Centro Culturale Italo Romeno
Milano

L’ORO DELLA MOLDAVIA di Armando Santarelli

Lug 22, 2019

E’ un affetto profondo ad avermi condotto qui, l’affetto per una famiglia e per la sua terra d’origine. Sono nel cuore della Moldavia, una delle regioni storiche della Romania. Il cartello stradale posto all’ingresso del villaggio reca la scritta: “Negriteşti”.

Niente più – si direbbe a un primo sguardo – che una strada fiancheggiata su entrambi i lati da graziose casette, circondate da un’immensa pianura. Nessun locale pubblico, nessun capannone industriale, nessun’attrazione particolare; né avrebbero ragione di esistere qui, visto che il villaggio conta circa 350 abitanti. Persino il nome è semisconosciuto, e inesistente nelle mappe stradali; infatti, Negriteşti fa parte della Municipalità di Podoleni.

Giro lo sguardo tutt’intorno; l’aria è indicibilmente limpida e calma, quasi soave, ma carica di segni e di suggestioni. Il silenzio è sovrano; non un’automobile, non una voce umana a disturbarlo. Una pace irreale aleggia in questa vastità, una sorta di incantesimo che invita a perdersi nella contemplazione del paesaggio dolce e indolente.

Io appartengo alla generazione di quelli che a scuola imparavano a memoria tante poesie; e mi viene in mente Aldo Palazzeschi e la sua Rio Bo:

Tre casettine dai tetti aguzzi,

un verde praticello,

un esiguo ruscello: Rio Bo,

 un vigile cipresso.

Microscopico paese, è vero,

paese da nulla, ma però…

c’è sempre di sopra una stella,

una grande, magnifica stella,

che a un dipresso…

occhieggia con la punta del cipresso

di Rio Bo.

Una stella innamorata!

Chissà se nemmeno ce l’ha

una grande città.

E’ luglio, fa caldo, ma ripetendo gli ultimi versi ho avuto i brividi: la stella innamorata ricorre nella meravigliosa lirica del più grande poeta di questa regione e di tutta la Romania; e il pensiero che il fanciullo Eminescu amava vagabondare in un ambiente simile a quello che mi circonda, aggiunge una nota toccante alla mia emozione.

La stella che illumina le notti di Negriteşti brilla da milioni di anni, ma la sua luce argentea si è posata sui tetti delle case solo qualche secolo fa. Infatti, se i primi insediamenti nella Valle Negriteşca si perdono nella notte dei tempi – come dimostra il rinvenimento di ruderi e oggetti risalenti al Neolitico – il villaggio ha le sue radici nell’epoca medievale.

Quando, mesi or sono, chiesi alle Autorità Municipali di Podoleni una documentazione relativa alla storia dei luoghi, non sapevo cosa aspettarmi, e francamente mi sentivo un po’ pessimista. Ma Negriteşti ha voluto ricambiare la mia dedizione. Nessun innamorato disdegna un’ascendenza illustre per la sua amata. E il materiale ricevuto dal Comune di Podoleni parla chiaro: la Valle Negriteşca, insieme ai feudi di Suceava, Moldova e Trotuş, formava la tenuta di Neamț, che i documenti storici qualificano come “la culla della Moldavia”.

Era un mondo, quello della primitiva Negriteşti, fatto di terre e di aristocratici di diverso rango, ricordato per la prima volta in un documento dell’8 marzo 1479, che riporta anche il nome del signore del villaggio, il vodă Ieremia Movilă. Nei secoli successivi, la tenuta Negriteşca passa per molte mani, e il suo destino si intreccia con alcuni grandi nomi della storia romena, come Petru Movilă, arciepiscopo e metropolita di Kiev; come lo storico Grigore Ureche, coautore delle Cronache della terra moldava e uno dei primi letterati a scrivere in romeno; come il vornic Toma Cantacuzino, che nel 1657 compra metà del villaggio di Negriteşti per 300 galbeni (monete d’oro). Quarant’anni più tardi, il 30 luglio 1697, è il gran vistiernic Iordache Rusăt ad acquistare “un intero villaggio con i suoi confini, cioè Negriteşti, sito nella regione di Neamţ, con i campi, i pascoli, gli alberi da frutto, gli apiari, con i vivai per i pesci, col mulino nel vivaio e con tutti i beni di quel luogo e tutti coloro che potrebbero trovarsi in quel villaggio… per 500 lei”.

