Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Felicità e sofferenza nel libro “Diario della felicità” di Nicu Steinhardt

Apr 18, 2019

di Silvia CATTA

Con molta gioia abbiamo ricevuto nella nostra redazione un materiale molto interessante che tratta il libro: Diario della Felicità di N. Steinhardt, ed. Rediviva, inserito nella tesi di teologia di Silvia Catta dal titolo: Sofferenza: Esperienza di vita? Il primo capitolo della ricerca mette in discussione tre diari letterari dai quali sono emerse alcune categorie comuni che hanno contraddistinto l’esperienza degli alcuni protagonisti, snodatasi attraverso un percorso fatto di tappe non tanto cronologiche, quanto interiori, grazie alle quali l’esperienza del soffrire è diventata luogo di incontro con Dio, con i fratelli e anche con sé stessi.

Per approfondire questo argomento l’autrice ha fatto riferimento a tre opere: “Lettere sul dolore”di Emmanuel Mounier; “Diario di un dolore” di Clive Staples Lewis e “Diario della felicità”di Nicu Steinhardt.

Sofferenza. Esperienza di vita?

La sofferenza è un’esperienza che interroga l’uomo nelle sue radici più profonde, investe integralmente, in modo unico per ciascuno, ogni vita umana. É esperienza destabilizzante che pone uno scarto tra la persona e i suoi desideri e progetti, tra il suo presente e un passato bello e buono fino a quel momento custodito come base di un futuro almeno altrettanto positivo. Il dolore riguarda l’uomo di ogni tempo, scardinandone le certezze più assolute. Suscita domande sempre più profonde sino ad arrivare a colui che è considerato causa di tutto e tutti, cioè Dio. É esiguità una risposta che possa rivelare il suo ruolo, la sua responsabilità nei confronti di una realtà così difficile da accogliere.

(…) L’arricchente lettura di questi diari ha portato a costatare delle affinità tra autori così diversi sia per sensibilità sia per i contesti in cui sono vissuti: nonostante tali diversità ci sembra che essi abbiano percorso un itinerario simile nelle sue tappe fondamentali che li ha portati a vivere la necessità di accettare, assumere la propria situazione, per scoprire il valore e il potere trasformante di questo unanimemente definito mistero che è il dolore. Ecco allora che abbiamo definito quattro categorie, quali l’accettazione, il valore, il mistero e la trasformazione, che possono essere le cifre del percorso svolto dai nostri protagonisti (…).

É necessario ripetere quanto premesso nell’introduzione: i nostri protagonisti hanno potuto per tanti e svariati motivi approdare ad una sapienza del dolore attinta all’interno del loro vissuto, che resta strettamente personale.  Sia durante sia dopo l’esperienza dolorosa, scrivere aiuta a «ricostruire», come dice Beatrice Gatteschi nel Il turbante azzurro[1], a dare forma a ciò che sul momento appare disordinato e caotico[2].  Questo è ciò che ci sembra di poter ritrovare nei diari da noi presi in esame e i cui protagonisti hanno attraversato sofferenze di tipo diverso, tutte fonte di un percorso personale e spirituale fondante la loro stessa vita.

Chi sono i nostri protagonisti? Abbiamo fatto riferimento a tre opere.

Lettere sul dolore[3]  è un’antologia tratta dall’intero corpus di lettere scritte dal filosofo francese Emmanuel Mounier, (1905-1950), filosofo cattolico francese e uno dei fondatori del personalismo. Selezionate quelle inviate tra il 1928 e il 1949 a destinatari diversi, esse rivelano il porsi dell’uomo di fronte al grande enigma della sofferenza, così intrinsecamente presente nella vita umana da assumere volti diversi. Vengono affrontate e vissute, infatti, la perdita dell’amico più caro, la censura della rivista filosofica Esprit, per la quale tanto si era speso, l’incarcerazione da parte dei Tedeschi durante il governo Vichy e, culmine della riflessione e forse anche della rivelazione a proposito del dolore, la malattia della figlioletta.  Nel 1940, infatti, la piccola e tanto amata figlia Françoise si ammala, a soli sette mesi, di una grave e incurabile encefalite a causa di una vaccinazione antivaiolosa, che la porterà a una vita vegetativa fino alla morte, avvenuta sei anni dopo quella del papà.

