Il presente articolo propone ai lettori alcune delle idee portanti di uno studio più complesso ed articolato pubblicato nell’Annuario dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, n. 9/2007, Bucarest, Casa Editrice dell’Accademia Romena, 2008, pp. 351-380. Seguirà una seconda parte.
I legami di Claudio Magris con la cultura romena si circoscrivono ai lati cardinali della sua personalità creatrice: quello di germanista, quello di specialista della problematica mitteleuropea e, indubbiamente, quello di scrittore e saggista di apertura universale. La ricezione della complessa opera di Magris in Romania è strettamente legata alla peculiarità dello spazio culturale romeno e, per far riferimento a questo aspetto, prendiamo in considerazione il suo romanzo-saggio Danubio (Milano, Garzanti, 1986) come simbolo del proficuo incontro tra Claudio Magris e la romenità, tra italianità e romenità, tra mitteleuropeismo e romenità.
Per il significato di questo libro in relazione alla romenità, non possiamo inoltre non affermare, in senso inverso, l’importanza che ha avuto e continua ad avere ancor oggi nel far conoscere – in un itinerario fra romanzo e saggio, attraverso i luoghi visitati e interrogati – la varietà dei tratti della civiltà romena – nel contesto in cui, in conformità ai dati dell’Istituto nazionale di statistica (ISTAT), dal 2004 al presente, i romeni rappresentano la prima comunità straniera in Italia, numericamente e non soltanto, tuttavia se ne scrive ben poco, specialmente in chiave culturale. Il quadro romeno configurato in Danubio è ancor più rilevante nella sua contestualizzazione centro ed esteuropea.
Come ricordavamo in un’intervista-fiume rilasciataci dall’autore nell’agosto del 2002 e pubblicata nella versione romena sulla rivista culturale “Orizont” di Timişoara in dieci parti, Danubio ha una particolare importanza per i romeni anche perché il volume comprende, metaforicamente, gran parte della Romania. Il libro ha conosciuto, infatti, la versione romena dovuta ad Adrian Niculescu ed uscita nel 1994 presso la casa Editrice Univers.
Bisogna allora partire dalla presentazione del materiale riguardante la Romania all’interno dell’opera letteraria, come premessa del discorso sulla Mitteleuropa versus l’Europa del Sud-Est. Si deve precisare che, fra le quattro regioni storiche romene, tre fanno l’oggetto del volume: il Banato, la Transilvania e la Valacchia (manca la Moldavia, la quale non entra nel percorso danubiano), con la menzione che il Banato e la Transilvania sono trattati in un capitolo distinto intitolato Nonna Anka, mentre l’altra parte del territorio romeno, quella che sarebbe la Valacchia, compare nel capitolo intitolato Matoas.
Tra realtà e finzione, l’avvicinamento del Banato e della Transilvania nell’esposizione è di natura storico-geografica e politico-culturale, in quanto le due regioni ebbero un percorso diacronico molto simile. In ambito mitteleuropeo, l’aspetto più notevole della loro somiglianza riguarda l’uguale appartenenza all’impero absburgico, la quale portò a delle caratteristiche che le inseriscono in un’area culturalmente fertile, unica in Europa per la sua ricca trama pluripsicologica, l’area di quella categoria sovranazionale che è la cultura mitteleuropea.
Nel crogiolo del Banato romeno
La prima terra romena che si incontra nel libro è il Banato – va specificato, romeno – inquadrato nella regione più ampia del Banato storico. Fino al 1944 la popolazione del Banato (sia romeno, sia jugoslavo) costituiva una delle aree più eterogenee in Europa dal punto di vista etnico e comprendeva principalmente romeni, serbi, tedeschi e ungheresi, con altre minoranze tra cui slovacchi, ebrei, rom, bulgari, ucraini, armeni, croati, cechi.
Siccome il libro intende definire il contesto mitteleuropeo e danubiano nel confronto tra passato e presente, si nota che “con gli anni, i decenni e i secoli mutano gli statuti delle città e le cifre delle nazionalità delle regioni; il crogiolo non cessa di ribollire, amalgamare, fondere, bruciare, consumare” (Danubio, p. 348). Sottolineiamo, nel testo di Magris, la metafora del “crogiolo” che definisce in maniera suggestivo-sintetica il cosmopolitismo della zona.
In questo ambito non potevano mancare i due concetti cari allo scrittore – quello di identità, nel suo trittico fondamentale: identità individuale, collettiva e culturale – e quello di frontiera, con tutta una simbolistica che implica la necessità e allo stesso tempo la difficoltà di attraversare le frontiere, non soltanto nazionali, politiche, sociali, ma anche psicologiche, culturali, religiose. Tanti risvolti per esprimere la parola-chiave – convivenza, per intendere, con le dovute precauzioni, un possibile modello di civismo nelle società plurali, ossia un’autentica terapia delle patologie dell’identità di gruppo.
È questa l’immagine del Banato nella quale interviene la riflessione dell’autore: “Nessun popolo, nessuna cultura – come nessun individuo – sono privi di colpe storiche; rendersi impietosamente conto dei difetti e delle oscurità di tutti, e di se stessi, può essere una proficua premessa di convivenza civile e tollerante, forse più degli ottimistici attestati di lode elargiti da ogni dichiarazione politica ufficiale” (Danubio, p. 350).