Vodă, vornic, comisul, spătar, logofăt, vistiernic, titoli strabilianti di una storia secolare che vede sorgere potentati mezzo ungheresi, mezzo bizantini e mezzo slavi, poi i primi grandi principati romeni, figure prestigiose come Bogdan I, Stefano il Grande e Michele il Bravo, e famiglie come i Muşat, i Movilă, i Tomşa, i Cantacuzino, i Rusăt, i Cantemir, stirpi che daranno grande lustro alla terra moldava.

Dunque, la piccola Negriteşti ha una storia nobile, un mondo retrospettivo antico e interessante, di cui, però, rimangono poche tracce. Il perché è ovvio: il villaggio passava di casata in casata, si vestiva di titoli e blasoni di ogni tipo e rango; ma sotto i panni signorili, il corpo, la fisionomia, la sostanza, rimaneva quella del mondo contadino che su queste terre consumava l’intera esistenza.

I contadini, l’anima del popolo romeno, gli uomini che per secoli hanno lavorato come umili braccianti alla totale mercé del loro padrone; commuove venire a sapere che solo nel 1864 – quando signore del villaggio era Gheorghe Pruncu – furono assegnate in proprietà le prime terre, che andarono a otto cittadini di Negriteşti. I contadini, legati alla terra da un amore sacro, la “Romania romena” per cui propendevano Mircea Vulcănescu, che in Puțină sociologie esalta la “civiltà organica” del villaggio, e il moldavo Nicolae Iorga, che nella classe contadina ravvisa la base etnica della stirpe.

E’ un legame mistico e ancestrale quello dei letterati moldavi con la loro terra e il mondo agreste. In questi luoghi, lo scrittore Calistrat Hogaş vede il tempio della natura, e anela contemplarne solitario l’immensità muta e solenne.

Ion Creangă, nato e vissuto a pochi chilometri da qui, porta nel cuore l’intimità con l’ambiente e la comunità rurale; il suo villaggio, osserva lo storico della letteratura Basil Munteanu, “vibra, come un alveare, di una vita intensa, in cui si mescolano il rumore dei telati, l’andirivieni dei lavoratori, le monellerie dei fanciulli…”.

Mihail Sadoveanu diventa l’anima e la voce di uomini che vivono in un primitivismo ideale, la cui esistenza introduce “in un’altra vita o in un’altra favola”. E’ lo stesso epos di Eminescu, che aspira a diventare “la voce oggettiva e atemporale di una terra mitica, fuori dal tempo e dalla storia”, come scrisse Rosa Del Conte, la massima studiosa italiana del poeta.

Tra i figli della terra moldava, si erge la straordinaria personalità di Alexandru Vlahuță (1858 – 1919). Spirito imbevuto di una bontà francescana, Vlahuță vede nell’arte una missione, e per l’intera vita si assume il compito di avvicinare le nuove generazioni ai valori e al patrimonio morale della classe sociale che considera incorruttibilmente romena: quella dei contadini. La sua indole filantropica gli ispira versi mistici, come nella poesia ‘Sfȃntă muncă’: Lavoro santo è quello / che trova la ricompensa in se stesso; e addirittura evangelici, nel sonetto ‘Semănătorul’: Avanza nel campo il seminatore / e nel solco nero, umido di rugiada / getta, ben sperando, la vita nuova / che il futuro farà germogliare. Ma al di là dell’opera, sono i gesti nobili che contrassegnano la sua vita a restituirci la grandezza morale di Vlahuță: nel 1917, dunque nel pieno della Prima Guerra Mondiale, egli chiese ed ottenne dalle Autorità Militari il permesso di recarsi in trincea, per contribuire ad alleviare le sofferenze dei soldati romeni.

Torno a girare lo sguardo intorno a me: la pianura vasta e immobile mi ricorda, per un attimo,  alcune descrizioni paesaggistiche dei romanzieri russi; ma qui dominano il verde brillante dei prati e dei campi di soia, e il giallo vivo dei girasoli, che vira nel biondo tremulo del mais lungo le dolci colline che affondano nel blu dell’orizzonte, arretrate come per lasciare più spazio all’oceano piatto ed erboso. I covoni dorati presenti dappertutto sembrano sentinelle distratte e paghe del loro umile compito. Sopraffatto dinanzi a tanta bellezza, senti che vorresti fonderti con gli elementi di questa fantasia bucolica, i suoi profumi, i suoi colori.

