Intanto, mentre la neve e il gelo rendono la situazione ancora più terribile, e in alcuni ospedali i feriti muoiono come mosche a causa di polmoniti contratte nelle gelide corsie degli ospedali, sorgono nuove difficoltà con gli alleati russi. Maria registra uno spaccato esemplare di come la guerra generi situazioni assurde e ingestibili: «I russi, giunti come salvatori, hanno contribuito ben presto ad aumentare le difficoltà. Essi arrivavano in fitte schiere, e noi eravamo felici di riceverli, perché rappresentavano la forza che avrebbe arrestato l’avanzata del nemico; grazie ad essi potevamo sperare di conservare l’ultimo pezzo del nostro territorio. E inizialmente nessuno ha pensato a quell’altro pericolo: la fame! Bisognava nutrire quelle orde sterminate, i trasporti erano lenti e insufficienti, bisognava quindi fare affidamento su tutto quello che si poteva comprare. Essi erano provvisti di molto denaro e di un formidabile appetito; e i contadini, senza pensare che in breve il denaro non avrebbe più avuto alcun valore, perché non ci sarebbe stato più nulla da comprare, davano tutto quello che avevano, senza riserve».
Ma le preoccupazioni relative all’atteggiamento della Russia non riguardano tanto il suo esercito, quanto l’assetto sociale e politico della Nazione. L’8 e il 9 marzo 1917 (23 e 24 febbraio secondo il calendario ortodosso), le dimostrazioni di piazza a San Pietroburgo segnano l’inizio della rivoluzione. Maria, in ansia per le sorti della sorella Ducky, che vive in Russia, e dell’alleanza che vede unito l’esercito romeno con quello russo, non ha dubbi nell’indicare il responsabile di quanto accade: l’imperatrice Alessandra, consorte dello zar Nicola II. «È lei», scrive, «che col suo fanatismo ha provocato questa crisi, lei che dava ascolto solo a Rasputin, che si era allontanata a poco a poco dagli altri membri della famiglia e infine anche dalla società, isolandosi completamente tanto quando era a Carskoe Selo quanto in Crimea, lasciandosi avvicinare solo da gente sconosciuta, che aveva sul suo spirito un’influenza disastrosa e che essa imponeva all’imperatore!»
Forse Maria pecca di superficialità in questo giudizio; ma indubbiamente il suo comportamento verso la Nazione sulla quale regna continua a essere di tutt’altro tenore rispetto a quello di altri sovrani. Ormai viene chiamata ovunque la situazione si faccia disperata; fra le esperienze più dolorose, la regina ricorda il triage della stazione di Iaşi, dove i soldati sono trasportati dalle varie regioni del Paese: «Come al solito, venne invocato il mio aiuto, perché se là dentro le malattie infettive avessero preso piede, l’intera città di Iaşi si sarebbe trovata in grande pericolo. Girai attraverso una fila di oscure baracche di legno, dove i malati e i morenti giacevano alla rinfusa sul pavimento, e dovetti spesso scavalcare dei cadaveri per avvicinarmi a coloro che mi tendevano le mani. Non esagero se dico che erano letteralmente coperti di pidocchi dalla testa ai piedi!”
Nel buio di una tale tragedia, lo splendore che promana da angeli in sembianze umane: la buffa, allegra e onnipresente Suora Pucci; il dottor Clunet, che darà la vita per combattere la terribile epidemia di tifo; i fratelli Fitzwilliam della Croce Rossa britannica, giganteschi nelle proporzioni come nell’assistenza che prodigano; il medico francese Ferreyrolles, che a Paşcani ha lottato da solo contro il tifo; l’armena Nevruze Khan, che nella sua casa di Roman offre un’ospitalità materna al personale sanitario. Ma è Maria l’anima del movimento di cura e assistenza: deponendo le vesti regali e assumendo compiti organizzativi e di assistenza diretta abolisce qualsiasi distanza tra sé e la gente.
