SINDROME ITALIANA. CHI BADA ALLE BADANTI?
di Armando SANTARELLI
Le chiamiamo “badanti”, un termine che non ha un corrispondente nella loro lingua. Vengono dall’Ucraina, dalla Russia, dalla Polonia, dalla Repubblica di Moldavia, ma soprattutto dalla Romania. Arrivano in Italia per sobbarcarsi un compito mai facile: prendersi cura dei nostri congiunti anziani e malati che non possiamo o non vogliamo più assistere.
Per millenni di storia umana le persone anziane sono state accudite dai membri della famiglia. Ma l’invecchiamento, e la considerazione che ne ha la società, non è legato soltanto alla fisiologia, è anche il risultato di un processo culturale e perciò sottoposto a inevitabili mutamenti nelle epoche storiche. Il progresso della scienza medica e la svolta demografica dei Paesi Occidentali ha portato ad un quota altissima di anziani ultrasettantenni. Contemporaneamente, la valutazione della vecchiaia ha subito un cambiamento quasi radicale: da bene prezioso a peso per la società. Il sapere è troppo vasto, le conoscenze evolvono troppo velocemente per diventare un patrimonio interiore da trasmettere ad altri; vecchiaia e saggezza non vengono quasi più associate. Inoltre, a sfavore della vecchiaia gioca la convinzione, peraltro non dimostrata, che una società invecchiata diventi meno efficiente e competitiva.
Così, dove una volta agiva la tribù, il clan, la famiglia contadina, la famiglia borghese, adesso agiscono le badanti. Assistere anziani e malati per intere giornate: sarebbe un lavoro durissimo di per sé. Ma se viene svolto lasciando il proprio Paese e i propri cari, allora comporta inevitabili problemi, sensi di colpa, rimorsi, e spesso gravi patologie di natura psichica e nervosa.
E’ una situazione sociale e umana che in Italia conosciamo, e che tuttavia ci lascia quasi indifferenti, perché non la sperimentiamo da attori, ma da spettatori; del resto, se non ci occupiamo dei nostri cari, perché preoccuparsi delle badanti?
Eppure siamo davanti a un fenomeno che interessa attualmente più di un milione di donne dell’Est Europa, un esodo davvero colossale. Eppure, sappiamo o dovremmo sapere che cosa può significare separarsi dai propri cari, spesso dai propri bambini: un sacrificio che non ha prezzo, uno strappo lacerante che ingenera sensi di colpa che nessuna remunerazione, nessuna gratificazione potrà mai lenire.
Sole, ad assistere persone di cui non sanno nulla. Lontane dalle creature che sono uscite dal loro grembo e che a loro volta pagano in modo pesante il vuoto affettivo lasciato dal genitore. Soggette per anni, giorno e notte, ad un lavoro ripetitivo e sfibrante. Rassegnate a una sorte innaturale, che la civiltà umana non ha mai conosciuto prima: questa è la condizione degli esseri umani che chiamiamo “badanti”.
Quasi inutile precisare che parliamo di persone che arrivano in Italia per bisogno. Il bisogno primario è ovviamente quello economico: vengono a lavorare per salvare la casa dai creditori, per consentire ai propri figli di studiare, per evadere da una realtà economico-sociale senza sbocchi, per fuggire da un marito ubriacone e nullafacente, o semplicemente per permettersi una vita migliore.
Dei vari aspetti del fenomeno della migrazione di badanti dall’Est Europa, quello che qui interessa è il lato più umano, ovvero come queste donne vivono la propria condizione durante e soprattutto dopo aver terminato la loro esperienza lavorativa. Per fare ciò, ho avuto colloqui serrati con molte badanti (soprattutto romene). Ho ascoltato le testimonianze di quelle che operano in piccoli paesi e di altre che lavorano in grandi città, di chi ha assistito malati lievi o all’opposto malati gravissimi, di badanti rimaste accanto a chi a malapena poteva pagarle e di quelle che si sono curate di persone benestanti e persino aristocratiche.
Come ci si poteva aspettare, sono emerse le realtà più disparate. E’ stato confortante sapere di relazioni fra badanti e loro assistiti sviluppatesi in modo molto positivo; ed è chiaro che ciò non può che dipendere dalla buona indole e dal corretto comportamento reciproco. Altre volte, il rapporto si è rivelato difficile ma sopportabile per i soggetti di cui parliamo. Ma se una badante, per assistere un malato, si ammala a sua volta, le cose cambiano drammaticamente.