I colori… prima di me – ed è stata un’incredibile  sorpresa – c’è chi ha parlato di una metafisica dei colori di Negritesti. Fra i documenti inviatimi dal Comune di Podoleni spiccavano una serie di fogli ingialliti, battuti a macchina, e la colta prefazione, ad opera dello storico e critico letterario Petre Isachi, di un romanzo intitolato Culori de Negriteşti, pubblicato nel 2012. Ne è autore un ex colonnello delle Forze Aeree, Ion Timaru, nato a Negriteşti il 17 febbraio 1946.

Culori de Negriteşti è una monografia-romanzo originale e polimorfica. Iniziando con un favolistico “C’era una volta”, l’autore vira presto nel campo storico, inserendo il villaggio di Negriteşti nella cultura Cucuteni, che precede di quattro-cinque millenni la nascita di Cristo. Per niente scoraggiato dall’assenza di documenti che comprovino la continuità storica del villaggio, Timaru si mette a compulsare gli archivi di tutti i Comuni limitrofi, e quando non trova materiale a sufficienza procede sulle tracce dei noti cronisti Grigore Ureche, Miron Costin e Ion Neculce, coautori del Letopisețul Ţării Moldovei. La narrazione ci regala episodi straordinari, come quello che vede protagonista Ştefan cel Mare, il quale nel 1479 acquista la tenuta di Podoleni, che poi affida al vassallo Avram Frăncu. Nell’atto di compravendita – che riporta il sigillo di ‘Stefano Voivoda, signore di Moldavia’ – il regnante dispone che ‘Chiunque diventerà Signore della Moldavia dovrà rispettare e rafforzare questo documento, perché il sottoscritto ha acquistato la terra con il suo onesto denaro; e nei confronti di chi oserà violarne le norme viene sancita “la maledizione per mano del Signore e Nostro Salvatore Gesù Cristo, della Sua Madre Immacolata, dei quattro Santi Evangelisti, dei dodici Sommi Apostoli (Pietro e Paolo e tutti gli altri), di tutti i Santi e dei 318 Santi Padri del Concilio di Nicea”.

Timaru è innamorato del luogo natale, lo trasfigura in un topos benedetto da Dio, e partendo dall’idea di Blaga secondo la quale ‘l’eternità è nata in campagna’, riveste il villaggio di un’aura mitica. Ma la visione atemporale e ideale si sposa con un vivo, picaresco realismo allorché l’autore si concentra sui sei secoli di storia ininterrotta del villaggio.

Una mattina, mentre egli stesso si reca al mercato di Roznov insieme agli amici Ilie e Gică, il carretto sul quale viaggiano viene bloccato da un gregge di pecore. Gică perde subito la pazienza e grida ai pastori di muoversi; questi, agitando i loro bastoni, gli ribattono di stare calmo. Allora Gică tira fuori un’accetta, e alzatosi in piedi la brandisce contro i pastori, che si affrettano spingere il gregge e a liberare la strada. Ed ecco lo splendido commento di Timaru: “Gică li ringraziò togliendosi il cappello a mo’ di saluto, ed essi risposero allo stesso modo. E’ una scena che si ripete di sovente da queste parti. Essere brusco e signorile allo stesso tempo, al di fuori di ogni legge, sotto il cielo blu indulgente e protettore, è un sentimento con le ali”.

Lirismo descrittivo e sapida realtà si intrecciano di continuo nel romanzo. “Dopo la terza mietitura”, scrive Timaru, “l’erba dei campi è fantastica, pura piuma, piuma verde nella quale rotolarsi e addormentarsi all’infinito”. Ma sulla collina – leggiamo più avanti – l’erba celava estasi di diverso tenore… “Lì si faceva l’amore senza tanti scrupoli, senza tanti giri. Ion B. era a cavallo di Ileana M. e Ghiță T. a cavallo di Aurica B., ad un bastone di distanza l’uno dall’altro. Noi ragazzi, a volte, andavamo a spiare… ‘Che vi guardate, voi! Andatevene!’ E quando si accorgevano che rimanevamo ad osservarli, ci scacciavano con le frasche”.

E’ l’età d’oro del villaggio e dell’uomo di Negriteşti, creatura che ha una visione armoniosa della vita, perché pensa che ogni cosa e ogni evento abbiano una giustificazione e un senso. In una cornice dove lo spirito mioritico si fonde con l’istinto bacchico di ascendenza tracica, l’autore evoca gli amori, le nozze, i riti, i lutti, le feste della vita rurale come manifestazioni non riducibili al folclore, ma radicate nella mistica appartenenza ad un mondo dal quale non ci si può separare se non soffrendo di uno sradicamento esistenziale.

