FOTO. Monastero di Voronet
L’ortodossia romena, l’eredità di Bisanzio
‘Bizanzio dopo Bizanzio‘. Con questa definizione lo storico Nicolae Iorga affermava la continuità culturale e religiosa tra la vecchia Bizanzio ed i principati romeni. Dopo la conquista turca di Constantinopoli avvenuta nel 1453, lo spirito e la cultura bizantina sopravvissero a nord del Danubio, dove i principi valacchi e moldavi si intitolavano autocrati, imitando il basileus, e dove l’ ortodossia continuava a fiorire, forte dell’autocefalia delle chiese orientali.
Tra tutte le Chiese dell’Oriente, quella romena è l’unica che mette insieme romanità e ortodossia, esattamente come facevano gli antichi bizantini, che chiamavano se stessi romanoi, cioè romani, nonostante parlassero il greco. I pilastri della loro cultura furono la romanità delle istituzioni e l’ ortodossia cristiana. Questo strano connubio fece nascere ciò che gli storici chiamarono l’Impero bizantino. La sua cultura sopravvisse alla rovina dello stato, così che a distanza di secoli lo spirito bizantino è vivo ancora nelle tradizioni romene e nella loro religione.
Tutti i popoli dell’ Europa Orientale sono ortodossi, ma solo i romeni parlano una lingua neo-latina e rivendicano una discendenza romana, esattamente come i romanoi di Bisanzio. Questa particolarità culturale era già presente nella seconda metà del Trecento. Il principe Mircea il Vecchio, voivoda della Valacchia ( il termine voivoda, evidenzia il terzo pilastro storico-culturale dei romeni: l’influenza slava), si intitolava dominus autocrator.
Così la simbiosi culturale a nord del Danubio era completata, il principe essendo dominus, come gli imperatori romani, autokratos, come i basilei bisantini e voivoda, come i capi militari degli slavi. La sua immagine affrescata nella chiesa monastica Cozia, da lui fondata, è la prova viva di questa identità assunta. Il principe Mircea, rappresentato in piedi, porta i simboli dei cavalieri crociati d’Occidente e i calzini color porpora con le aquile bicefale bizantine, segno distintivo del basileus d’ Oriente.
Il visitatore occidentale rimane ancora oggi incantato dalle piccole chiese affrescate disseminate su tutto il territorio romeno, dalle messe cantate seguendo i canoni religiosi decisi dai numerosi concili bisantini e che ti fanno rivivere il misticismo della chiesa primordiale fuori dalla nostra contemporaneità. Il rito ortodosso è dettato dalla Legge, nel senso più laico del termine. Il cesaro-papismo costantiniano è ancora vivo e perfettamente applicato, in quanto le regole sono state stabilite dai concili cristiani guidati dall’ imperatore, la cui volontà era Legge in quanto dominus et deus.
Nonostante tutto questo, la Chiesa romena ebbe la forza di staccarsi da certe regole considerate superate, come il calendario religioso giuliano, adottando il calendario occidentale gregoriano. Questa scelta fatta all’inizio del Novecento fu considerata blasfema da molti credenti. Secondo me, invece è solo un’ espressione dell’altra metà della nostra anima, quella latina. E’ la voglia di comunione con gli altri popoli latini, ma cattolici. Già nel Settecento una parte della chiesa ortodossa transilvana proclamò l’unione con Roma, riconoscendo il primato papale pur mantenendo il rito ortodosso, in quanto dettato dalla Legge imperiale di Costantino e quindi non negoziabile. Al di là del aspetto politico della scelta, che tratterò un’altra volta, il pragmatismo della Chiesa ortodossa romena non ha uguale tra le altre chiese d’ Oriente. E anche questo aspetto è una continuazione della vecchia Bisanzio che proclamò due volte la riunificazione con la Chiesa di Roma dopo la grande scisma. Non a caso l’unico paese ortodosso che invitò il papa a recarsi in visita ufficiale fu la Romania, in linea coerente con i suoi millenari rapporti con Roma.
Il momento di massima manifestazione di questa particolare doppia eredità culturale, romana e bisantina, è la Pasqua. La Risurrezione di Cristo è festeggiata dalla Chiesa romena insieme alle altre chiese ortodosse, nonostante abbia adottato il calendario gregoriano per le festività religiose, compreso il Natale, celebrato il 25 dicembre insieme ai cattolici e non il 7 gennaio come gli altri ortodossi.
Teodor Amarandei