Incontro con la gente romena
Antonio BUOZZI, giornalista
Il mio rapporto con la Romania si lega, agli inizi, con le vicende dei miei genitori. La mamma si era ammalata gravemente nel 2009. Tornata a casa dall’ospedale fortemente debilitata e menomata, venne deciso di affidarla per la convalescenza a una badante. E, siccome la riabilitazione la stava facendo a Bordighera, nella Liguria di Ponente, trovammo in quei paraggi una signora romena che si chiamava Marianna e che l’aiutò per qualche settimana. Era una donna sui 45 anni, magrolina, dallo sguardo perennemente malinconico e che parlava un buon italiano segnato da una strana e insolita cadenza.
La situazione della mamma si aggravò ulteriormente dopo qualche mese, ritornata a Ivrea, in Piemonte, dove abitava. Fu così che cercammo sul posto ancora un aiuto. Entrarono e uscirono allora dalla nostra vita familiare persone diverse, per buona parte romene. E’ passato del tempo e ne ricordo ancora bene i volti anche se non i nomi. Tra queste, una ragazza separata che aveva meno di 30 anni e una figlia che viveva con l’ex marito a Istanbul. Era molto dolce e mio padre la prese a ben volere, indirizzandole spesso cortesie e compiacenze.
Da ultimo, ci raggiunse Dorina. La conobbi una mattina fredda di dicembre in un piccolo bar sotto casa. Era laureata in qualche materia umanistica, la sua famiglia era di Pitesti dove aveva vissuto con il marito Liviu e i due figli. Per motivi economici aveva scelto di lasciare tutto e partire per l’Italia. Entrammo subito in simpatia ed iniziò ad accudire la mamma insieme al papà, che nel frattempo aveva perso lucidità. Dorina aveva una situazione precaria, perché il marito viveva e lavorava a Ivrea, mentre i figli erano rimasti a casa in Romania. Il più piccolo, Fabio, era il suo cruccio. Stava con i nonni e certo aveva sofferto di questa lontananza. Si sentivano spesso al telefono o via skype, ma la testa di Dorina era sempre lì.
Finché, dopo qualche mese, decise di portare Fabio in Italia e fargli frequentare l’asilo. Fu una scelta coraggiosa e che inizialmente sembrò aiutarla a vivere più serenamente il rapporto, anche se il tempo che poteva dedicare a lui era sempre troppo poco. Il problema fu che Fabio, allora aveva 5 anni, non si ambientò all’asilo, vuoi per difficoltà di lingua, vuoi per sua timidezza. Per una strana coincidenza l’asilo era proprio sotto la casa a sei piani, dove, all’ultimo, vivevano i miei genitori. E, dall’alto, lo vedevamo spesso, isolato dagli altri bambini, tenersi stretto alla rete metallica che circondava l’asilo, quasi cercasse in quel contatto freddo un surrogato di amore e sicurezza.
Con Dorina diventammo amici. Dopo la morte della mamma andavo spesso a trovarla nel suo piccolo appartamento in una casa umida di pietra vicina al fiume che attraversa la città. Quando mi fermavo a cena, mi offrivano il vino della loro terra che mi ricordava stanamente quello che un mio zio preparava nella sua casa di campagna, non lontano da Ivrea, su una collina del Canavese: un sapore aspro, duro che richiamava la terra e la pioggia di quella campagna. Poi c’erano i cetrioli, i salami affumicati, le minestre. Fu nella primavera del 2012 che Dorina mi disse che sarebbe tornata per l’estate in Romania e che le avrebbe fatto piacere se andavo a trovarla. Accettai di buon grado, ma poco prima dell’estate lei rinunciò per motivi economici.
Nel frattempo avevo saputo da un’amica ligure che la figlia si stava facendo suora in un piccolo villaggio della Moldavia romena, nel nord del Paese, dove viveva in una comunità famiglia che ospitava oltre 30 bambini in affidamento. Decisi al volo di andarci. Butea, questo il nome del villaggio, si trova in cima a una delle tante colline che attraversano da nord a sud quella regione ventosa, non lontano dal confine con la repubblica Moldova.
