postafazione, Mia Lecomte
Ho conosciuto Mihai Mircea Butcovan grazie e attraverso la sua poesia. Qualche anno fa mi arrivò per le mani la sua raccolta inedita Dal Comunismo al Consumismo, che trovai subito di grande interesse per la voce originale che la contraddistingueva e per quella pietas tenera e ironica, di cui erano impregnate le parole e i silenzi, che distribuiva senza presunzione il suo perdono ai protagonisti della storia, insieme privata e collettiva, a tutti noi, sparpagliati geograficamente nel tempo. Perché proprio il passaggio “dal Comunismo al Consumismo”, vissuto da Butcovan in prima persona – con il ricordo della madre morta durante l’infanzia, e del saggio padre, delle giornate scandite dai ritmi della campagna, del regime di Ceausescu e della sua caduta, del proprio travaso nell’incessante flusso migratorio che ha caratterizzato gli ultimi decenni del secolo appena concluso, e l’attuale – in quei versi diventava di tutti, patrimonio della comune umanità, e nappartenercisi smascherava, veniva spogliato di ogni ipocrisia, come accade ai pensieri di una certa ora della notte, quando tutto si fa incredibilmente chiaro, spietato, e solo alla fine riusciamo a riaddormentarci con un brivido consolatorio.
C’erano versi tanto netti che lasciavano il segno proprio per la loro impermeabilità a compromessi, a scorciatoie nella coscienza del nostro maldestro incedere nella storia: “…mano nella mano / andiamo in piazza / a raccogliere pallottole / per definire la libertà…”; “…Imbecille, / il nemico è già in casa / e ti ordina/ di aver paura”; “Di notte / uccidete l’uomo / che vuole essere /… / e finalmente / potrete uccidere / alla luce del giorno”; “…Una sola volta sparai / Per liberare un uccello”;
“Accendi candele / all’alba / di un funerale // E se piovesse?”; “…Le bombe incontenibili / La libertà svenduta / E un che di silenzi”; “…ma fino al Verbo / sulle scale di cenere / saliranno / soltanto / ombre”; “…Oh, Gesù / salvami / dalle offerte / per il portone / della chiesa”; “…Inchiodi la prigione / Delle parole buone / E dici che non sanno / Quello che dicono e fanno / Perdonali se vuoi / Ma sono fatti tuoi”; “…sempre che il Gral sia / oltre che santo anche reale // foss’anche vero / è sempre uno solo”. Si riconoscevano i frutti di un realismo antropologico di matrice cristiana, cattolica, che Butcovan ha assorbito nell’ educazione dell’infanzia, e poi negli anni di studio in seminario, rinnovato però dalla maturità di chi sa, per istinto ed esperienza, che le debolezze dell’uomo sono le stesse di ogni dio incarnato a sua misura.
Le poesie di Dal Comunismo al Consumismo sono state raccolte in un volumetto – che mi auguro conoscerà ulteriori pubblicazioni – che tengo ora fra le mani. In copertina l’immagine di un bambino serio, in giacca e cravatta, tra le braccia amorevoli del padre, accompagnata dal monito firmato “papà Gheorghe”: “Mihai, se non puoi dire quello che pensi, almeno evita di pensare cazzate…”.
Lo spirito di questa raccomandazione mi ha subito strizzato l’occhio alla prima scorsa dell’Allunaggio di un immigrato innamorato. Erano giorni che leggevo testi, rigorosamente anonimi, in veste di giurato di un concorso nazionale di narrativa della migrazione in italiano (concorso di cui l’Allunaggio è poi risultato vincitore), quando mi sono imbattutta nella storia d’amore tra il poeta immigrato e la camerierina leghista.
Non avevo incontrato di persona Butcovan, non ero neanche ancora riuscita a entrare in contatto con lui, ma dall’intonazione delle prime pagine ho subito riconosciuto la sua voce, il suo sguardo. E cosa c’è di più importante per uno scrit-tore, un poeta, che l’identificabilità del tono del suo vedere, del calco inconfondibile della sua anima?
