Dentro di Ingrid Beatrice Coman
Dal giorno in cui era stato rinchiuso, Catalin aveva perso completamente la cognizione del tempo. Poteva essere passato un giorno, forse due. Non avrebbe saputo dire con certezza se il pane raffermo e l’acqua dal sapore di cloro che gli portavano a intervalli regolari fungevano da colazione, pranzo o cena.
In qualche modo, una volta varcata la soglia di quella fabbrica di dolore umano, si andava fuori dal tempo: le ore e i minuti non contavano più perché non c’era più nessuna vita da farci stare dentro.
Gli era bastato quel breve tempo passato lì per intuire le dimensioni della tragedia che si consumava in silenzio dietro ai muri alti di mattoni nudi, come nude si scoprivano le anime rinchiuse, i loro corpi rivelandosi di colpo troppo vulnerabili, incapaci di difenderli dalla mostruosità del mondo.
Già, perché i corpi sono fragili, si stancano, si spezzano, si piegano, crollano. Hanno fame, sentono freddo e provano dolore. Il corpo di un uomo è una fortezza facile da conquistare.
Se ti tolgono il cibo, l’acqua, il sonno, e ti danno in cambio la fame, la sete, le notti insonni provocate ad arte dall’incaricato a tenerti sveglio a suon di bastonate, il tuo corpo si assottiglia, si rimpicciolisce, si spegne, svanisce nel nulla e tu con lui, e non c’è credo forte abbastanza da tenerti in vita quando il tuo corpo ti abbandona. Dopo un po’ anche la tua anima comincia ad assomigliare al tuo ventre scavato, alle tue mani scheletriche e deformate dalle botte e dall’umidità, alle ginocchia che non si piegano più come prima e ai tuoi capelli diradati.
A quel punto non fà più differenza su che cos’hai messo la tua firma intanto che riuscivi ancora a tenere in mano una penna; con o senza il tuo accordo loro si saranno già presi tutto.
Tutto questo gli artigiani del dolore lo sapevano fin troppo bene ed erano diventati maestri nell’usare il loro metro truccato della dignità umana. Bastava trovare la porta giusta da buttare giù ed era fatta, quello diventava il punto di non ritorno.
Prima o poi crollano tutti, come i pezzi di un gigantesco domino fatto di corpi umani di ogni età. A uno a uno si incrinano e cadono, su se stessi e gli uni sugli altri; ognuno di loro e pronto a dichiararsi colpevole o a incolpare chiunque di qualsiasi reato mai esistito sotto il sole, pur di far smettere la macchina instancabile e diligente della tortura.
Non ci sono coraggiosi eroi né martiri, solo infinite file di uomini soli, scivolati fuori dal mondo e spariti per sempre dalla sua vista, fragili e bisognosi di conforto e calore umano come fossero dei grossi bambini mai cresciuti. E come potrebbe essere diversamente? Non siamo santi, ma comuni mortali nati per camminare su questa terra per un tempo sempre da definire, mai scontato e a volte così dannatamente breve che non basta nemmeno per farci stare dentro un abbozzo di vita; a volte ci viene tolto all’improvviso e non ce l’aspettiamo mai, come un viandante a cui viene trascinata via da sotto i piedi la strada che aveva in mente di percorrere.
Com’era facile giudicare da fuori, e quante volte in seguito avrebbe sentito personaggi comodamente sprofondati nelle loro poltrone e nella loro ignoranza, a decretare inezie e mettere etichette sul dolore altrui, gonfiando le parole come palloncini colorati e inutili. Dovevate fare questa o quest’altra cosa, difendere gli ideali, la morale, la dignità. Il dolore? Che vuoi mai che sia, basta la forza di volontà e un carattere forte per superarlo e poi meglio la morte che il tradimento.
Come sono sempre facili da spendere le parole, anche quelle che non dovrebbero mai essere pronunciate. A volte gli ideali sono come grossi tappeti sotto cui nascondere la polvere.
No, non siamo santi, ma creature di questa terra; viviamo di cose semplici: la luce di un mattino nuovo, il sole che ci scalda le ossa, l’odore di un pezzo di pane caldo, il sapore dell’acqua fresca, il tocco di un letto pulito, la voce di una donna amata. E ci è difficile venire a patti con tutti quei giorni sottratti per volere di chissà chi, come quando andiamo al mercato e ci imbrogliano sul resto da darci, ecco, i nostri giorni diventano simili agli spiccioli mai spesi, niente di più. E che fatica pensare che non vedremo più quel sole sorgere, quel campo fiorito fremere con il vento, quel viso di ragazza sorriderci o quel figlioletto respirare tranquillo nella sua culla.
No, non siamo imbattibili. Proviamo dolore, paura e solitudine e non siamo mai pronti a chiudere i nostri occhi per sempre. Abbiamo ancora tanta voglia di vivere, tanto desiderio nei nostri corpi spossati, tanti sogni sotto le nostre fronti corrugate; nei nostri genitali, puntualmente sulla lista delle parti preferite da torturare, c’è ancora la traccia dei nostri figli mai nati, che avremmo potuto seminare nei corpi delle nostre donne e che forse un giorno ci avrebbero salvato da voi e da noi stessi.
(Dal romanzo “Per chi crescono le rose?”, in corso di pubblicazione)