Clive Staples Lewis (1898–1963) è l’autore del secondo libro, intitolato Diario di un dolore[4]. Lewis, saggista e romanziere inglese, figlio di un pastore protestante, si allontana dalla fede durante l’adolescenza per ritornare al cristianesimo a trentun anni. Descrive il suo percorso nell’autobiografia del 1955 Surprised by Joy, tradotto in italiano col titolo Sorpreso dalla gioia[5]. É significativo il titolo in originale perché Joy è anche la sua grande amica e poetessa Helen Joy Davidman. Con lei Lewis ha vissuto un’amicizia importante per il percorso spirituale e letterario di entrambi e che si trasforma in amore fino a unirli in matrimonio nel 1957. L’unione avviene purtroppo al capezzale della moglie, in ospedale perché gravemente malata tanto da morire pochi mesi dopo. Nel 1961 Lewis, con lo pseudonimo di N. W. Clerck, scrive la sua reazione alla malattia e conseguente morte della moglie, delineando con dolcezza e nello stesso tempo grande drammaticità la profondità e la grandezza del dolore vissuto. Molto eloquente il titolo originale dell’opera A grief observed[6].

Un altro tipo di sofferenza, ugualmente fonte di percorsi spirituali inaspettati, è quella che emerge dal Diario della felicità di Nicu Steinhardt[7] (1912-1989). Nicolae Steinhardt è un intellettuale romeno di origine ebraica, che si rifiuta di prestare giuramento al comunismo durante la dittatura della Repubblica Socialista di Romania; per tale motivo indirettamente e silenziosamente condannato a svolgere lavori umili, viene arrestato il 31 dicembre 1959, per il rifiuto di denunciare di un amico. Imprigionato nelle terribili carceri comuniste, è sottoposto a svariate torture e crudeli interrogatori, ma proprio in questi spazi sperimenta una gioia e felicità profonde e si converte al cristianesimo, facendosi clandestinamente battezzare. Beneficia del condono per reati politici e viene scarcerato dopo sei anni e mezzo di prigione; dopo qualche anno di lavori non impegnati politicamente o culturalmente (lavora come scaricatore di prodotti alimentari), segue la sua vocazione monacale e, dopo aver soggiornato a lungo nel monastero di Rohia, vi entra come monaco nel 1980 col nome di Nicu. Riprende allora la sua attività di traduttore e saggista e muore in monastero nel 1989. Il suo diario nasce dal desiderio di sistematizzare molti dei più significativi ricordi della sua evoluzione spirituale in un’opera apparentemente discontinua, perché non vi è un ordine cronologico nella successione delle pagine, stese secondo lo stile del flusso narrativo[8], con l’intento di rivelare la continuità che Steinhardt ha riconosciuto dell’agire di Dio nella sua vita. Il testo viene scritto negli anni ’70, sequestrato dalla polizia di regime, la famigerata Securitate, riscritto, tenuto nascosto e alla fine pubblicato postumo nel 1991. 

Accettazione

«Com’è difficile il compito dell’accettazione! “Accettare è sopportare” diceva Péguy[9], essere dentro perché questo duri[10], e non abbassare la schiena perché la sofferenza vi passi sopra»[11].

Proprio il riferimento alla Passione di Gesù apre le porte al pensiero di un altro autore: Nicu Steinhardt. La sua cultura enciclopedica lo fa spaziare con molta disinvoltura negli ambiti più diversi, con un certo privilegio della letteratura, della filosofia e della spiritualità. La sua mente speculativa lo porta a intuire già nel 1931 l’ineluttabilità del dolore perché il male è da sempre presente nel mondo. «É il rischio che Dio si è assunto con l’atto della creazione»[12] e che Satana ha introdotto quando «tentava l’uomo bisbigliandogli “Sarete come Dio”»[13]. Il male è originario e l’esperienza di fede vissuta non potrà che confermare tale convinzione in Nicu, che, nel 1968, riprendendo le parole del cardinal Newman, affermerà che «se esiste un Dio, dal momento che esiste un Dio significa, che la specie umana è coinvolta in una specie di sventura originaria»[14].