Nonostante la vastità e le difficoltà dell’opera di soccorso, l’Organizzazione che ha messo in piedi registra progressi continui: a Oneşti, dove era stato eretto il primo ospedale “Regina Maria”, la sovrana viene accolta con tutti gli onori possibili dalle truppe romene, russe e francesi. Recandosi al vicino convento di Caşin, Maria riceve l’omaggio delle suore e dei contadini locali, avanzando in processione sino al portale del monastero; rimarrà una delle esperienze più commoventi dell’intero periodo di guerra. Solo qualche giorno dopo, la regina apprende di un lontano villaggio che ha gran bisogno d’aiuto; queste le sue parole: «Vi trovai la miseria più nera. Non avevano letteralmente niente! Un ospedale era stato sistemato nella scuola, che fungeva anche da teatro, e i morenti (macabra ironia) erano stati riuniti sul palcoscenico. (…) Mi recai anche a visitare una famiglia nella quale il marito e la moglie malati di tifo erano coricati in un unico letto coi loro figli in una camera grande come un armadio…».
Eppure, il muro della dura realtà comincia a mostrare crepe attraverso le quali si intravvedono spiragli di luce. Nel giugno 1917 giurano le truppe di Transilvania liberate dai russi, contro i quali avevano combattuto sotto la bandiera austro-ungarica; a luglio e ad agosto arrivano i successi dell’azione offensiva di Mărăşti e di quelle difensive a Mărăşeşti e Oituz.
Mentre fervono i combattimenti, la sovrana trascorre intere giornate nell’ospedale di Coţofăneşti, centro dell’attività dell’Organizzazione “Regina Maria”; da lì si reca negli altri presidi di ricovero della vallata e raggiunge anche le truppe che combattono nelle trincee. Ormai le vicende dei soldati sono le sue; è come se li tenesse in vita con i suoi gesti, le sue parole, la sua abnegazione. All’indomita combattente bisogna aggiungere la figura materna in cui è ormai compenetrata; due brani, entrambi riguardanti dei bambini, sono lì a dimostrarlo. Ecco il primo: «In una delle corsie trovai un bimbo di quattro anni circa che era stato ferito alla testa; il padre è soldato, ma la madre probabilmente deve essere rimasta uccisa quando il bimbo fu ferito, perché nessuno è venuto a reclamarlo. Ha tutta la testa bendata e giace nel suo letto in mezzo a tante persone adulte, piccolo atomo umano. Rispose con aria solenne a tutte le mie domande e io dissi ai dottori che non appena sarebbe stato possibile trasportarlo mi sarei occupata di lui».
Nel secondo, Maria racconta del generale Steinbock della Croce Rossa russa, il quale, insieme a un’infermiera e a un cosacco, intende affidarle un piccolo orfano che era stato trovato in un bosco. Il cosacco, «vero tipo del soldato russo benpensante di un tempo», vuole consegnare personalmente il bambino, oltre a millecinquecento franchi raccolti per lui. L’orfanello è disperato per doversi separare dal suo amico e protettore, ma Maria garantisce che si incaricherà personalmente della sua cura, promessa che, come per l’altro bambino, manterrà puntualmente.
A dispetto dei progressi fatti registrare dall’esercito romeno, gli eventi in atto nella Russia volgono chiaramente a sfavore della Romania. Infatti, Lenin annuncia di voler arrivare a una pace; il venir meno dell’alleato costituirebbe un serio ostacolo alla prosecuzione della guerra. Quando il governo bolscevico firma l’armistizio, Maria rimane fra i pochi a sostenere la resistenza a oltranza; intanto, partecipa al soccorso della popolazione vicina alla linea del fuoco, va a controllare la distribuzione del pane ai poveri della città di Iaşi, inaugura un posto di ristoro nel triage della stazione.