Il percorso romeno comincia nel Danubio proprio da Timişoara, conosciuta anche con il nome ungherese Temesvár e quello tedesco Temeschburg. Nell’intervista alla quale abbiamo fatto riferimento all’inizio, Claudio Magris dichiara: “Il viaggio nel Suo paese è stato per me un’esperienza indimenticabile. Sono andato in Romania più volte, però la prima volta ho visto soltanto Timişoara e un pezzettino del Banato romeno e l’ho visto venendo dal Banato jugoslavo. Sono, quindi, arrivato nella parte a me più vicina, quella di Timişoara, molto legata ancora al mondo che mi è più facile decifrare. Si trattava perciò di un’entrata in qualche cosa che confermava e cambiava la mia prospettiva. Era come un po’ rientrare nell’Europa familiare, ma anche, naturalmente, in un mondo completamente diverso. È stata un’esperienza molto forte, molto diversa da quello che ha rappresentato poi la vera e propria Romania del capitolo danubiano. D’altronde, di Timişoara io ne parlo in un’altra parte perché – e questo non vuol dire che non sia romena – l’ho vissuta come appartenente a un contesto culturale diverso, con delle coordinate, con una poesia diversa, con qualche cosa di molto più centroeuropeo e meno esteuropeo (il che non vuol dire meglio), con una dimensione forse meno sensuale – parlo della mia percezione – e più alta, forte, colta, più limpida in qualche modo. Era come una chiave della Romania che però io escludo dal capitolo romeno” («Danubio», l’angoscia difensiva, Intervista di Afrodita Carmen Cionchin con Claudio Magris, pubblicata in lingua romena nella rivista “Orizont”, Timişoara, XIV anno, serie nuova, n. 11 (1442), 18 novembre 2002, pp. 16-17, parte terza).
Riguardo a tutto il Banato, siccome i più di venti gruppi etnoculturali cominciarono a stabilirvisi a partire dai secoli XI-XII, questo lungo arco di tempo corrispose ad un permanente incontro interetnico. Sia i nuovi arrivati, sia i romeni del Banato parteciparono ad un processo, non ancora concluso, di percezione, conoscenza e, in seguito, di accettazione dell’Altro. La qualità di regione marginale, di frontiera, del Banato contribuì sostanzialmente alla costruzione di quest’ambiente plurilingue e di comunicazione, al quale si aggiunse la compresenza delle confessioni – ortodossa, cattolica, riformata, luterana, mosaica e mussulmana.
In questo contesto, i conflitti etnici, anche se non vennero a mancare, si mostrarono poco significativi e contrastati dalla tolleranza e dall’apertura. Di conseguenza, l’attuale situazione del Banato potrebbe servire all’identificazione di un modello di coesistenza dei gruppi etnoculturali del territorio. All’inizio identità disgiunte, esse diventarono – in seguito ai ripetuti contatti inerenti alla vita comunitaria – delle identità ‘congiunte’, grazie ad un loro tratto peculiare: gente dal “cuore aperto”, metafora che divenne emblematica facendo carriera nella letteratura della zona.
In Banato, sostanzialmente a Timişoara, la sua capitale, a testimoniare il pluralismo ed il multiculturalismo sono gli scrittori di lingua romena, tedesca, ungherese e serba, rappresentanti delle principali comunità etniche. Infatti, tra i più importanti primati di Timişoara è quello di essere stata, già nel 1953, l’unica città europea ad avere tre teatri di stato – in romeno, ungherese e tedesco.
Da germanista, lo sguardo di Magris si sofferma soprattutto sulla comunità tedesca, in quanto Timişoara è uno dei centri dei tedeschi di Romania. Con la menzione che qui, come d’altronde in tutto il Banato, si trattava degli svevi, insediati in seguito alla grande colonizzazione promossa nel Settecento da Maria Teresa e da Giuseppe II.
Aggiungiamo un altro primato di Timişoara che risale al 1771 e riguarda l’edizione del primo giornale di Romania e nello stesso tempo del primo giornale in lingua tedesca del sud-est europeo: “Temeswarer Nachrichten”.
La Transilvania, un mosaico plurinazionale
All’interno dello stesso capitolo del libro in questione, il percorso mitteleuropeo iniziato con il Banato continua con la Transilvania o l’Ardeal – ungh. Erdély, ted. Siebenbürgen. Nello sguardo storico molto suggestivo di Magris, la Transilvania è “un mosaico plurinazionale romeno-tedesco-magiaro”. Per quanto riguarda la comunità tedesca, va precisato che, a differenza del Banato, dove ci sono gli svevi, in Transilvania abitano i sassoni.
Nel libro di Magris, la metafora del “crogiolo” che caratterizzava il Banato ricompare anche nel caso della Transilvania, nella stessa prospettiva aperta dai concetti d’identità e di frontiera. Si aggiunge inoltre l’idea dell’unità in diversità, propria degli spazi plurali: “Questo crogiolo di popoli e di dissidi favoriva anche, come accade talora nei territori misti di frontiera, la consapevolezza di un’appartenenza comune, di un’identità particolare, intessuta di contrasti ma inconfondibile in questa sua conflittuale peculiarità, propria ad ognuna delle componenti in conflitto” (Danubio, p. 370). Di conseguenza, il ‘Transsilvanismus’ allude a “una pluralità di genti, unite da questo sentimento di appartenere a una regione mista e composita” (Danubio, p. 371).
In grandi linee è questo lo spirito mitteleuropeo che il viaggiatore danubiano – autore e lettore – incontra nelle regioni romene del Banato e della Transilvania, per poi cambiare sensibilmente la prospettiva. È così che, nel libro, dopo il capitolo Nonna Anka, segue quello dedicato alla Bulgaria – Una cartografia incerta – ed il capitolo intitolato Matoas, il quale presenta ciò che l’autore aveva chiamato la Romania propriamente detta, ossia la Valacchia (in romeno Valahia o Ţara Românească).
I legami di Claudio Magris con la cultura romena (2)