Intervista tratta dal volume “Milano Multietnica”, ed. Meravigli, Milano: autori Donatella FERRARIO e Fabrizio PESOLI
Violeta Pătrunjel Popescu è a Milano dal 2004. Si è trasferita con il marito e ora vive, con due figli, ad Arcore. Occhi azzurrissimi, pronuncia italiana quasi perfetta, è tra i fondatori del Centro Culturale Italo-Romeno di Milano. Un’idea nata nel 2008 da un gruppo di volontari romeni con una convinzione: il modo migliore per creare aggregazione e far conoscere il proprio Paese è tramite la cultura. Violeta è instancabile, onnipresente a ogni incontro, presentazione, mostra: l’entusiasmo per il proprio Paese e per l’interculturalità traspare da ogni parola o sguardo. È originaria di Braşov, in Transilvania: i genitori, nati negli anni ‘40 del secolo scorso, all’epoca di Nicolae Ceaușescu lavoravano in fabbrica in condizioni durissime e Violeta, prima di andare a scuola, alle sette del mattino, conduceva al pascolo le mucche, portando con sé dei libri da leggere. Vivere in campagna però era una fortuna: il cibo non mancava mai. In Romania Violeta si è occupata di museografia e ricerca storica, ha insegnato e a Milano è impegnata come mediatrice culturale, con numerosi saggi all’attivo.
Violeta, a quando risale l’arrivo in Italia dei romeni?
Un primo arrivo, per lo più di intellettuali, si registra negli anni ‘70, quando il dittatore Ceaușescu ha concesso un po’ di libertà agli uomini di cultura: questi venivano in Italia e non tornavano più e se tornavano non potevano più uscire. Si trattava soprattutto di artisti, ballerini, coreografi, musicisti… Come Marinel Stefanescu, il grande coreografo, giunto in Italia negli anni ‘70 come ballerino, che ha danzato per anni con Liliana Cosi, alla Scala e in tutta Europa e che, nel 1977, ha fondato l’Associazione Balletto Classico di Reggio Emilia. Stefanescu ha poi chiamato tanti ballerini romeni in Italia, che, negli anni ‘80, hanno creato a loro volta altre scuole di danza, come Gheorghe Iancu – spesso al fianco di Carla Fracci – e Loreta Alexandrescu, docente di ballo alla Scala. Un altro grande nome è quello di Camilian Demetrescu, scomparso nel 2012, i cui arazzi sono esposti in Vaticano. Con la caduta del Muro di Berlino c’è stata la seconda ondata: i romeni arrivavano non più per sfuggire alla dittatura ma per trovare un lavoro. Per lo più in Lazio e in Piemonte, poi in Lombardia.
Perché l’Italia?
A scuola ci insegnavano che l’Italia era la nostra sorella maggiore – come la Francia –studiavamo i grandi compositori italiani, fin dalle medie, la lingua è simile alla nostra, il ceppo è lo stesso. Siamo cresciuti con l’idea che l’Italia e la Francia fossero Paesi molto accoglienti, anche dal punto di vista linguistico. Ci dicevamo: «in romeno noi diciamo buna seara, in italiano “buona sera”. Che bello, così simile!». Un grande intellettuale piemontese, Giovenale Vegezzi-Ruscalla, studioso della Romania, tornando in Italia ha pubblicato un libro che definisce la Romania “l’altra Italia”. Abbiamo sempre trovato tanti punti di riferimento qui. Ci sembrava il luogo ideale: questa tradizione comune, la lingua simile… Poi Milano è la città dove hanno abitato o sono transitate importanti figure della storia romena: dal principe Iancu di Hunedoara (1407-1456) in rapporti con Francesco Sforza; al soprano Hariclea Darclée (1860-1939), al quale Puccini ha dedicato l’aria “Vissi d’arte, vissi d’amore” della Tosca; a Simion Bărnuțiu (1808-1864), importante figura del movimento del 1848.
Cosa significa “integrazione”?
La Transilvania, dove sono nata, è una regione multietnica: ho sempre dovuto “guardare l’altro”, non è facile farlo, ci vuole esercizio, devi approfondire. Se parti dai pregiudizi non riesci a dialogare. Da noi vivono tedeschi, ungheresi, turchi, ci sono tante comunità: lo chiamerei un “esercizio dell’armonia”, un esercizio democratico. Questa è la nostra anima. Poi è arrivata la dittatura che era come una gabbia, una sofferenza, non solo economica – non avevamo da mangiare – ma proprio per la privazione della libertà: la gente voleva leggere, conoscere, informarsi e non poteva.
I primi romeni giunti in Italia hanno portato la famiglia?
Negli anni ‘70 sì. Sono diventati cittadini italiani e sono riusciti a riunirsi. Per la seconda ondata, la più consistente, espatriata per motivi economici, è stato tutto più difficile.
Perché Milano?
Un giorno ho incontrato in chiesa una donna romena appena arrivata a Milano e ho iniziato a farle delle domande: «Perché sei venuta proprio qui?». Mi ha risposto: «Mia cugina mi ha spiegato che si può trovare lavoro: eccomi». Arrivano così… La chiesa rimane un punto di riferimento fondamentale per la comunità romena. Non solo per l’esercizio della fede, ma per riascoltare anche il suono della propria lingua, rial-lacciare dei rapporti con la comunità, per trovare lavoro. Per molti ha funzionato il passaparola. Uno ha iniziato a lavorare e poi ha chiamato un altro parente, e così via. Hanno fatto così. Non è stata una cosa programmata.
Qual è la sua storia?