Nietzsche, in Aurora, opera pubblicata sei anni dopo la nascita di Maria, aveva messo in evidenza l’importanza, per il mondo aristocratico, di tenere desta l’aspirazione alla nobiltà delle sue azioni: «Questa incontestabile fortuna della civiltà aristocratica, che si edifica sul sentimento della superiorità, comincia adesso a salire su un gradino ancora più elevato, giacché ormai, grazie a tutti gli spiriti liberi, è permesso e non è più oltraggioso per il nobile di nascita e d’educazione accedere all’ordine della conoscenza e riportarne consacrazioni più spirituali, apprendere servizi cavallereschi più elevati di quelli appresi sino ad oggi». È un brano che si adatta perfettamente allo spirito di Maria di Romania: invero, la sovrana che appunta una medaglia sul petto di un soldato morto, che si preoccupa di tenere in ordine il cimitero militare posto sulle rive del fiume Trotuş, che scrive la Preghiera di una Regina chiedendo a Dio di aiutarla affinché in punto di morte nessuno possa chiamarsi suo nemico, occupa un posto del tutto privilegiato nella storia dell’aristocrazia di ogni tempo.
Il 27 dicembre 1917/9 gennaio 1918, Maria e Ferdinando festeggiano le nozze d’argento. Nel corso del ricevimento, il principe Ştirbey, ricordando le parole di re Carlo I, quando auspicava che la giovane sposa diventasse il perno della Nazione, afferma che essa aveva in effetti corrisposto alle aspettative del Paese. È dunque con pieno merito che la regina riceve la Virtutea Militară di prima classe (onorificenza concessa ai soldati più valorosi) per il coraggio dimostrato nell’assistenza e nel supporto alle truppe combattenti.
Agli inizi del febbraio 1918 i tedeschi inviano un ultimatum; Brătianu si dimette, e il re Ferdinando nomina il generale Averescu nuovo capo di Gabinetto. Una fiammella di speranza si accende nell’animo di Maria, le cui idee hanno spesso concordato con quelle del grande generale. Ma le cose vanno diversamente; con enorme delusione della regina, Averescu induce il governo ad accondiscendere alle trattative di pace, che tali non sono per Maria: «Non è una pace, è un’occupazione nemica, una morte vivente, uno strangolamento». Il pensiero della sovrana, rimasta quasi sola, è quanto mai risoluto e dignitoso: non è soltanto da vincitori che si diventa fieri di sé; lo si diventa anche quando, nella cattiva sorte, si continua a combattere, e persino nella sconfitta, se si è mantenuto l’onore.
Il 1°/14 febbraio 1918, Averescu chiede alla regina un’udienza, nell’intento di convincerla dell’opportunità di una resa. Quando il generale confessa di non comprendere il punto di vista di Maria, questa gli ricorda di essere inglese, una “razza” che non può cedere, che non si dà mai per vinta. Va allo stesso modo con Ferdinando, un paio di settimane più tardi; Maria è durissima, è come se per lei parlasse «quel sangue di avi ignorati» che le impedisce di abbassare la testa e accettare condizioni che non condivide: «Se dobbiamo morire, moriamo almeno con la testa alta, senza compiere un gesto che macchierebbe la nostra anima: quello di firmare la nostra sentenza di morte. Moriamo protestando, gridando al mondo intero la nostra indignazione per l’infamia che vorrebbero farci commettere!». C’è una tale forza in brani come questo che si ha l’impressione che l’autrice stia scrivendo non per registrare dei fatti, ma per spingere il Governo e l’intera Nazione verso la meta che lei sola continua incrollabilmente ad inseguire.
Intanto, nulla sembra poter mutare il corso degli eventi, tanto che le Forze Alleate ricevono l’ordine di lasciare la Romania. Entro il 24 febbraio/9 marzo, i militari con i quali Maria ha condiviso sacrifici, entusiasmi, gioie, sconfitte, prendono congedo dalla lottatrice, e insieme donna di carità, che hanno imparato ad apprezzare e ad amare.
Ritenendo che un gabinetto presieduto dai conservatori, in migliori rapporti con Berlino e Vienna, possa ottenere condizioni di pace più favorevoli, il re sostituisce il generale Averescu con Alexandru Marghiloman. Anche questi tenta di piegare la regina alle sue ragioni: spiega che essendo impossibile dubitare della vittoria dei tedeschi, è preferibile trattarli come amici piuttosto che come rivali. Ma un politico prudente come Marghiloman non può nulla contro chi scrive così: «Sono una di coloro che per una causa vincono o muoiono. (…) Non provavo la minima amarezza contro i miei nemici quando erano degli avversari leali e forti, ma ora che ci vogliono obbligare a una pace così ignominiosa mi sento profondamente e irreconciliabilmente ostile a loro».