Inevitabile che Timaru andasse a toccare il punto nevralgico della storia più recente del villaggio, e non solo di esso: Negriteşti simboleggia l’amaro divenire della Romania contemporanea, la fuga dalle campagne, la consapevolezza che un’intera epoca storica – quella del prospero villaggio rurale – sia stata rapita da non si sa chi, non si sa quando…

Purtroppo, è la realtà che ho sotto gli occhi; so bene che Negriteşti, alla pari di altri centri della Valle e del Distretto di Neamţ, si sta spopolando in modo preoccupante. In effetti, lungo il rettilineo stradale che immette nel paese non si vede un’anima. D’accordo con Marcela, la ragazza moldava che mi accompagna, decido di procedere a piedi, una scelta che viene subito premiata. Dopo una cinquantina di metri, alla nostra destra, udiamo un rumore. Cigola un cancello, e un uomo anziano, il primo abitante di Negriteşti che incontriamo, si affaccia sulla strada. Ha un viso aperto e franco, occhi acquosi e bonari, che continuano a fissarci con uno stupore muto, sottintendendo una domanda: “Perché siete qui?”

Ci presentiamo. Lui si chiama Ioan Leahu, ha ottantaquattro anni, è vedovo, e ha sempre vissuto qui.

Gli dico che sono italiano e che mi trovo a Negriteşti per dire una preghiera sulla tomba di Maria Timariu”.

“L’ha conosciuta, no?”, me ne esco.

Mi rendo conto subito dell’assurdità della domanda, della quale dovrebbe ridere. Ma Ioan rimane serio: “Certo, era mia vicina, la casa è pochi metri più avanti”.

“Posso vederla?”

Mi fa un cenno con la testa e mi invita a seguirlo. Il cancello di legno che dà accesso alla casa è puntellato da un paletto di legno. Quando Ioan lo toglie ed entriamo, mi viene un tuffo al cuore: l’erba è alta nel giardino, gli alberi cominciano a ospitare troppi rami, i cespugli avanzano verso la casa in legno col tetto di ardesia. Qui Maria ha vissuto serenamente la sua intera esistenza, accanto al marito Constantin, venuto a mancare una ventina d’anni prima di lei. In questi spazi hanno giocato le sue nipoti, in particolare la sua prediletta, Diana, che da anni vive e lavora a Roma e che ha trascorso qui la fanciullezza. E ora questa casa è vuota, silente, una metafora amara e nostalgica della vita; è la messaggera di una transitorietà che il mio cuore rifiuta, chiedendo aiuto a tutto ciò che vede, le pareti, le scale, la porta, perché mi aiutino a mutare il dolore in una dignitosa rassegnazione. Mi apparto, sfogo un pianto nel silenzio rispettoso di Ioan e Marcela, che solo dopo lunghi minuti mi mettono una mano sulla spalla e mi rivolgono parole di conforto.

Guardo Ioan, non so come cominciare, e dico la prima cosa che mi passa per la testa: “Ioan, non c’è più neppure un giovane?”

“No, ce ne sono, ma pochi. Questo è stato sempre un villaggio di contadini, e oggi fare il contadino non conviene. E poi, devi avere la schiena… Se fai il contadino non hai né orari né padroni, ma devi avere la schiena”.

Fa fatica a proseguire, e decido di non insistere. Nel frattempo, un altro anziano ci ha raggiunto. E’ alto, ancora ben piantato, nel volto pacioso e rubicondo porta una serenità eccezionale. Ci presentiamo; si chiama Mircea Drăgoi, ha 74 anni. Deve aver capito che sono italiano, perché mi dice che ha tre figli in Italia, tutti in Toscana. Gli chiedo timidamente come vive questa realtà, e la sua espressione muta: “Male”, mormora con una smorfia dolente, “molto male. Devono fare la loro vita, ma noi genitori…”.

Sento spegnersi il desiderio di porgli altre domande. Ma è lui stesso, fissando il vuoto, a rincarare la dose: “Stavamo meglio prima. Lavoravano tutti, lavoravano anche le fabbriche, e i figli restavano qui”.

Fa una pausa, si tocca la testa con un dito e dice qualcosa di stupefacente: “Sarò matto, ma credevo che non se ne andassero”.

Lo guardo sorpreso: “Perché?”