I primi dati relativi alle patologie contratte da badanti nello svolgimento del loro lavoro sono emersi dalle ricerche di due psichiatri ucraini, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych. La ripetizione di problemi di depressione in badanti che tornavano a casa dopo aver lavorato in Italia li ha convinti a studiare clinicamente il fenomeno, denominandolo “sindrome italiana”.
Come riportato dal giornalista Alessandro Leogrande in un articolo del dicembre 2011, già nel 2005 i due psichiatri ucraini scoprono che alcune donne reduci dall’Italia, dove hanno svolto pesanti lavori di assistenza a persone anziane e malate, mostrano un quadro clinico molto particolare. Gli stati ansiogeni e depressivi presentati da queste donne appaiono legati a una profonda frattura dell’identità, accompagnata da un affievolimento del senso della maternità percepito in modo colpevole e vergognoso. “Queste madri”, scriveva Leogrande, “non sanno più a quale famiglia, a quale parte dell’Europa appartengano, come se un’antica armonia si fosse all’improvviso spezzata”.
Successivamente, altri psichiatri iniziano ad occuparsi di casi analoghi, verificatisi nella Repubblica di Moldavia e in Romania.
Questo era ciò che sapevo prima che la questione della “Sindrome italiana” catturasse definitivamente il mio interesse, convincendomi ad occuparmene in modo più profondo e dettagliato. Dunque, ho deciso di recarmi a Iaşi, nell’Ospedale Psichiatrico Socola, uno dei più antichi nosocomi della Romania, specializzato nella cura delle malattie nervose di cui rimangono vittime molte badanti.
Grazie all’aiuto di Liviu Popa, libero professionista di Costanza e romeno DOC, e ai buoni uffici dell’avvocato Geta Lupu, Presidente Onorario del Partito dei Romeni in Italia, ho avuto accesso sia alle strutture amministrative sia a quelle sanitarie dell’Ospedale Socola. Molto utile è stata la collaborazione del personale amministrativo, in particolare del gentile, affabile sig. Robert Ferenţ; prezioso è risultato il contributo di due delle psichiatre che operano nell’Ospedale, le dottoresse Andreea Nester e Raluca Ioana Prepeliţă, disponibili ad illustrare le patologie (ma anche le vicende umane) delle pazienti soggette alla “Sindrome italiana”.
I dati emersi non sono incoraggianti. Negli ultimi dieci anni, sono più di tremila i casi di donne romene arrivate in Italia per fare le badanti o le colf e colpite dalla “Sindrome Italia”. Nell’anno 2017, circa 170 donne reduci dall’Italia, dalla Spagna e dalla Germania si sono rivolte agli psichiatri del Socola perché sofferenti di patologie legate al lavoro svolto; il numero è in aumento, come mostrano i dati riferiti ai primi mesi del 2018 e il raffronto con gli anni precedenti. E’ opportuno precisare che nell’Ospedale Psichiatrico Socola sono ricoverate (o assistite) badanti provenienti principalmente dalle Regioni del nord-est della Romania; dunque, considerando l’intera Nazione, dove sorgono altri centri di cura per la “sindrome italiana”, i casi sono molto maggiori, ed è assolutamente giustificato parlare di un fenomeno sociale grave e preoccupante.
Il quadro clinico delineato dagli psichiatri del Socola è quanto mai vario e complesso, comprendendo molteplici patologie. Nei casi più lievi si sono registrati stati ansiogeni, disturbi dell’identità, disturbi alimentari e del sonno, disturbi somatoformi e dissociativi. Nei casi più seri, le pazienti presentano comportamenti psicotici, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi paranoidi e schizoidi e depressioni; queste, nelle forme più gravi, possono sfociare nel suicidio.
Le pazienti del Socola vengono curate da un’equipe medica specializzata, seguendo dei protocolli che variano in base al disturbo e al suo grado. Il trattamento terapeutico prevede, sostanzialmente, cure farmacologiche abbinate a un’adeguata psicoterapia. Le dottoresse hanno teso a sottolineare che il sostegno della famiglia è importantissimo in ogni fase della cura. Il reinserimento nel mondo del lavoro è possibile, e riguarda la metà circa delle pazienti; tuttavia, nonostante i miglioramenti e in alcuni casi una piena guarigione, la maggior parte di esse non vuole tornare in Italia.