Fu un’esperienza bella e intensa: sia per il calore e l’affetto di quei bambini, tra 4 e i 13-14 anni, che mi acolsero subito come fossi il loro papà. Fu questo abbraccio affettivo a colpirmi, a farmi riflettere su che cosa sia l’amore tra un genitore e un figlio o una figlia a quell’età: qualcosa di molto solido, concreto, impossibile da sostituire. Perché col tempo si dimentica che siamo fatti per vivere di amore, ma quando veniamo al mondo e per un po’ di anni ancora, l’amore è tutto, l’unica cosa che conta, necessario come l’aria o il pane, anche se di questo non ce ne rendiamo conto, perché, come l’aria e il pane, li abbiamo sempre a disposizione e tutto sembra normale.
In quella breve vacanza rimasi colpito anche dalla serenità e dall’amore delle suore, quasi tutte romene e originarie dei dintorni. Oltre a seguire i bambini, accudivano ad una quarantina di anziani nella casa di riposo annessa alla missione. Ma la loro attività era in tutto il paese. Varie volte le ho accompagnate nelle visite ad alcuni anziani che avevano bisogno di assistenza infermieristica o di altri che vivevano da soli. Erano le situazioni più drammatiche: abbandonati in una situazione di miseria e degrado. Ma mi colpiva la gioia e la tenerezza con cui le suore li accudivano, li pulivano, preparavano qualcosa per mangiare anche i giorni a venire.
La responsabile era una italiana, suor Elisabetta Barolo, che era venuta a Butea 15 anni prima e si era innamorata di quella terra. Ancora oggi è un riferimento in quel piccolo paese, di cui ha tante storie da raccontare, alcune dramamtiche e avventurose. Ripete spesso, a proposito dei bambini abbandonati o lasciati ai nonni dai genitori emigrati per lavoro, che è colpa delle miseria e che tutte le mamme vogliono bene ai loro figli e non dovrebbe mai succedere che che siano costrette a separarsi da loro per poter continuare a vivere.
Di rientro dalla Romania mi sono ripromesso di dare un po’ di visibilità sui giornali e le televisioni in Italia al problema di questi bambini, i cosiddetti “orfani bianchi”. Secondo l’Unicef sono circa 350.000, circa il 7% della popolazione tra 0 e 18 anni. Di questi si stima che siano un terzo quelli con età inferiore ai 10 anni con entrambi i genitori all’estero lasciati alle cure di nonni, parenti e amici, oppure completamente abbandonati.
Presi subito contatto con la Rai chiedendo se erano interessati a fare un servizio. Risposero di sì se procuravo io del materiale filmato. Così, a novembre di quell’anno, tornai in Romania per realizzare immagini e un po’ di interviste. Una sessione la realizzai a Iasi, nel nord est della Romania, ai confini con la Repubblia Moldova e non lontano da Butea, presso un’associazione che ospita bambini affetti da problemi neuro-psichiatrici e per buona parte provenienti dal famigerato ospedale di Popesti, vero e proprio lager ai tempi del regime di Caesescu. Questa associazione, Il Chicco, fondata da una italiana, Stefania De Cesare, è oggi gestita da una volontaria romena, Carmen Scripcaru. Qui conobbi anche una ragazza dolce e gracilina, Manuela Nistor, che mi raccontò la sua terribile esperienza dei suoi primi sette anni a Popesti, da dove fu poi fatta uscire proprio da Stefania De Cesare. Nei giorni che seguirono girai qualche intervista a Bucarest alla fondazione Parada che lavorada olte vent’anni per recuperare i bambini di strada avvicinandoli con i giochi da circo. Il servizio fu poi montato in Rai e trasmesso, altra singolare coincidenza, il giorno di Natale di quel 2012.
