Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Armando Santarelli. Defascinazione cioraniana (II)

Feb 14, 2022

Emil Cioran è stato il primo letterato romeno che Armando Santarelli ha studiato e amato. Dopo aver letto l’intera opera cioraniana tradotta in italiano e gran parte degli studi dedicati al pensatore transilvano, Santarelli ci offre un contributo critico esemplare per chiarezza e onestà intellettuale. La sua ammirazione per Cioran non scade mai nell’apologia; d’altra parte, le critiche non sono mai formulate in tono estremistico. Semplicemente, l’autore si interroga su alcune questioni poste dalla produzione di Cioran, e fornisce risposte senza alcun timore di entrare in contrasto con la critica più accreditata. 

Di seguito la seconda parte

 

La tesi sinora sostenuta, ovvero l’inautenticità e un certo manierismo di parte della produzione cioraniana, trova altri riferimenti, non meno pregnanti di quelli utilizzati da chi sostiene il contrario. È noto l’amore di Cioran per Shakespeare; come egli stesso confessò a Dieter Bachmann in Der Privatnachdenker (1982): «Cosa mi affascinava di Shakespeare? Tutti i suoi eroi si spingono troppo oltre, Amleto, Macbeth, tutti. In Shakespeare ogni eroe trae dalla vita le conseguenze estreme; quando muore, è all’ultimissima stazione del suo binario. Ogni eroe in Shakespeare si spinge fino all’assoluto, e poi è finita».

Anche Cioran spinge il suo pensiero sino all’Assoluto, al punto di rottura con la vita; se sopravvive alle crisi che sperimenta è perché persino la sua apocalisse gli si presenta attraverso il filtro di uno scetticismo mordace, ironico, voluttuoso al punto da svolgere – dichiara egli stesso – «il ruolo del più efficace tranquillante». In effetti, nel momento in cui la riflessione giunge al concepimento di verità estreme, Cioran ha due sole strade da percorrere: porre fine ai propri giorni, perché la coscienza dell’impossibilità di esistere esclude il divenire; oppure accomodarsi in quel «teatro privo di senso» che è la vita, accettare la realtà facendo finta di non accettarla.

È una soluzione che sa di farsesco, e nella farsa c’è la dismisura: «Quando non si è avuta la fortuna di avere dei genitori alcoolizzati, bisogna intossicarsi tutta la vita per compensare la pesante eredità delle loro virtù» (Sillogismi dell’amarezza); «Tutte le nostre umiliazioni provengono dal fatto che non sappiamo risolverci a morire di fame» (Sommario di decomposizione); «Il diritto di sopprimere tutti quelli che ci infastidiscono dovrebbe figurare al primo posto nella costituzione della Città ideale» (La tentazione di esistere); «Non ho conosciuto una sola sensazione di pienezza, di felicità vera, senza pensare che era il momento, quello o mai più, di sparire per sempre» (La tentazione di esistere). Qui, francamente, non siamo in presenza di una sfida del nulla all’esistente, ma dell’esistente al nulla, a un nemico che non c’è; siamo oltre lo scetticismo come supremazia dell’ironia, siamo al gioco…

Fino ad ora abbiamo trattato soprattutto del Cioran aforista; il Cioran che si misura con trattazioni più ampie e impegnative non fa che confermarci nelle nostre convinzioni. In quest’ambito è giocoforza occuparsi di quello che Cioran considerava «il più filosofico dei miei libri», ovvero Al culmine della disperazione. Il saggio risale al 1933, quando il pensatore ha solo 22 anni; scritto sotto il flagello dell’insonnia, è uno spietato atto di accusa e di ripudio della vita, della storia, della conoscenza, un libro di grande disperazione, ma anche – come scrive l’autore nel preambolo – «una specie di liberazione, di esplosione salutare. Se non lo avessi scritto, certamente avrei messo fine alle mie notti».

Com’è noto, l’opera fruttò a Cioran il premio per giovani autori della Reale Accademia (condiviso con Eugen Ionescu e Constantin Noica); nonostante ciò, essa incontrò il biasimo di diversi amici e studiosi, fra i quali Septimiu Bucur, Şerban Cioculescu e lo stesso Noica, che scrisse di non riuscire a comprendere l’autore, pur non avendo pensato «neppure per un momento a porre in dubbio la sincerità del suo pensiero».

Durissima fu la critica di Nicolae Roşu, che parlò di «caso patologico, isteria intellettuale, perversione morale, lirismo dionisiaco, folle ricerca dell’originalità». E concluse: «Stiamo assistendo solo ad un imbroglio, ma che imbroglio, al punto da ingannare tanta gente disposta a credere che un nuovo Zarathustra sia apparso all’orizzonte della filosofia romena».