In relazione alla dimensione e alla gravità del problema, stupisce che nei media italiani non se ne sia avuta un’eco adeguata; con alcune eccezioni però, apparse sul Servizio Informazione Religiosa e su Avvenire. Importante il contributo televisivo trasmesso nell’ottobre 2011 su RAI 3, dove la “Sindrome italiana” veniva estesa all’anello più debole dell’intera catena, ovvero i figli di padri e madri trasferitisi all’estero per lavoro. E’ ormai assodato che i bambini rimasti privi della figura genitoriale e affidati a nonni, parenti e persino vicini di casa, possono ammalarsi di patologie gravissime, che forse avremmo creduto di poter riscontrare solo in persone adulte. Invece, una statistica non ufficiale riferita agli ultimi anni, ed estesa a tutti i Paesi dell’est Europa, parla di 40 casi di suicidi da parte di quelli che sono stati denominati “orfani bianchi”.
A fatica, usando molta discrezione, ho chiesto alle badanti che hanno lasciato a casa dei bambini se volessero parlarne. La cornice era sempre uguale: il pianto iniziale. E anche i quadri assomigliavano tutti: una parola, poi un silenzio angoscioso che diceva più di qualsiasi discorso, poi un’altra parola, sempre la stessa: “Lui aspetta. Aspetta”.
“Ma stai qui anche per lui, per il suo bene. E poi vi sentite, no?”
Una smorfia amarissima: “Certo, c’è il cellulare, c’è skype. Ma certe volte è pure peggio”.
“Perché?”
“Perché vedi i suoi occhi”.
“E’ normale che siano tristi, ma…”
“Non è solo questo. A volte vedi che… che ti giudicano, che ti condannano”.
Inutile precisare che questi bambini hanno assoluto bisogno di tutela, di assistenza, di essere messi nelle migliori condizioni per sopportare una privazione che non può non avere conseguenze devastanti nella loro psiche. E’ un compito che le Autorità romene hanno preso in seria considerazione e che sta trovando le sedi opportune per essere affrontato e risolto, alla pari di ciò che è successo dopo la scoperta della “Sindrome italiana”. Un ulteriore aiuto potrebbe arrivare dall’Italia; così come per gli emigranti si trovano soluzioni di vitto e alloggio, per gli “orfani bianchi” si potrebbero creare strutture, case di accoglienza, modalità di inserimento nelle scuole, in modo da tenerli accanto ai loro genitori.
Se le sofferenze e le tragedie dei bambini destano in ognuno la più grande commozione, non mancano, nelle vicende delle badanti, casi talmente drammatici da sembrare inverosimili. Nello svolgimento della loro professione, gli specialisti dell’Ospedale Socola ascoltano e diventano depositari di innumerevoli storie personali. Per alcuni tratti esse si assomigliano tutte; ma in ognuna c’è l’elemento soggettivo, il tratto umano che la rende dolorosamente unica. Ne ho udite diverse dalle dottoresse Nester e Prepeliţă; due mi hanno colpito in modo particolare, per l’incredibile concatenarsi di sofferenze di cui sono rimaste vittime le protagoniste.
La prima è la storia di una badante, che chiameremo Anica, arrivata in Italia all’età di 45 anni. Sette figli, di cui alcuni senza lavoro, marito ubriacone, era decisa a dare alla propria famiglia una casa degna di questo nome. Un’agenzia di collocamento le trova lavoro presso un anziano residente in un paesino del sud Italia. Lei conosce un po’ di italiano, ma col suo assistito – peraltro malato di Alzheimer – non può comunicare, perché l’uomo parla solo il dialetto locale. Inoltre, i familiari del malato le impongono un regime alimentare che nemmeno un cane…: pane, acqua e un po’ di cibo preparato, mai fresco. La donna resiste per qualche giorno, poi, avendo finito i soldi, si decide a tornare a casa. E’ talmente esasperata e delusa che si mette in strada, determinata a tornare in Romania a piedi! La salva la pietà di alcune persone, che la notano e la sostentano finché non trova lavoro da un altro anziano. Dopo la morte di questo, presta servizio con altre due persone in età avanzata. Trascorsi dieci anni come badante, la famiglia si ritrova ad avere i soldi per comprare una casa, che viene effettivamente acquistata. Anica è contenta, ma le mancano ancora un paio di anni per raggiungere la pensione, perciò rimane a lavorare in Italia. Due anni dopo torna in Romania, per godere a sua volta della casa e della famiglia. Ma non troverà né l’una né l’altra. La casa è andata fuoco, e i familiari, che non la vedono da anni, non mostrano alcun affetto nei suoi confronti. In mezzo a loro, la donna che per la famiglia ha sacrificato un’esistenza si sente un’intrusa; Anica è stata e sarà sempre una straniera.