Proprio la teoria della creazione – e quindi di un’intenzionalità buona all’origine dell’uomo e che comprende tutto della vita, dolore compreso – fa sì che l’uomo possa non disperarsi. L’armonia così perfetta presente nel corpo umano e confermata dalle continue scoperte biologiche[15], ad esempio, è motivo di fede per l’intellettuale romeno: gli rivela la presenza di un progetto, di un disegno, in cui tutto è previsto da parte di un Dio che non è un demiurgo, un architetto lontano, ma che è Trinità buona di Persone, che per amore è all’origine della creazione e anche della redenzione, con il fine di salvare l’uomo per sempre, donandogli la felicità e la vita umano-divina. Il problema è che «noi vogliamo il monte Tabor[16] senza passare per il Golgota»[17]. L’uomo riconosce in sé l’essere fatto per il Tabor, ma fa fatica ad accettare l’ineluttabilità di qualcosa che, se da una parte ostacola il cammino, dall’altra è l’unica via possibile per arrivarvi. Tabor e Calvario sono i due momenti essenziali di un’esperienza umana matura, secondo Steinhardt, momenti che si richiamano uno nell’altro nell’arco della vita come è stato per lui nella cella 34. Questa è la cella «budello», lungo e buio tunnel, da lui definito «una variante ben riuscita di inferno scolorito»[18], e proprio qui, oltre a tante torture fisiche e psicologiche, incontra la cattiveria umana che rischia di disumanizzare i suoi destinatari e distruggere ogni germe di amore fraterno; incontra l’angoscia per l’essere abbandonato alle torture e contemporaneamente la luce della fede che lo condurrà a farsi battezzare[19].  

Il dolore

(…) Se accettare il dolore significa assumerlo nella sua dolorosa verità e ciò conduce a Dio, è perché la prova scardina l’essenza più profonda dell’uomo e chiama subito in discussione colui che, per i nostri autori, è all’origine di ogni cosa. É chiaro per tutti, attraverso percorsi di vita anche molti diversi, che Dio non vuole il dolore, bensì ne vuole liberare l’uomo; ciò non esclude, però, che una volta accettata, la prova acquista una ricchezza e quindi una positività da lasciare edificati i protagonisti e chi legge tali percorsi.

C’è innanzitutto un’utilità umana, possiamo dire antropologica. L’esperienza che viene fuori da molte delle pagine rivela un arricchimento non solo nella vita dei protagonisti, ma nel loro stesso essere. Con assoluta certezza Nicu Steinhardt afferma: «Deve essere cresciuta a dismisura la forza di amare, all’uscita dalla prigione»[20]. É come se l’incarcerazione gli avesse dato gli strumenti per formarsi interiormente o meglio essere formato sempre più conformemente al disegno di Dio. Se rimanessero ancora sentimenti quali odio, rancore, disprezzo verso il prossimo, tutto ciò che si è vissuto non sarebbe servito a niente.

In linea col proprio approccio speculativo alla vita, Steinhardt definisce due ambiti vitali dell’uomo: l’esserosfera, dove prevale l’essere e in cui l’uomo vivrà in modo assoluto nella vita eterna, e la faciosfera, legata al mondo e al fare, ma inestricabilmente connessa alla prima dato che ne è il punto di appoggio e di orientamento. Dato che, nelle prigioni rumene, una delle torture è far drammaticamente annoiare i detenuti, ne segue che vi è una prevalenza dell’essere, e in questo caso dell’essere sofferente, sul fare[21]. Ciò costringe l’uomo a lavorare su se stesso, ad ascoltarsi e guardarsi dentro, tappe fondamentali per costruirsi come persone mature. Certamente è in gioco la libertà umana e come il singolo vive ciò che deve inesorabilmente vivere. Steinhardt traduce cristianamente una frase di J.P. Sartre: «Non è importante dire: “Ecco cosa hanno fatto di me”, ma: “Ecco cosa io ho fatto di quello che di me hanno fatto gli altri”»[22]. É necessario secondo il nostro autore uscire da stessi, trascendersi per non rimanere imbrigliati nel proprio egoismo, nella propria vittimistica autocompassione: solo così la sofferenza può nobilitare e far fiorire l’umano.

(…) Il buio della prova diventa per questi autori fonte di luce. Viene alla mente una similitudine molto efficace utilizzata da Nicu Steinhardt per esprimere tale scoperta. Egli, riprendendo lo scrittore francese Leon Bloy[23], paragona dolore e gioia ai vari stati dell’atmosfera, che a seconda della luminosità presente fanno vedere o meno le stelle. Il buio permette alle stelle di essere viste mentre l’abbagliante luce del sole lo impedisce, ma le stelle rimangono comunque sempre al loro posto.