Da allora ho conosciuto tante romene e romeni, sia in Romania, sia in Italia, scoprendo una ricchezza di talenti e di capacità, soprattutto in campo culturale: scrittori, poeti, artisti, persone appassionate di cultura e delle tradizioni della loro terra. E a questa comunità, presente soprattutto a Milano dove vivo, sono debitore per avermi fatto conoscere e apprezzare personaggi e interpreti di una grande tradizione culturale, che da Eminescu a Eliade, da Ionesco a Cioran arriva fino ad oggi, toccando ambiti culturali diversi: poesia, teatro, narrativa, memorialistica (non posso non ricordare qui Nicu Steinhardt con la sua straordinaria opera memoriale, purtroppo semisconosciuta al pubblico italiano, Diario della felicità). Una tradizione che trova piena espressione anche negli autori contemporanei, alcuni dei quali ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere, come Bujor Nedelcovici, Micaela Ghiţescu, Stelian Țurlea, Ingrid Coman. Molti dei protagonisti di questo straordinario fermento culturale vivono oggi fuori dalla Romania e contribuiscono a far conoscere e diffondere non solo la letteratura romena, ma quel singolare rapporto tra memoria e letteratura che, da osservatore esterno, mi sembra una dei contrassegni più caratteristici della loro produzione artistica.
Jurnalistul Antonio Buozzi, un apropiat și un cunoscător al valorilor culturale și spirituale românești, care de mai mulți ani prezintă publicului cititor italian, autori, cărți ale literaturii române și participă în mod activ alături de grupul editurii Rediviva la Salonul Internațional de Carte de la Torino, Bookcity Milano și alte evenimente de gen, introduce cititorul în povestea sa, legată de primele contacte cu românii din Italia și interesul apoi de natură jurnalistică, în a da mărturie despre căldura umană pe care a descoperit-o la români, despre bogăția valorilor noastre culturale. Cel mai adesea contactul italienilor cu Țara noastră, se leagă de prezența românilor în Italia, de activitatea lor și mai cu seamă de prezența în casele lor, a femeilor care le îngrijesc copiii, bătrânii, bolnavii, a „badantelor”, un termen pentru care nu s-a găsit încă nicio traducere, fiind atât de uzual în limbajul celor care emigrează în Italia. Jurnalistul Antonio Buozzi este unul dintre aceia care a dorit să cunoască România și dincolo de a aspectul cotidian al prezenței unei badante românce în familia părinților săi, manifestându-și curiozitatea de a cunoaște mai profund România. Așa a început seria unor călătorii în România care a avut apoi ca scop, realizarea unor reportaje difuzate și la RAI 1, a unor articole legate de copiii cu părinții plecați la muncă în străinătate, „orfanni albi” cum sunt denumiți, o serie de recenzii publicate în diferite publicații italiene. Contactul cu România i’a adus jurnalistului Antonio Buozzi, cunoașterea unor asociații de italieni care se ocupă de copiii români, a unor structuri monastice destinate îngrijirii copiiilor. Locuind la Milano, autorul are posibilitatea de a cunoaște în mod direct evenimentele, manifestarile culturale românești care mărturisește că l-au îmbogățit.
(…) Așa am cunoscut – mărturisește Antonio Buozzi – multe românce, mulți români, fie în România, fie în Italia, descoperind o bogăție de talente și de resurse, mai ales în domeniul cultural: scriitori, poeți, artiști, persoane pasionate de cultură și de tradițiile Tării lor. Și acestei comunități, prezentă mai ales la Milano unde locuiesc, îi sunt dator întrucât m-a făcut să cunosc și să apreciez marea tradiție culturală românească, personalități ale culturii românești, de la Eminescu la Eliade, de la Ionescu la Cioran, ajungând până astăzi.O tradiție culturală care găsește deplina expresie și la autori contemporani, între care câțiva dintre ei am avut norocul să îi cunosc: Bujor Nedelcovici, Micalea Ghițescu, Stelian Țurela, Ingrid Coman. Mulți dintre acești protagoniști al acestei extrarodinare efervescențe culturale trăiesc astăzi în afara României, făcând cunoscut nu doar literatura
română, ci acel unic raport între memorie și literatură, care ca și observator din exterior, mi se pare unul dintre semnele distincte ale producției lor artistice.
Tratto dal volume: Andiamo in Romania, ed. Rediviva 2015
Annuario del Centro Culturale Italo Romeno