Dopo aver partecipato a una solenne rivista militare a Comăneşti, la regina, insieme al valoroso e fedele generale Văitoianu, sale in montagna per una ricognizione delle trincee e delle posizioni dell’ex fronte. È mortalmente triste, e il suo commento amarissimo: «Ovunque, piccole tombe senza nome, sparse qua e là sui campi di battaglia, nella solitudine eterna di fronte all’imponente vista delle vette montane. E là dove era stato sparso tanto sangue crescevano a ciuffi le viole; pareva che avessero scelto per fiorire proprio il posto dove tanti giovani erano morti».
L’afflizione e la sfiducia nei nuovi governanti non le impedisce di continuare la formidabile opera di aiuto alla popolazione, spesso coadiuvata dalle figlie Elisabetta, Maria e la piccola Ileana. Il 27 marzo/9 aprile trascorre la giornata girando di villaggio in villaggio; in alcuni non trova che macerie, contadini rassegnati, donne e bambini affamati e malati. In quella cupa atmosfera, arriva però un’ottima notizia: la Bessarabia si è dichiarata unita alla Romania. L’evento viene celebrato il 30 marzo/13 aprile con un solenne Te Deum, seguito da un pranzo con i rappresentanti bessarabi presenti a Iaşi. Maria nota la semplicità e la spontaneità di quelle persone; uno di essi chiede di poter tenere un discorso dal balcone della residenza del re, e poi invita i figli di Ferdinando e Maria a danzare la hora; il re acconsente, e due delle sue figlie, accolte da acclamazioni entusiaste, partecipano alla celebre danza nazionale.
A Coţofăneşti, intanto, è stata ricostruita la casetta in legno dove Maria ama trasferirsi quando si allontana da Iaşi. La regina passa la domenica di Pasqua del 22 aprile/5 maggio 1918 tra i contadini di diversi villaggi. A metà giugno è di nuovo lì, nell’«asilo di pace e di riposo» con le porte che si aprono direttamente sul bosco. Vagando nelle campagne circostanti, Maria visita il piccolo monastero di Muşunoaiele, «nascosto tra faggi secolari, nel cuore della foresta, con la sua antica chiesetta in legno e il suo monaco solitario». Scopre poi, in una vallata, il convento di Bogdana; contornato da una natura meravigliosa, ha una chiesetta in pietra circondata da alte mura; il suo incanto conferma Maria nell’amore per la bellezza, la pace, la tranquillità che promana dai piccoli e incantevoli monasteri romeni.
Tornata a Coţofăneşti, la regina realizza che le è impossibile godere di un vero riposo, perché ormai in quei luoghi è di casa, e non sono pochi i contadini che si rivolgono a lei per aiuti. Quando i bisognosi si moltiplicano, il suo fedelissimo aiutante di campo, generale Ernest Ballif, si procura un’enorme pentola, nella quale Maria fa preparare ogni giorno una minestra nutriente per i più poveri e affamati, che arrivano muniti di scodelle e cucchiai di legno. Un altro felice soggiorno ha per meta Bicaz, dove tutto è grazioso: la vallata, i villaggi, i monasteri, le vecchie chiese; i contadini amano indossare i loro antichi costumi, si esprimono in modo delizioso e poetico, e seguono la regina dappertutto. In un “hochplateau” (altopiano) dal quale prati smaglianti digradano verso il fiume, e sullo sfondo si stagliano i picchi del Ceahlău, Maria scopre il luogo ideale per costruire il rifugio dei suoi sogni, «la bianca casa dall’aspetto conventuale» dove vorrebbe trascorrere la vecchiaia; è un desiderio che conferma quanto armoniosamente la spiritualità romena si fosse saldata con l’impronta britannica.