Mistero

Accettare la realtà del dolore permette di cogliere di esso una positività inaspettata e non scontata. Ciò però non riduce, abbiamo detto, la sofferenza e nemmeno risponde alle inevitabili domande che l’uomo si pone di fronte a una realtà così contraria ai suoi desideri e ai suoi progetti.  «Perché soffriamo? Perché esiste l’ingiustizia? Perché le cose non stanno come dovrebbero stare? […] Perché ci ammaliamo e dobbiamo morire? […] Perché è permesso che noi siamo crudelmente derisi? »[24] si chiede legittimamente Nicu Steinhardt nella prigione di Gherla nel 1963. Così è stato per Steinhardt, che nel testo precedente risponde alle domande con un altro interrogativo, questa volta non suo ma di san Paolo: «O uomo, chi sei tu, per contestare Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: “Perché mi hai fatto così?”. Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare?» (cfr. Rm 9,20.21). Riportando tutto a colui che è l’Origine, al Dio creatore dell’uomo e di un disegno provvidenziale su di lui, Steinhardt introduce la categoria del mistero come chiave di lettura per ciò che lo circonda. «I misteri ci circondano – egli afferma – […] La vita è un’avventura, è l’Avventura […]; è vivere la vita che ti è toccata là dove sei nato per casoe in determinate condizioni. Questo è di quanto più è legato al pericolo, all’imprevisto e al Mistero»[25]. Steinhardt si guarda attorno e vede che il primo mistero è l’uomo stesso: in prigione è circondato da guardie buone, che chiudono un occhio di fronte alle piccole trasgressioni del regolamento da parte dei detenuti o che addirittura sorridono e offrono una sigaretta, e altre crudeli, che inventano sempre nuove cattiverie contro i prigionieri già duramente provati[26]. Il fatto che ci siano delle guardie buone, però, significa che Dio trova dei suoi servi anche tra quelli che dovrebbero essere i cattivi e ciò conferma la certezza in Steinhardt dello sconfinato potere divino. Giustifica anche il credere fermamente che la vita non sia fatta solo di bianco o nero, ma ricca di sfumature misteriose. Sono certezze naturali e visibili le leggi fisiche, ma non quelle che regolano l’agire umano. Sono misteri per Steinhardt l’amore per il prossimo e il perdono; è un ancor più grande mistero l’uomo abitato dal divino.

É necessario sottolineare che Steinhardt non vuole mettere freddamente a tacere ogni domanda dell’uomo con la categoria del mistero. Egli sa bene, perché l’ha sperimentato su di sé, che è sofferenza che si aggiunge a sofferenza quella di non comprendere il dolore. É la paradossalità del cristianesimo: «ricetta della felicità e tortura insopportabile»[27], Monte Tabor e Calvario, come abbiamo detto, resurrezione e Passione insieme. Non è sufficiente affermare che Cristo ha dato un senso al nostro dolore, sconfiggendo la morte per darci la vita eterna: non basta per consolare chi in quel momento sta soffrendo. Non basta perché ciò che è in gioco è la libertà dell’uomo: accettare il dolore significa anche accettare di non capire. L’intellettuale rumeno comprende bene che in gioco è il volto di Dio, poiché l’uomo non riesce a controllarlo con definizioni troppo umane. Il realismo che contraddistingue il nostro autore lo porta a riconoscere che credere in Dio vuol dire ammettere di poterlo considerare «un nemico»[28] dell’uomo. Tale definizione ovviamente è da contestualizzare, ma è necessario secondo Steinhardt accettare che, mentre si soffre, si possa sentire Dio tale, perché non impedisce la prova. La grande scoperta è che la crudeltà non è di Dio, ma della vita, per cui l’unico rimedio è diventare cristiano e cercare di rimanerlo [perché] Cristo non è crudele. Cristo è in Sé dolcezza ed amore; la crudeltà proviene dal fatto che il cristiano deve trascorrere la sua vita in questo mondo ed in esso deve manifestare la sua condizione di cristiano, poiché Cristo non è poi così mite, cioè così debole, da togliervelo[29].

Mounier e con lui Steinhardt e Lewis scoprono un Dio vicino e compassionevole, a cui si avvicinano proprio, è il caso di dirlo, grazie al dolore. I nostri autori sperimentano che l’identità più propria di ciò che vivono è l’essere un mistero, trascendente l’uomo ma abitato, indeducibile e nello stesso tempo luogo di una presenza, via verso questa presenza che altri non è che Dio. Gustano in modo unico per ciascuno che nel buio più doloroso possono ricevere addirittura un anticipo velato di eternità. Scoprono infine che il mistero del dolore appartiene ad un mistero più grande, quello della croce di Cristo, e che solo da questo riceve riscatto e risposta.