Sono fortunata, non ho scelto di venire in Italia per cercare un’occupazione. Ho seguito mio marito, romeno, che è venuto in Italia con un contratto di lavoro. È vero che ho dovuto iniziare tutto daccapo, in Romania insegnavo, lavoravo presso l’Istituto di ricerca storica, ero soddisfatta del mio lavoro. In Italia ho rimesso tutto in discussione. Ho avuto la fortuna di conoscere il professor Giorgio Galli dell’Università degli Studi di Milano che ha scritto le prefazioni dei miei primi libri. È lui che mi ha invogliato a svolgere questo tipo di missionarismo culturale tra i nostri Paesi. Alla fine ho fondato nel 2008 il Centro Culturale Italo- Romeno: sia per venire incontro alle esigenze di chi vive la diaspora e non vuole perdere le radici, sia per far conoscere la Romania. È da notare un grande potenziale culturale, artistico e scientifico da parte della comunità romena che vive in Italia – artisti, musicisti, medici, scienziati, ingegneri – che offre un importante contributo alla società italiana. Il nostro centro è culturale. Perché, per me, la cultura è il mezzo per farsi conoscere, la cultura è per l’anima e l’anima non ha un colore, è per tutti. Ho trovato un riscontro sempre molto positivo: tutte le manifestazioni sono ideate per conservare l’identità culturale romena, promuovere la Romania in Italia e anche per continuare i nostri rapporti tradizionali, come Paesi rimasti divisi da decenni di dittatura: vorrei che riprendesse il dialogo dove si è interrotto. La nostra attività è volontaria e vive delle nostre tasche: non è finanziata dallo stato romeno. Siamo in dieci: cinque per la casa editrice, la Rediviva, e cinque per il centro culturale, più altri che aiutano. Il risultato di tutto questo lavoro è rappresentato da oltre 250 eventi a Milano e in Lombardia – presentazioni di libri, conferenze, mostre, varie collaborazioni con le biblioteche italiane, le università, le associazioni ecc.
Rimane tra voi romeni un legame qui a Milano?
Il Centro è un punto di riferimento culturale sia per i romeni che per gli italiani interessati a conoscere la Romania. Tengo molto alla presenza dei giovani e al loro coinvolgimento. Mi stupiscono la voglia e l’interesse degli studenti italiani di entrare in contatto con il nostro Centro culturale. Il frutto di questa collaborazione è rappresentato dalle loro tesi di ricerca etnografica, sociologica, letteraria.
Chi è a Milano pensa di ritornare in Romania in futuro?
La crisi ha cambiato moltissimo le prospettive. Ci sono famiglie che sono rientrate. Se possiedi una casa in Romania ritorni. È vero che se hai un bambino nato qui e che è già inserito in un percorso scolastico è difficile. I romeni rimpatriano in estate, soprattutto, d’inverno fa freddo. Si passano i mesi estivi con i nonni e i parenti. Si riallacciano anche fisicamente i rapporti con le proprie origini.
E la lingua?
Il patrimonio linguistico purtroppo va perdendosi: i genitori per lo più non hanno tempo, poi dipende dalla famiglia. In casa parlo la lingua materna: quella con cui ho conosciuto il mondo. In chiesa si parla in romeno; quando entri in chiesa hai un contatto più diretto con la tua patria, ti ricordano il battesimo, il matrimonio, i tuoi morti. Un legame che, per la seconda generazione, va annullandosi. Ci sarà una pagina bianca. Perché, di fatto, è una generazione che non ha nessun contatto con la Romania. Anche se la seconda generazione, secondo alcuni studi, ha la tendenza a ricercare le proprie radici.
Perché la maggioranza delle lavoratrici romene trova impiego come badante?
Forse per molte sembra la strada più facile per trovare lavoro: alcune non hanno finito il liceo, ma ci sono badanti con la laurea e molte infermiere romene in tutti gli ospedali. In Romania c’è una scuola infermieristica molto seria, sono molto preparate.
Quali sono i suoi studi?
Mi sono laureata in Storia e Filosofia all’Università Babes-Bolyai di Cluj-Napoca, poi in Teologia-Scienze sociali presso l’Università Lucian Blaga di Sibiu, ho conseguito un master in Studi storici europei all’università di Bucarest e ora sto seguendo un dottorato di ricerca. I nostri genitori erano molto preoccupati affinché i loro figli studiassero, nonostante tutte le difficoltà e i disagi. Sono riuscita a ottenere una borsa di studio: così non pesavo sui genitori. Era difficile ma una volta ammessa eri a posto. Ma era dura! Tutti i sabati e le domeniche ero in biblioteca alle 8.30 del mattino. Era faticoso tenere il passo: dovevi essere responsabile. A 18 anni, con mia sorella, sono andata via da casa, d’accordo con i genitori: da sole gestivamo la nostra vita. Non c’era tempo per divertirsi. Certo, con l’università si andavano a sentire i concerti e a vedere gli spettacoli teatrali. Ma poi studio, studio e basta. Ho insegnato per anni. Ho due figli nati qui. Non è stato facile. Forse aver preso la vita nelle proprie mani così presto ha aiutato. Ho certo un’infanzia molto diversa da quella dei miei figli, alla mattina con le mucche al pascolo prime di andare a scuola! E con i figli ora è molto differente. Sembra un’altra vita qui. Li ho portati dai miei genitori d’estate: hanno visto le mucche, i cavalli… Mi hanno detto: «Davvero non avevi niente?», «No, mi inventavo le cose, i giochi», «Ma allora non eri felice?», «No, ero molto felice!». È cambiato tutto da una generazione all’altra.