E poi, proseguendo nella lettura, ho ritrovato tutto: temi e sentimenti, vezzi e pudori, il ritmo, e quei lampi epigrammatici che si accendono proprio quando il coinvol-gimento emotivo sembra avere la meglio. C’è la Romania, memoria e caos, puntellati dalle parole giuste di poche figure di riferimento; c’è l’Italia, Milano e la Lombardia, dal punto di vista ovviamente e fortunatamente straniato di chi ha vissuto follie opposte a quelle capitalistiche, e decide di raccontarci il resto nella nostra lingua; c’è l’amore, esilarante nella sua assurdità, e nella sua realtà, perché è veramente dei nostri giorni e, ci assicura l’autore, è avvenuto davvero. E c’è l’autore, che nella pirotecnica pagina d’apertura del romanzo trova queste metafore, messe rigorosa-mente “in ordine alfabetico” in bocca alla fidanzata delusa, per definire se stesso: “Amante sillogistico, barbone da promemoria tributario, bodyguard con un solo pallino… quello degli studi filosofici, corvo dell’interculturalità, dandy senza pa-tente, fidanzato da Oktober Fest, iena bibliotecaria, marxista sessuomane, palestrato d’osteria, parassita fotocopiatore, poeta da corte marziale, pseudocomunista che sputa nel proprio encefalogramma, robocop del terzo mondo, romeno da carodiario, rubacuori con la chiave inglese, seminarista viziato e vescovo mancato, terrone romeno di radici neolatine, transilvano da crociera, vampiro birraiolo…”.
Il Butcovan che ho imparato a intuire nei nostri incontri a distanza è anche qui, in queste definizioni, in realtà serissime, che si ritrovano a più livelli nelle sue parole letterarie, nei vari ruoli che assegna a se stesso “l’osservatore romeno” armato di taccuino: “È presto dire com’è andata la giornata quando sei a pranzo. A meno che tu non sia morto in mattinata”; “Le scrivo sul palmo della mano… Mi guarda come se fossi il treno che aspettava dopo uno sciopero di ventiquattro ore, si accarezza la mano e dice: ‘Ci metto sopra il Domopak’”; “Una macchina nera accosta vicino a me. Il finestrino del posto guida si abbassa e un autista in divisa mi chiede: ‘Scusi, cosa ci vuole per arrivare al cimitero?’. ‘Una vita…’ rispondo con voce spenta e mi dirigo verso la chiesa del centro”; “Ma la maggior parte delle persone persevera nell’errore… se quest’ultimo ha prodotto orgasmo”; “Solo tu, madrelingua, puoi avere il coraggio e la pretesa di pareggiare Foscolo… Io, Eminescu e Cioran li rispet-to e li leggo, non li invidio. Le mie poesie in italiano sono cagate? Tu vai in Romania, capisci più di quello che vedi e poi torna a raccontarmi tutto… in rome-no”; “Che cosa mancava alla nostra storia? Più di una data. E questo diario è meno volgare della vita che tocca a più di un migrante…”.
Giochi di parole, calembours, aforismi, tutte le libertà concesse dall’avventura di impadronirsi di una nuova lingua, dal piacere di farla veramente propria, di possederla sempre più in profondità, ma sorrette da una ragion d’essere, da una consapevolezza etica che sa fare della vertigine a capo riverso sull’altalena il moto oscillatorio di una crescita progressiva, umana e testuale.
E alla fine Mihai Butcovan sono riuscita fisicamente a incontrarlo. È stato in occasione di un convegno a Trento che ci vedeva entrambi relatori. E ancora una volta l’ho riconosciuto, immediatamente, nella hall dell’albergo, appena uscita dall’ascensore. La stessa voce, eccola lì, e lo stesso sguardo, tutto riassunto in quei grandi occhi neri dalle lunghe ciglia, gli occhioni appena malinconici del bambino sulla copertina, che crescendo ha vissuto quanto è diligentemente raccontato nel XLVII capitolo dell’Allunaggio, e altro ancora, che ha avuto il coraggio di crescere senza dimenticare mai: “Diceva Iulian: Non lanciare molotov, Mihai, non lanciare pietre contro la polizia. L’ho fatto io anche per te. Impara ad amare, ama e insegna ad amare”.
© Mia Lecomte