Trasfigurazione

Riconoscere nel dolore, grazie alla fede, il mistero della presenza divina, apre il cuore dell’uomo a un dinamismo trasformante il dolore stesso. Ciò è quello che ci è sembrato di dedurre dai nostri tre scrittori.Tale è la realtà vissuta da Nicu Steinhardt durante la sua prigionia. Nella già citata cella 34 egli ha trascorso «gli anni più belli della sua vita»[31], lì «tutto, perfino il dolore, si trasforma in felicità estatica e sublime»[32]. Egli assiste in quella cella così dura al miracolo dell’amore fraterno, all’entusiasmo di anime che non si disperano di fronte alle condizioni disumane, ma condividono sogni e riflessioni, discutono su temi che riguardano tutti nell’intimo, come la fede, l’essenza dell’uomo, le differenze religiose, e cercano nell’aiuto vicendevole il rimedio alle torture fisiche e psicologiche subite. Insieme ai suoi compagni di dolore, Steinhardt percorre in modo miracoloso quella via «incantata dell’amore»[33] che gli permette di incontrare Cristo.

Ha trasformato quella sofferenza in gioia e contemporaneamente egli stesso viene trasformato. «Solo la nascita per mezzo dell’acqua e dello spirito trasforma – senza cancellarla – anche la sofferenza in felicità»[34]. Steinhardt rinasce risolvendosi ad ascoltare quel desiderio che forse lo abitava già da anni: farsi battezzare. Il 15 marzo 1960, di nascosto alle guardie carcerarie e con la complicità dei compagni di cella, posti in modo da coprire ciò che sta accadendo, è battezzato da un padre ortodosso e alla presenza di due preti greco-cattolici. Subito sentimenti di euforia, gioia e grande riconoscenza invadono il cuore del neoconvertito e illumineranno le sue giornate, aiutandolo a relativizzare le grandi o piccole ingiustizie patite e a guardare i suoi compagni con sempre maggiore amore, sempre più come fratelli. La liberazione stessa è attesa in modo diverso: è lasciato crudelmente nella sospensione, senza sapere se anche lui avrebbe beneficiato della grazia per i detenuti politici. Egli attende facendo un bilancio del suo percorso di questi anni: «Sono entrato cieco in prigione […] ed esco vedente; sono entrato viziato, coccolato, esco guarito dalle arie, dalle pretese, dalla presunzione; sono entrato scontento, esco conoscendo la felicità […]. Perciò sto in ginocchio e ringrazio Gesù Cristo»[35].

Steinhardt comprende che con Dio anche l’uomo può fare miracoli perché si «è simili a Lui» e si è abitati da Lui. Si può trasformare un tugurio e un budello in un salotto culturale, il dolore in gioia e «la meschinità in generosità, la diffidenza in allegria, l’indifferenza in bontà da  samaritano»[36]. La cella 34 diventa il suo Tabor.

Di fronte esperienze così straordinarie, capiamo allora perché sentimento che accomuna tutti e tre i nostri autori non possa che essere la gratitudine.

A conclusione del presente lavoro, possiamo costatare che le quattro categorie riscontrate nei percorsi dei tre autori del primo capitolo, Lewis, Mounier e Steinhardt, trovano consonanza nella visione biblica a proposito del dolore e hanno uno spessore teologico e antropologico che le rende adeguatamente cifre di un possibile e sicuramente desiderabile percorso esistenziale dell’uomo sofferente. Come tante volte è stato sottolineato e da diversi punti di vista, il dolore non può essere edulcorato né giustificato, ma l’indagine effettuata sembra dire che può essere orientato. Di tale possibilità ovviamente non è capace l’uomo da solo, dato che nella sua stessa fragilità è inscritta l’origine della sofferenza, ma nel legame con Dio egli può trovare sostegno, luce e riscatto di tutta quella vita che il dolore vorrebbe invece assorbire in sé: nell’abbandono, seppur drammatico, a Dio, l’uomo può giungere anche a veder trasformato in esperienza di vita e non di morte lo stesso soffrire.


