronata dall’intima gioia dell’unione col Signore.