Il commento più amaro arrivò un paio di anni dopo la pubblicazione di Al culmine della disperazione. Lo scrittore Mihail Sebastian, molto apprezzato dal suo amico Cioran, che lo riteneva il più «saggio» fra i membri della ‘Generazione Criterion’, pronunciò questo giudizio: «Non so in che misura Cioran deliri sinceramente. È un malato, un ipocondriaco o un impostore? Il suo è un delirio di natura biologica o è solo un delirio letterario? Nel primo caso, il suo libro può essere almeno letto come un documento che rientra nella psicologia. Nel secondo caso, esso sarebbe soprattutto un esercizio di stile. Confesso di non poter dare una risposta categorica a questa domanda. Il caso Cioran è forse più complesso. Forse perché comprende anche elementi di inquietudine reale, di inquietudine organica, ma questi ultimi si complicano e si aggravano con una deformazione volontaria di atteggiamento (…) Abbiamo sempre il sentimento di trovarci coinvolti in una terribile farsa».

La scoperta, avvenuta nel 1991, delle 12 lettere indirizzate da Cioran a Bucur Ţincu nel periodo 1930-1933, non muta più di tanto il quadro sopra riportato. Nessun dubbio che le missive rivelino un sincero sentimento di sofferenza e a volte di disperazione del giovane di Răşinari. Tuttavia, non credo che possano rappresentare, come scrive Vartic nell’opera più volte citata, «una specie di certificato di autenticità per il pensiero di Cioran». Mi spiego: le lettere rappresentano sicuramente un «certificato di autenticità» del disagio esistenziale di Cioran in quegli anni giovanili, ma non possono attribuire maggior credibilità e sincerità al malessere interiore così come espresso nel saggio di cui trattiamo.

Farsa o estasi somato-lirica ingenerata dalla malattia, isteria o folle sincerità, io sono convinto che l’estremismo che contraddistingue Al culmine della disperazione, e la conseguente reazione della critica, abbiano condizionato sensibilmente la successiva produzione cioraniana. L’esordio del giovane filosofo era avvenuto nel segno di un pessimismo profondo, di una disperante sfiducia nel mondo: è la cifra letteraria che egli non abbandonerà più. Ma Cioran è troppo vigile per non accorgersi dell’impossibilità di far coincidere pensiero, scrittura e vita; nelle opere successive, pur non rinnegando la visione scettica e dissacrante, accentuerà gli elementi fatalistici, così come l’ironia e la satira.

 

Un’altra importante questione si pone all’attenzione del lettore di Cioran, e riguarda l’ontologia della scrittura, il senso stesso dell’atto di scrivere. Come enuncia chiaramente nel Taccuino di Talamanca, nella Caduta nel Tempo, nelle interviste raccolte in Un apolide metafisico e altrove, Cioran non ammette che la scrittura possa avere un valore conoscitivo. D’altra parte, la storia è solo «la dimostrazione della malvagità dell’uomo»; la filosofia, così come sviluppatasi nell’Occidente, «una serie di costruzioni fantastiche»; quanto alla letteratura, essa nasce «come una liberazione, come un’efficace attività terapeutica».

Sono concezioni che appaiono quantomeno strane in un intellettuale e scrittore, e che non piacciono, ad esempio, al nostro Cesare Cases, germanista insigne e acuto critico letterario del Novecento, il quale esprime così il suo pensiero: «Che cosa avrebbero potuto dire su Auschwitz Ceronetti o Cioran, se non ‘Sapevamcelo’? Forse avrebbero avuto una parte di ragione, ma noi su Auschwitz non avremmo saputo nulla». Chiaro il riferimento di Cases a una letteratura impegnata, volta alla scoperta di ciò che siamo (ma anche di ciò che vogliamo o non vogliamo più) in contrapposizione a uno scetticismo affabulatorio e avulso da un autentico valore conoscitivo.

L’osservazione di Cases è discutibile, perché riferita a motivazioni e intenti letterari molto diversi fra di loro; e tuttavia, se fosse stata nota a Cioran, avrebbe forse toccato un suo nervo scoperto. È risaputo, infatti, che lo scrittore romeno se la prese molto quando Albert Camus, dopo la pubblicazione del Sommario di decomposizione, commentò: «Bene, molto bello ciò che scrive, ma adesso deve entrare nel campo delle cose davvero intellettuali». Come sempre dopo aver ricevuto una critica, il fautore dell’indifferenza stoica e del distacco dalle passioni si piccò terribilmente: «L’ho trovato incredibilmente insolente. Camus aveva una cultura da provinciale, conosceva soltanto la letteratura francese. Magari il Sommario di decomposizione non sarà un buon libro, comunque si vede che è di un certo livello. E poi, questo suo modo di trattarmi come uno scolaretto!».