[1] Il turbante azzurro è uno scambio epistolare tra Beatrice Gatteschi, responsabile di una libreria universitaria a Milano, e il suo amico e sacerdote, Roberto Maier. La donna, colpita a soli quarantun anni da un tumore al seno per cui viene operata e sottoposta a un pesante ciclo di chemioterapia, rielabora il significato di tutto ciò che ha vissuto confrontandosi con l’amico sacerdote a proposito del vero significato della vita, della sofferenza e di Dio.

[3] Mounier E., Lettere sul dolore, BUR, Milano 2011.

[4] Lewis C. S., A grief observed, Seabury, London 1961, ed.it. Diario di un dolore, Adelphi, Milano 1995.

[5] Id, Surprised by Joy, Geoffrey Bles, London 1955, ed. it. Sorpreso dalla gioia, Jaka Book, Milano 1982.

[6] Traduzione letterale: osservando un sepolcro.

[7] Steinhardt N., Jurnalul fericirii, Cluj-Napoca, Dacia 1992, ed. it. Diario della felicità, Il Mulino, Bologna 1995 ripubblicato da ed. Rediviva, Milano, 2017.

[8] Tecnica letteraria che prevede «lo scardinamento delle tradizionali categorie narrative […, per cui] i fatti emergono alla luce della coscienza individuale apparentemente senza logica o giustificazione, motivati soltanto dalla particolare condizione psicologica del personaggio», Balbis V., Cicchetti B., Dellepiane R., Letteratura italiana. Il Novecento, Signorelli, Milano 19891, 613.

[9] Il poeta francese Charles Peguy (1873-1914) è frequentemente citato dagli autori scelti e in particolare con i versi tratti dalle sue opere Le Mystère de la charité de Jeanne d’Arc (1910) e Le porche du mystère de la deuxième vertu (1911).

[10] Il corsivo presente in questo e altri passi sono sempre propri dei redattori.

[11] Mounier E., Lettere …, 87.

[12] Steinhardt N., Diario della …, 244.

[13] Ibid, 245.

[14] Ibid, 304.

[15] Il nostro autore fa riferimento alla scoperta da parte del medico H. Laborit di una molecola trasmettitrice del dolore al cervello. Ibid, 325.

[16] Dal secolo IV il monte Tabor, nella pianura di Esdrelon, è identificato con l’«alto monte» su cui Gesù condusse i discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni e fu trasfigurato (Mt 17,1-13; Mc 9,2-13; Lc 9,28-36). Gesù si rivelò nella sua divino-umanità e fu proclamato solennemente Figlio di Dio dalla voce del Padre. Il Gòlgota o «luogo del cranio» è dove fu condotto Gesù per essere crocifisso (Mt 27,33; Mc 15,22; Gv 19,17). L’uomo, immagine di Cristo, tenderebbe, secondo Steinhardt, a desiderare subito il momento glorioso della pienezza della propria umanità, senza passare prima per la necessaria sofferenza.

[17] Ibid, 271.

[18] Ibid, 54.

[19] Ibid, 345.

[20] Steinhardt N., Diario della …, 333.

[21] Ibid, 438.

[22] Ibid, 291.

[23] Leon Bloy (1846-1917), scrittore, saggista e poeta francese, convertitosi al cattolicesimo dopo essere stato un fervente anticlericale.

[24] Steinhardt N., Diario della …, 294.

[25] Steinhardt N., Diario della …, 294-295.

[26] Senza alcun motivo, ad esempio, un ufficiale di Jilava, il tenente Stefan, si metteva a sprimacciare i materassi, sprigionando così nuvole di sporcizia e insetti che rendevano l’aria irrespirabile per i detenuti che ovviamente non potevano uscire. Ibid, 297.

[27] Ibid, 357.

[28] Ibidem.

[29] Ibidem.

[30] Lewis C.S., Diario …, 78.

[31] Steinhardt N., Diario della …, 54.

[32] Ibid, 57.

[33] «Non mi sono avviato al cristianesimo […] per vie storiche, esegetiche, archelogiche, comparativistiche, non intellettualizzando, ragionando, comparando, riflettendo in modo selettivo, ma solo per la strada incantata dell’amore»; Steinhardt N., Primejdia mărturisirii, ed. it. Il pericolo delle confessioni, 1993, citato in Id., Diario della …, 16 n. 9.

[34] Ibid, 357.

[35] Ibid, 389.

[36] Ibid, 440.

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