Addolorata per la “crudele tragedia” che colpisce la famiglia fra il 2 e il 15 settembre 1918 (è il matrimonio clandestino tra il primogenito Carlo e “Zizi” Lambrino, celebrato in terra ucraina e disapprovato dai reali romeni), Maria si rincuora con le notizie provenienti dai fronti di guerra, che vedono le forze dell’Intesa avanzare ovunque. Il rivolgimento è clamoroso: l’Austria abbandona la Germania e propone una pace separata, la Turchia si arrende, l’Ungheria si costituisce in repubblica, l’imperatore Guglielmo II abdica e fugge in Olanda; poco dopo, gli Alleati attraversano il Danubio, e il traguardo della Grande Romania non appare più un sogno. Il 29 ottobre/11 novembre 1918 Maria arriva a Iaşi, e dopo essere stata omaggiata col titolo di “Angelo Custode del grande Sogno Nazionale” riceve dall’ambasciatore di Francia Charles de Beaupoil, conte di Saint-Aulaire, la Croix de Guerre, per essere stata «una coraggiosa regina, un’amica forte, indomita e leale tanto nell’ora della sventura quanto nell’ora del trionfo».
Mentre la Germania si sfalda, e l’esercito romeno torna a mobilitarsi, le deputazioni della Transilvania e della Bucovina arrivano a Iaşi per dichiarare l’unione con la Romania. In quei giorni di euforia, Maria scrive parole nobilissime: «E poi, il raggiungimento dei nostri ideali implicava la caduta e la rovina di così tanti altri popoli che a questo pensiero, col mio carattere, non potevo fare a meno di rabbrividire. Affinché il nostro sogno di unità potesse compiersi era stato necessario che si accumulassero rovine su rovine, e io mi sentivo sbigottita dinanzi ai decreti del fato. (…). E quali sacrifici, quali stragi, quanti morti! E assai più tragiche delle tombe dei vittoriosi erano ora le tombe dei vinti! Anch’essi avevano lottato furiosamente, coraggiosamente, disperatamente, ma invano! Il pensiero di tutte queste vite gettate via inutilmente è per me un tormento e rattrista l’ora del trionfo».
È anche giunto, però, il tempo di godere dell’insperata e bramata vittoria. Il 1° dicembre è il giorno fissato per il rientro a Bucarest della coppia reale. Nel tripudio della popolazione, con le truppe inglesi, francesi e romene schierate lungo il percorso, Ferdinando e Maria percorrono solennemente la Şoseaua Kiseleff, poi Calea Victoriei, per partecipare infine a una funzione religiosa nella chiesa metropolitana. «La città», scrive Maria, «sembrava letteralmente impazzita. Pareva che anche le case e i marciapiedi applaudissero insieme alla folla». Ma persino in quel giorno trionfale il dolore si insinua nell’animo di Maria: nel palazzo di Cotroceni c’è la tomba di Mircea, e la regina si abbandona al pianto per il suo piccolo e per tutti coloro che sono stati sottratti prematuramente alla vita.
È una chiusura mesta e umile per la Storia della mia vita, in contrasto con quanto si legge in pagine nelle quali l’autrice è stata sempre al centro della narrazione, rischiando talvolta di diventare più importante degli eventi rappresentati. Ma tant’è: Maria, cui interessava la realtà, sembra aver fatto suo il proposito di Montaigne: «Voglio che le cose si impongano, riempiendo a tal punto i pensieri del lettore da fargli persino dimenticare le parole». E le cose sono i fatti concreti che Maria riporta, le realtà che ha toccato con mano, e le azioni che metterà in atto dopo la conclusione della Grande Guerra. Com’è noto, l’impegno della regina Maria continuerà con l’attiva partecipazione alla Conferenza di Pace di Parigi, dove svolgerà un ruolo importante per il riconoscimento internazionale dei confini della Nazione romena.
Appassionata, indomabile, irregolare ma meravigliosamente coraggiosa e pragmatica: così sarà ricordata Maria di Romania. La Storia della mia vita è l’opera di una principessa che non è quella delle favole, e che una volta diventata regina non vive felice e contenta, ma affronta prove quanto mai difficili e dolorose. Le supererà tutte, contribuendo alla formazione e alla crescita di un Paese che non era il suo e dove era arrivata quasi per caso, ma nel quale assurgerà al meritato onore di Madre della Nazione.