Lo vedo commuoversi: “Non lo so… non lo so…”.

Intanto, come comparse dal nulla, alcune donne parlottano e sorridono sotto un acero che ha generato un cerchio d’ombra che pare disegnato dal compasso di un geometra. Una si fa avanti; è la moglie di Mircea, si chiama Maria. E’ piccola, ha il viso scuro e rugoso di tutte le contadine, ma occhi vivissimi, quasi da fanciulla.

“Maria, vi vedo allegre, grazie a Dio”.

Alza il mento dubbiosa: “Una volta eravamo piu allegri…”

“Lo so che hai i figli in Italia”.

“Eravamo tutti contenti. Però se così vuole il Signore… La felicità oggi c’è, domani non c’è più. Perché ci sono tanti mali… Qui il male pure se non lo fai lo vedi”.

Non capisco, e chiedo a Marcela di dirle di spiegarsi meglio.

Maria piega la testa: “Senti, tu vieni dalla città?”

Rispondo di sì, anche se in una città ho vissuto solo per qualche anno.

“Allora il male lo vedi e non lo vedi. Lì non vi conoscete, ognuno pensa a sé. Ma qui, tu magari stai a ridere, a mangiare, a fare qualche lavoretto, e ti bussano alla porta. ‘Maria, Liviu sta male, è diventato nero’. Vai lì e lo trovi già morto. Qui tu sai tutto, pure quando muore un animale a qualcuno. Sai pure le cose di quelli che sono partiti. Se lavorano, se stanno bene, se soffrono… “.

Una delle anziane presenti richiama la mia attenzione, e mi guarda con occhi in cui leggo una rassegnazione mista a una grande dignità: “Ho avuto otto figli. Una è morta a 5 mesi, e uno a 58 anni. Me ne sono rimasti sei. Poi ho 14 nipoti e 10 pronipoti. Solo una figlia vive all’estero, in Belgio”.

La donna si chiama Lucreția Negoiţă, ha 80 anni, ed è vedova da quattro. Una delle figlie, che oggi è venuta a trovarla, mi chiede di parlare. Ha un viso fiero, lo sguardo le fiammeggia, quando inizia: “Ci sono 150 case qui, trent’anni fa erano tutte piene di gente. Adesso quelle abitate sono la metà. Vedevi tanti ragazzi a Negriteşti, ma adesso… Solo qualcuno lavora, certi sono in disoccupazione, qualcuno fa servizi per la comunità, una specie di aiuto sociale. Vuoi sapere quanto prende? Centocinquanta lei al mese. Sono 40 euro…”.

Capisco che nell’esodo dei giovani c’è un risvolto epocale e doloroso, forse drammatico: partire vuol dire andarsene per sempre, lasciare i propri genitori; vuol dire rinunciare a ciò che ha nutrito la tua anima, e che rischi di ritrovare solo nel ricordo, nella nostalgia, nel dor. Quando si parla di emigrazione viene spontaneo pensare a coloro che fuggono da guerre, distruzioni, fame, povertà. Ma forse lasciare quest’angolo di paradiso moldavo, una terra così bella e potenzialmente così prospera, fa ancora più male.

Negriteşti morirà? O ci sarà un mutamento, un colpo del destino che cambierà le sorti di questo villaggio? Mi viene in mente Eminescu, che temeva l’evoluzione realizzata in modo repentino e incontrollato, quei “salti” capaci di originare fratture irrimediabili col substrato autoctono e vitale di un organismo sociale. E nel mio cuore si insinua il disperato desiderio che i villaggi come Negriteşti non perdano – pur nell’inevitabile e giusta modernizzazione – lo spirito primigenio che li ha portati quasi intatti sino ai nostri giorni.

Ringrazio le donne, vorrei lasciarle in pace, ma non posso evitare un’ultima domanda alla figlia di Lucreția: “Tu sei rimasta, e i tuoi figli sono giovani. Che succederà qui?”

Strizza le palpebre: “Rispondete voi. Noi certe risposte non le abbiamo. Magari quella di uno straniero ci sembra Vangelo. Lei ce l’ha?”

Incasso il colpo, saluto le brave contadine di Negriteşti e faccio per andarmene, quando Marcela richiama l’attenzione di Lucreția, poi punta il dito verso di me e dice sorridendo: “Lui è innamorato delle doine e delle colinde”.

