Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Nella cula della lingua materna, Florentina Niță

Ott 1, 2014

«Non imparerete mai l’italiano se continuate a parlare solo la vostra lingua fra di voi!». I rimproveri del nostro amico nei primi mesi di permanenza in Italia ci facevano un po’ vergog nare per il nostro accento “dell’Est” e ancora di più per le scarse conoscenze linguistiche.

Nostra figlia aveva quindici anni e un mondo tutto da scoprire. Io ne avevo quaranta e una vita da ricominciare. E non riuscivo a chiamare o sgridare nostra figlia in un’altra lingua se non in quella non a caso chiamata “materna”. E poi, le parole italiane, come le avevo sentite solo in canzoni e poesie, così melodiose, così liriche, con suoni di cristallo, non mi sembrava il caso di pronunciarle in circostanze banali come le nostre discussioni quotidiane.

A volte, quando torno sui miei passi, rivedo in tutta un’altra luce i fatti. Il tempo che passa e l’allontanamento riescono a fare un lavoro scenografico straordinario, mettendo in evidenza le parti essenziali e oscurando le cose meno significative. Eh sì, come mi pento oggi per l’ignoranza manifestata nei confronti delle altre nazionalità conviventi nelle nostre terre!… Quante volte ho giudicato come mancanza di rispetto alla patria l’uso esclusivo della lingua ungherese o tedesca in alcune province dove minoritari eravamo piuttosto noi, i romeni. E come me tanta gente.

Ricordo bene una giovane coppia con due bimbi che giocavano in spiaggia accanto a noi. I genitori continuavano a parlare con loro in ungherese e con noi sempre in una perfetta lingua romena. Erano dalle parti di Oradea, della storica provincia della Transilvania. E quello che per loro era un comportamento del tutto normale con i loro figli e rispettoso nei nostri confronti, a noi, un po’ indottrinati dalle teorie nazionaliste, sembrava uno strano e fastidioso rimbalzo da una lingua all’altra.

L’estate fu breve, quasi inesistente e la vacanza, una volta finite le scuole medie, ridotta al minimo. Il tempo è volato tra i preparativi per la partenza e la fretta di mettere in ordine tutte le cose da lasciare indietro. Ci siamo concessi solo una setti mana al mare, come ultimo saluto al Mar Nero, il nostro compagno di vacanze spen sierate. Ma non fu la stessa allegria di una volta. Sotto il sole torrido che ci picchiava con fruste di acciaio incandescente ci sentivamo nella pelle di una balena spiaggiata che cerca disperata di ritornare in acqua. La tranquillità dissimulata non riusciva a nascondere l’ansia e le incertezze accumulate dentro di noi. Fino a quando, a metà agosto, salutando amici e parenti, come se fosse una partenza per un semplice viag gio dal quale saremmo tornati a breve, abbiamo chiuso la porta della nostra casa con dentro tutti i nostri ricordi imprigionati in scatoloni e cassetti.

Ed ecco arrivato l’inizio dell’anno scolastico. Nel nuovo mondo nel quale ormai eravamo immersi, nostra figlia doveva affrontare ora non solo la difficoltà delle supe riori, ma anche il cambiamento di scuola, di professori, di compagni di classe, nonché di metodi didattici. Abituata ad avere la scuola in prossimità, quasi sotto casa, nella nostra piccola cittadina lontana e a essere spesso seguita dai nonni, di fronte alla nuova prospettiva di dover viaggiare verso la città mi chiese con timore di accompa gnarla nei primi giorni.

Così, per due settimane, viaggiai tutte le mattine sulla corriera che portava gli studenti dal nostro paesino a Brescia. Mi sedevo qualche fila dietro di lei, in silenzio, in modo da passare inosservata, un po’ imbarazzata e facendo finta di non conoscer la. Ogni tanto lei si girava per assicurarsi che ero ancora lì, dietro. I nostri sguardi si incrociavano per un attimo e questo bastava per tranquillizzare tutte e due, senza parole. Dopodiché, appena scesa, incontrava la marea di compagni di classe e porta ta da un’ondata rumorosa si allontanava come una barca a vela spinta dal vento, senza nemmeno guardare indietro. Quando l’ultimo autobus che collegava la stazione al liceo si metteva in moto dal piazzale, io tornavo a casa con il cuore in gola e tanti rimorsi che mi spuntavano per la mente. Abbiamo fatto bene a portarla qui? Ce la farà a superare tutte le difficoltà?

Fatto sta che in poco tempo lei riuscì ad imparare la strada per andare a scuola e avere la certezza che quella era la giusta e l’unica via per arrivare. Imparò l’italiano e persino il dialetto bresciano, con una facilità incredibile, rimanendo in ascolto di tutto ciò che la circondava, con la preoccupazione di perfezionare l’accento che molto spesso contraddistingue gli stranieri. Perché voleva essere considerata una di loro. Furono poi Dante, Leopardi, Pascoli, Manzoni, Goldoni, Ungaretti, con il flui do lirico delle loro parole, a completare la formazione e levigarle le ultime granular ità linguistiche. Finì per arrivare a pensare direttamente in italiano, senza passare dalla traduzione mentale che talvolta può provocare notevoli ritardi di comunicazione a noi, gli stranieri.

Per quello che mi riguardava, il mio lavoro richiedeva un impegno altrettanto sostenuto e continuo per superare le difficoltà linguistiche. Dare supporto tecnico in contatto diretto o telefonico a centinaia di utenti dell’azienda è stata anche per me un’opportunità di imparare in fretta a esprimermi nella lingua di Dante. Quasi sempre l’accento tradiva il fatto che non fosse un parlato nativo italiano, però ricev etti anche complimenti per la qualità della comunicazione da persone distribuite in varie aree geografiche dell’Italia e per alcuni di loro le particolarità della mia pronun cia apparvero come alterazioni dialettali. In fondo l’importante era capirsi.

Mentre la lingua romena rimane per sempre il legame profondo e intangibile che ci identifica, ci consola e ci protegge, nei momenti tristi e di felicità, tra un abbraccio o una carezza, accompagnando con amore materno i nostri rapporti in famiglia.

(Tratto da F. Niţă, Tempo e spazio europeo)

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