L’altra storia riguarda una badante (che chiameremo Ioana) arrivata in Italia quando aveva 41 anni. Ioana trova lavoro in una regione del centro Italia, e deve assistere un anziano che soffre di dolori artritici e di altri malanni legati all’età. Purtroppo, i familiari dell’uomo sono contrari all’uso di farmaci, compresi gli antidolorifici; il risultato è che di notte non dormono né l’assistito né la badante. A causa di questa aberrante condotta, le condizioni del malato peggiorano di mese in mese; i suoi familiari attribuiscono il fatto alla negligenza di Ioana e la trattano in modo disumano; negli ultimi due anni di assistenza, alla badante viene concesso di uscire solo tre ore la settimana. Abbattuta da una tale esperienza, Ioana fugge via e raggiunge le due figlie, che vivono in Spagna. Il rapporto è difficile, anaffettivo, presto le figlie impongono alla madre di tornare dal marito, che intanto ha dilapidato i soldi accumulati da Ioana in anni di lavoro. Quando torna in Romania, il marito, obnubilato dall’alcool, non vuole più saperne di lei, e la caccia di casa. Disperata, Ioana torna in Italia, in un estremo tentativo di dare un senso alla sua vita. Ma le privazioni e le sofferenze fisiche e morali non le sono più sopportabili: in preda ad atteggiamenti psicotici, viene prelevata per strada da una pattuglia di Vigili Urbani e trasportata in un ospedale. Da qui, tramite l’Ambasciata di Romania, viene aiutata a rientrare in Patria e ricoverata immediatamente nel reparto psichiatrico del Socola. Le sue condizioni, oggi, sono leggermente migliorate. Il marito, aiutato anche lui dalle strutture sanitarie, è stato costretto dall’Autorità Giudiziaria a riprendere in casa la moglie; vivono grazie alla pensione di lei, che ha ritrovato un briciolo di vita.
L’esperienza dell’Ospedale Socola si è conclusa con una breve visita alle malate della sezione psichiatrica femminile. Qui, mi pareva di trovarmi nella tragica realtà descritta da Cechov nel noto racconto “Il reparto numero sei”. Non intendo riferire ciò che ho visto, perché esula dal tema principale di questo scritto, riguardando il lato clinico delle patologie nervose. Dico soltanto che non sono riuscito, una volta fuori dal reparto, a trattenere le lacrime. Senza entrare nei dettagli, avevo la sensazione di essere immerso in una dimensione non umana; provavo un’angoscia intollerabile per queste persone che invece sono l’umanità, quella più dolorosamente offesa, quella che mette a nudo la nostra presunzione, il nostro orgoglio smisurato, il nostro desiderio di onnipotenza.
E’ un’umanità che inviterebbe ad arrendersi al cospetto di un destino che pare ineluttabile. Eppure, non è così. Ci sono questi specialisti che lottano giorno dopo giorno, ora dopo ora, in uno dei compiti più difficili della scienza medica, per ridare un po’ di vita, dignità, salute alle persone che soffrono di patologie così tremende. Passano nelle corsie col sorriso di chi sa cosa comporta una malattia che sconvolge la mente; ma è anche, il loro, un sorriso di speranza e di affetto, il sorriso di chi è capace di conservare umanità laddove esiste la tentazione di trovare un posto solo alla scienza. Abbinare l’una e l’altra; è questo l’unico modo per dare speranza a questi malati e poter parlare di vera conoscenza, un traguardo che le menti che escludono l’umanità dal loro operato non potranno mai raggiungere.