Doine?”, sussurra la donna. Il suo sguardo si fa vellutato; sono gli occhi il tratto più notevole degli abitanti di questo luogo: grandi e luminosi, allo stesso tempo sereni e attenti, malinconici e vivaci, attoniti e indagatori. Lucreţia abbassa impercettibilmente il capo, lo rialza, guarda fisso innanzi a sé e lentamente, quasi pudicamente, intona una nenia simile a un pianto.

Il pensiero va immediatamente a Noica. “Ogni creazione”, scrisse il filosofo in Rațiunea ființei, “nasce da un pianto e da un silenzio”. I contadini lavoravano, soffrivano, a volte piangevano. Il silenzio che ne seguiva veniva rotto da questi canti inseparabili dalla malinconia, dove si sono condensati secoli di storia umana vissuta con le mani protese a terra e gli occhi rivolti al Cielo. Non c’è poeta romeno che abbia resistito al fascino delle doine. Alcuni dei versi più belli dedicati a questi canti sono di un transilvano molto legato alla Moldavia, Octavian Goga, che nella poesia Noi immagina che “usignoli di altri Paesi giungano qui ad ascoltar la doina”.

Quando il canto di Lucreţia si spegne, è come se mi trovassi dinanzi alle lapidi di un passato che chiede umilmente di non morire. Per secoli questi canti popolari sono risuonati soltanto nella campagna romena, scandendo l’epos del mondo contadino. Oggi, le doine e le colinde costituiscono un patrimonio culturale della Romania, e grazie a Dio è possibile deliziarsene ovunque esista una collettività romena.

Avevamo chiesto di poter vedere la chiesa di Negriteşti, e veniamo accontentati. Con pianta a croce greca, dipinta all’esterno in un ridente azzurro chiaro, la chiesa è piccola, ma molto graziosa.

Il parroco, Padre Dumitru, un bel giovane alto e robusto, si mette subito a nostra disposizione. La chiesa, spiega, è stata eretta negli anni 1991-1994. Il 24 settembre 1995, con una solenne cerimonia religiosa, è stata dedicata a San Demetrio, il Megalomartire di Tessalonica che subì il supplizio nel 306, sotto l’imperatore Diocleziano. La sua architettura è una combinazione fra lo stile moldavo e quello bizantino; neobizantini sono anche gli affreschi degli interni, raffiguranti i principali santi e martiri dell’Ortodossia.

Nel naos, il parroco indica l’icona di San Dumitru, posta, naturalmente, all’estrema destra dell’iconostasi; quest’ultima è stata costruita e modellata dai contadini del posto, usando i semplici strumenti del loro mestiere. L’immagine è impressionante, non sembra neppure in stile bizantino: mostra un giovane dai capelli fluenti che reca una croce nella mano destra, e una lancia nella sinistra. “E’ una delle poche immagini del santo a figura intera”, precisa Padre Dumitru.

Mi sovviene che alcuni storici (l’ateniese Alexander Polites e l’inglese John Cuthbert Lawson su tutti) sostengono che San Demetrio non sarebbe che la trasmutazione in santo cristiano della dea greca Demetra, processo che riguardò altre divinità dell’Olimpo allorché il messaggio di Gesù divenne religione ufficiale dell’Impero Romano. E’ una reminiscenza che terrò per me; in ogni caso, i bravi contadini di Negriteşti hanno scelto bene il loro Patrono, perché San Demetrio è nel mondo cristiano il protettore delle messi e della fertilità (così come Demetra era la Dea protettrice dell’agricoltura, del matrimonio e delle leggi sacre).

Quando stiamo per uscire, Padre Dumitru indica uno dei costoni laterali della chiesa, sul quale è dipinta la figura, piuttosto brutta, di un serafino. Veniamo a sapere che l’ha voluta il secondo parroco della chiesa, per coprire i nomi delle persone che avevano contribuito alla costruzione dell’edificio sacro, affinché non traessero orgoglio dal loro gesto di beneficenza.

Prima di accomiatarci, il parroco ci parla della festa di San Demetrio e si premura di aggiungere che la chiesa è sempre gremita durante le funzioni religiose. Maria, che obbediva ai comandamenti del Signore e osservava inflessibilmente i riti di chiesa e i digiuni, mi aveva detto le stesse cose.

Ho sempre saputo che la terra romena è intrisa di un’antichissima e fervida religiosità; non sapevo che proprio nella regione in cui mi trovo la spiritualità del popolo si fosse sviluppata in una forma del tutto specifica.