Cioran si vendicherà ulteriormente per quella critica, ma di sicuro Camus era in buona fede. Anche lui, come Cioran, e diversamente da Sartre, si volge inizialmente ai temi della solitudine e della morte, anche lui si chiede perché l’uomo non dovrebbe suicidarsi. Ma poi approda a un serio impegno culturale e morale; è il Camus che diventa attivista politico, che osteggia il comunismo, che si batte contro l’oppressione e il totalitarismo; il suo giudizio è perfettamente in linea con la sua idea di cultura.

Ma davvero Cioran è così lontano da qualsiasi impegno civile e sociale? Prendiamo il libro che molti critici considerano il più cioraniano di tutti, La tentazione di esistere, e soffermiamoci su uno dei capitoli più emblematici, il saggio Su una civiltà esausta. Quale ne è la tesi? La tesi è che l’Europa sia, appunto, una civiltà esausta, in rovina, incapace di porre rimedio alla sua decadenza. Distruggendo i propri idoli e i propri pregiudizi, ripudiando qualsiasi dose di vitale incoscienza, l’Europa è uscita dalla Storia, nella quale, al contrario, faranno irruzione quei popoli – come il russo – il cui spirito «aderisce ancora alla terra, al sangue, alla carne».

È plausibile – si chiede il lettore – questa triste fine per una civiltà che nel bene e nel male ha plasmato il mondo? Purtroppo, nella presunzione di riuscire a cogliere meglio i punti deboli di una società rispetto a chi ne fa parte organicamente, Cioran evita ogni approfondimento; inoltre, come è sua abitudine, non si perita di avanzare o azzardare alcun rimedio.

Ora, concesso che alla scepsi morale di ogni tempo sono connaturate le prospettive dell’inazione e del distacco, ci chiediamo: da chi arriva la diagnosi senza una possibile cura? Da un fuoriuscito dalla società? Da un senza patria? No, arriva da un figlio dell’est Europa integratosi in una Nazione avanzata dell’Occidente, uno studioso che culturalmente è cittadino europeo due volte, e che mentre si intrufola nell’antropologia, nelle epoche storiche, nelle religioni, mentre legge i filosofi, le biografie dei Grandi, i capolavori dei letterati, rimane assolutamente refrattario a definire la propria posizione nella Storia e nella società.

 

Nell’ambito della critica cioraniana, un altro tema assume una particolare importanza, ovvero la «disperata» lucidità che attraverserebbe i suoi scritti. È la lucidità presente alla coscienza che svela con tragica evidenza il processo di rottura tra lo spirito e il mondo: «Si vive soltanto per difetto di sapere. Non appena si sa, non si è più in armonia con niente»; così scrive Cioran nella Caduta nel tempo. Una volta attinta la pura lucidità – pensa il filosofo romeno – non siamo più natura, non possiamo più aderire alla vita; l’uomo si crede promotore degli avvenimenti, creatore della storia, e superficialmente lo è; in realtà, non può sfuggire al suo destino.

Vediamo che cosa hanno da dirci, sulla questione, due studiosi che la pensano in modo opposto. Una prima, interessante interpretazione ci viene offerta dallo studio Il demone della lucidità. Il ‘caso Cioran’ tra psicanalisi e filosofia, opera di Giovanni Rotiroti, docente presso l’Università «L’Orientale» di Napoli.

Intesa come lacerazione dell’io, estraneità dal tempo e dal mondo, l’angosciosa lucidità cioraniana viene fatta risalire all’insegnamento di Nae Ionescu, guida intellettuale degli universitari della cosiddetta «Generazione Criterion». È la lucidità di un folle – precisa Rotiroti – di un cattivo maestro, di un Crono che mangia i suoi figli, perché costituirà il veicolo che porterà i discepoli di Ionescu ad abbracciare le idee ultranazionaliste e antisemite della Guardia di Ferro.

Del suo professore di filosofia all’Università di Bucarest, Cioran tracciò un profilo in Nae Ionescu e il dramma della lucidità, articolo pubblicato sulla rivista Vremea nel 1937. Per Cioran, Ionescu era l’uomo «condannato alla lucidità», perché nessuno più di lui aveva insistito sulla centralità della caduta per il destino umano, sul dramma legato all’acquisizione della conoscenza e sulla conseguente necessità di ricorrere a ‘formule di equilibrio’ come Dio, Nazione, ecc.