Infatti, in Romania, e specialmente in Moldavia, il monachesimo, sin dai suoi albori, incoraggiò forme di vita cristiana radicate sulla tradizione esicasta. L’esichia è lo stato di pace interiore che si attinge entrando in intima unione col Signore; l’innata religiosità dell’animo romeno trovò in una natura generosa e incontaminata un alleato ideale per arrivare alla quiete spirituale derivante dalla comunione con l’Assoluto.

E’ così che nacquero i cosiddetti “esicasteri paesani”, piccole comunità irradiatesi intorno ai primi insediamenti di vita esicasta. Accadeva che alcuni credenti, volendo vivere nell’esichia, lasciavano i centri abitati per ritirarsi nelle radure dei boschi, o nel fondo di una valle, o sui monti. Col tempo, qualcuno dei pastori, dei contadini o dei fedeli locali si univa all’eremita, per condividerne la vita di preghiera e di quiete interiore. A poco a poco venivano costruite celle, chiesette, abitazioni, dando vita a nuove, piccole comunità, gli “esicasteri paesani”.

Il merito di queste aggregazioni nate dalla fede del popolo è incalcolabile. E’ da esse che hanno avuto origine centinaia di villaggi romeni; inoltre, gran parte dei monasteri tuttora esistenti furono edificati nei luoghi che avevano visto un primo insediamento esicasta. Ma il dato straordinario è che in Romania, a differenza di ciò che accadde nel resto del mondo cristiano, gli esicasteri paesani sopravvissero al consolidarsi e allo strutturarsi del monachesimo. In particolare, in Moldavia gli esicasteri continuarono a fungere da centri vivi e operosi anche quando accanto ad essi sorsero i grandi monasteri di Neamț (1370), Bistrița (1407), Pȃngărati (1560), e successivamente quelli di Sihastria, Secu, Agapia, Văratec; è così che la regione di Neamț rimane per secoli il più grande centro moldavo di vita esicasta.

Il privilegio spirituale di questa terra non si ferma qui. Tutti sanno che la dottrina esicasta del Monte Athos, fondata sulla preghiera del cuore (o preghiera di Gesù), fu diffusa nei Paesi slavi dal grande starets Paisij Veličkovskij (1722 – 1794), grazie soprattutto alla traduzione slavonica della Filocalia greca, il Dobrotoljubie, stampato a Mosca nell’anno 1793. Ebbene, se Paisij inizia all’Athos la conoscenza dell’esicasmo, è in terra moldava che ne troverà l’esempio vivente; ed è nei monasteri di Neamț, Secu e Dragomirna che farà rifiorire questo tesoro spirituale, creando un modello di vita monastica che avrà riflessi importanti nella stessa organizzazione delle Chiese orientali, soprattutto quella romena e quella russa.

Nel pomeriggio, mentre il sole ancora splende sereno e amichevole, le ombre cominciano a scivolare di lato, e nell’aria asciutta e odorosa di fieno ogni elemento s’intorpidisce dolcemente. Ci avviamo verso il cimitero, ultima dimora terrena di ogni abitante di Negriteşti. E’ un fazzoletto di terra perfettamente quadrato, posto sul lato sinistro della Strada Principală. Vi si arriva percorrendo un lungo viale erboso, che sale dolcemente fra giardini, orticelli e casette rurali. E’ un sentiero che profuma di piante, di essenze vegetali, di vita agreste; e il camposanto non ha l’aspetto grave di altri cimiteri, perché le tombe sono ornatissime di fiori, e fra l’una e l’altra crescono cespuglietti di erbe spontanee. Immerso in un silenzio vasto come il lontanissimo orizzonte, pieno di simboli che rimandano contemporaneamente alla vita e alla morte, il cimitero di Negritesti non intimidisce, non incute tristezza, ma accoglie, consola con parole chiare, che quasi mi sembra di udire: “Io sono l’ultima casa di questa gente. La mia terra è la stessa che hanno amato e accudito. In essa riposano in pace; il loro corpo è qui, la loro anima altrove, come hanno sempre creduto”.

La croce sotto cui giace Maria Timariu è di legno, come tutte quelle delle persone morte di recente; quando mostreranno i segni dell’usura del tempo, verranno sostituite da altre in ferro, in marmo o in granito. Le croci di Negritesti non recano scritte, solo il nome e cognome del defunto e la data di nascita e di morte. Ma parlano anch’esse; non implorano, chiedono sommessamente un pensiero, un ricordo, una preghiera. E la memoria di quando ho accompagnato Maria al Sacro Speco di Subiaco è ancora vivissima, come altri episodi della sua esistenza semplice e saggia, che il suo esempio, la croce della vita che ha portato sempre con bontà e dignità, invita a condividere.   