Anche Cioran – commenta Rotiroti – procede dalla considerazione della colpa nel contesto biblico, ma ne coglie la trasformazione in un universale processo di interiorizzazione, che chiama in causa l’altro colpevole, Dio. È il Dio – continua il docente dell’Università partenopea – «che è incapace di predilezione per le sue creature e non riesce a dar conto della sproporzione tra le colpe e le sofferenze nella vita degli umani. Paradigma assiologico di Cioran, sin dagli scritti giovanili, è Giobbe, nel cui libro la sofferenza non viene affatto giustificata dalla punizione, e quindi dalla colpa. Dio e l’uomo falliscono e rimangono tragicamente sconfitti dal male immanente nella creazione. La tragedia dell’uomo è la tragedia di Dio». È questa, dunque, la lucida follia cioraniana che Rotiroti, come altri esegeti, riconduce alle precoci e dolorose esperienze della noia, dell’insonnia, degli stati depressivi che caratterizzarono gli anni giovanili dello studente transilvano.

L’attribuzione a Cioran di una lucidità estrema, quasi demoniaca, non convince invece il noto critico letterario italiano Alfonso Berardinelli. In una caustica recensione del 1985 a La tentazione di esistere, Berardinelli affronta così il tema di cui discorriamo: «In Cioran si può vedere come un certo dispotismo e feticismo dello stile, e di uno stile che cerca o finge la lucidità, non sempre vada d’accordo con la lucidità, arrivando anzi a impedirla. Le sue pagine sono una delle migliori dimostrazioni della intrinseca ottusità dello stile puro come categoria assoluta. (…) La lucidità di Cioran si trasforma così facilmente in puro stile della lucidità perché brancola su uno sterminato, artificioso spazio culturale in cui ogni elemento può essere confrontato con ogni altro, dopo essere stato ridotto a una sintetica fisiologia, morfologia o cifra morale».

I contrastanti giudizi di Berardinelli e Rotiroti rivelano, a ben vedere, una certa complementarietà. Cioran, a nostro parere, tende sempre alla lucidità, e lo stile icastico e creativo si pone come uno strumento importante della sua ricerca. Dunque, Cioran non finge la lucidità, come sostiene Berardinelli, ma manca la lucidità quando, come abbiamo già rilevato, si abbandona alla dismisura o quando, pur di fare bottino, cede a un certo trash metafisico, e la sua diventa la parodia di una lucida negazione.

 

A conclusione di queste brevi riflessioni, vorrei precisare che per chi scrive Cioran rimane uno scrittore straordinario. Mentre continuo a leggerlo con piacere e interesse, noto che oggi i piatti del romeno sono preferiti a quelli di molti letterati engagés, perché veloci e gustosi, ma anche sapidi e sazianti; a mio parere lo studio di Cioran su Tolstoj (La paura più antica, nella Caduta nel tempo) e il contributo sugli ebrei (Un popolo di solitari, nella Tentazione di esistere), non hanno rivali nella saggistica breve dedicata a questi temi.

Ciò che ho voluto sottolineare è il mio fastidio per certi abusi di Cioran, quel suo indulgere in un linguaggio idiosincratico, a muoversi dai punti cardinali della storia umana per poi dissacrarli attraverso letali dimostrazioni per assurdo. Ma la sua disillusione epidermica, non meno accentuata dello scetticismo interiore, non ha bisogno di bersagli di proporzioni bibliche; gli basta un minimo punto d’appoggio – una persona incontrata per strada, un ricordo, una frase letta su un libro, un gesto maldestro compiuto da lui stesso – per far precipitare una perversa epifania nel buco nero di un’esistenza negata ab origine. Però, ripetiamo, è sincero Cioran? È sempre stato convinto di essere fra i pochi eletti ad aver capito l’irrealtà del tutto; punta lo sguardo sul mondo e lo vede ammalato di dogmi, fedi, credenze illusorie; da qui l’ossessione di voler distruggere ciò in cui gli altri si ostinano a credere.

Ma nessuno, neppure Cioran può opporsi a quel continuo ridisegnare la vita operato dall’amore, dall’amicizia, dalla gente comune, dal pianto, dall’empatia (dote spiccata in Cioran); è la realtà negata che lo sorprende ogni giorno. Citando l’Umberto Eco del Pendolo di Foucault, «non si sfugge alla rivelazione dell’identico illudendosi di poter incontrare il diverso»; persino il diverso in se stessi, aggiungerei. Da qui la vicinanza di Cioran alla disperazione e la contemporanea pratica del riso, la noia e insieme l’ironia, l’angoscia e il motteggio, il nervosismo emotivo e la tensione mistica; sono le oscillazioni che contribuiranno a stemperare la tentazione di portare la violenza su se stesso, e che ci consegneranno il Cioran capace di grandi premure per le persone sofferenti, di una pietà intensa per tutte le creature, e di concludere il più serrato attacco al genere umano con un benevolo, insolente sorriso.

 Ringrazio la dott.ssa Octaviana Jianu per la preziosa collaborazione.

 

 

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