Maria è morta in un ospedale romano, dove l’hanno accudita amorevolmente, sino alla fine, la figlia Maria e la nipote Diana. Tre giorni dopo è stata sepolta in questo cimitero. E’ morta pregando, come aveva fatto sempre nel corso della sua vita; non ha mai ignorato che la morte è anche e soprattutto un esercizio spirituale. Maria aveva quel senso di accettazione della morte che ogni vero romeno porta nel cuore; credeva al ricongiungimento con l’anima della sua terra, con suo marito Costantin, col Signore.

Pensavo che mi sarei commosso, sulla sua tomba. Ma non succede; recito una preghiera, con parole mie, ringraziando Maria per ciò che ci ha lasciato. So perché non ho pianto: la vita, Maria l’ha vissuta pienamente, e ora, dopo la morte, il suo posto è fra i Giusti; dunque, perché piangere?

Uscendo, proprio sotto il cancello d’ingresso del cimitero, due anziane ci vengono incontro e ci domandano perché siamo qui. Quando dico che sono venuto per Maria Timariu battono le mani e sorridono. Sono le nipoti di Maria, figlie di un fratello di lei, si chiamano Areta e Zenovia. In cinque minuti ci illustrano l’intero albero genealogico della famiglia, poi ci ringraziano, si segnano più volte e ci benedicono. Quando abbraccio Zenovia, sento che il suo corpo odora di mirra. Mi stringe forte, come fossi un figlio, avverto il profumo della mirra misto a un sentore di campagna, di erba, di fiori, e vorrei ripetere il gesto più e più volte: è uno degli abbracci più intensi e toccanti che abbia mai ricevuto.

Ora possiamo andare; il piccolo corteo dei visitatori di Negriteşti si muove piano dal cimitero; ci lanciamo solo degli sguardi, carichi di emozione mista a una strana gioia interiore. O forse no, non c’è stranezza nella nostra leggerezza d’animo: abbiamo trascorso ore piacevoli e intense con Negriteşti e i suoi abitanti. Questo piccolo, meraviglioso villaggio ci ha donato storie, notizie, sorprese, e soprattutto la gioia che si prova quando accade il miracolo di ritrovare i beni di un passato che credevi perduto.

Arriva la sera. Nell’aria fattasi languida e oziosa, l’incommensurabile volta celeste pare umanizzarsi, si abbassa come per stringere in un abbraccio voluttuoso la piccola Negriteşti. Presto le tenebre si infittiscono intorno al villaggio, ma le finestre vivamente illuminate, e i tetti smaltati dal candido lucore della luna, paiono suggerire che questa terra vedrà ancora storie ed eventi, contadini e personaggi di rango, gioie e drammi, nascite e morti.

E infine, la domanda che risuonava da tempo nella mia anima con l’ansia stupefatta e gioiosa di Proust dinanzi al sapore della petite madeleine, ha avuto la sua risposta: se l’Amore mi ha condotto qui, è perché scoprissi che in questa terra ogni cosa conserva una profonda impronta umana mista a un’aura di sacralità che trascende il contingente.

L’uomo di Negriteşti, la metafisica dei colori di Negriteşti: solo delle formule, delle esagerazioni campanilistiche? No: l’uomo di Negriteşti è l’uomo conciliato da sempre con la terra, di cui sa apprezzare i tesori e contemplare la bellezza, l’uomo che trova ancora il tempo e la voglia di cantare, e per il quale non esiste divorzio tra le parole e i fatti. E’ l’uomo che riesce ad amare senza voler possedere: non si posseggono l’oro delle messi e delle icone, l’azzurro delle acque e del cielo, il rosso del fuoco e dei frutti maturi, il verde delle fronde e dei campi erbosi. Sono questi i colori di Negriteşti, che Maria Timariu ha amato per tutta la vita; e se esprimono una metafisica è perché sono i colori dell’alba del mondo, di una natura che si offriva all’uomo come una realtà e contemporaneamente come un mito, come la più bella favola che ci sia consentito non solo di raccontare, ma di vivere.

                                                                                                     

Un grazie di cuore, per il loro prezioso contributo, a Marcela Ciobanu, Alina Monica Turlea e Cristina Vasiloiu.

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