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Afrodita Carmen CIONCHIN
Università di Padova
Il presente articolo propone ai lettori alcune delle idee portanti di uno studio più complesso ed articolato pubblicato nell’ANNUARIO dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, n. 9/2007, Bucarest, Casa Editrice dell’Accademia Romena, 2008, pp. 351-380. La prima parte è stata già pubblicata su questo sito.
«Danubio» (2)
Valacchia, la civiltà romena tradizionale
Dopo lo spirito mitteleuropeo che il viaggiatore danubiano – autore e lettore – incontra nelle regioni romene del Banato e della Transilvania, la prospettiva cambia sensibilmente. È così che, nel libro, dopo il capitolo Nonna Anka, seguono quello dedicato alla Bulgaria – Una cartografia incerta – ed il capitolo intitolato Matoas, il quale presenta ciò che l’autore aveva chiamato la Romania propriamente detta, ossia la Valacchia (in romeno Valahia o Ţara Românească), regione della Romania meridionale tra il Danubio e i Carpazi Meridionali (le Alpi Transilvaniche). Qui siamo nella zona dello spirito balcanico, dell’antica e ininterrotta “comunità carpato-balcanica”. Gli elementi definitori per qualsiasi Paese europeo – lo spirito greco, la dominazione romana ed il cristianesimo – si ritrovano, in un’alchimia specifica, anche in questa area di radiazione latino-greco-slava, impregnata dalla romanità ereditata sotto la “forma universale” – come si esprimeva il grande storico romeno Nicolae Iorga – del millennio bizantino, nonché dal modello cristiano in chiave prevalentemente ortodossa. Le coordinate sopra indicate dimostrano la classicità costitutiva di ciò che fu chiamato “romanità orientale”.
In questo contesto, la capitale si svela al nostro scrittore in tutta la sua complessità. Il quadro letterario della Bucarest di Claudio Magris – che comincia con il sottocapitolo Dèi e frittelle – riesce infatti a configurare l’identità urbana della zona storica e la peculiarità che risulta dalla sovrapposizione di tre strati diversi con valore paradigmatico, corrispondenti alle varie tappe successive di sviluppo.
1. La Bucarest anteriore alla metà del XIX secolo la quale, con la sua struttura libera e rarefatta, si trova all’incrocio tra rurale e urbano. Vie sinuose, case con cortili e presenza massiccia della vegetazione sono gli elementi fondamentali della tipologia urbana locale trasmessi, oltre la successione degli stili architettonici, fino ad oggi. Una città-giardino contraddistinta dai campanili delle chiese e dei conventi, di carattere pittoresco e patriarcale, conservata assieme ad alcuni monumenti di architettura tradizionale (abitazioni, edifici di culto, locande – la più famosa, ovviamente, Hanul Lui Manuc, costruita nel 1808, il cui nome si deve a Manuc Bey).
2. La Bucarest della seconda metà del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, testimone di una “occidentalizzazione” accelerata, che corrisponde all’adozione, ma anche all’adattamento, del modello francese che le valse l’appellativo di “piccola Parigi”. È l’epoca in cui iniziano le operazioni di assestamento urbanistico concretizzato in piazze urbane, edifici pubblici di rimarcabile struttura architettonica, un gran numero di abitazioni private contraddistinte da un’espressione eclettica, integrata alla tipologia del luogo. Nacquero così alcune zone che, per la loro qualità urbanistica, architettonica e ambientale, hanno profondamente e durevolmente segnato la fisionomia della città: quartieri aristocratici (Filipescu, Cotroceni), viali residenziali (Lascăr Catargiu, Dacia) o di promenade (Aviatorilor, Kiseleff), spazi pubblici di carattere monumentale (Piaţa Palatului Regal, Piaţa Cercului Militar), tipici della città borghese europea.
3. La Bucarest interbellica caratterizzata da una rapida sintonizzazione con le tendenze moderniste di un’ampia campagna di costruzione che le ha modificato sensibilmente il centro. L’architettura degli anni 1930-1940 è, per le opere di alcuni maestri e per l’alta qualità della media, un capitolo significativo di storia culturale e conferma lo statuto di capitale europea della città. L’elemento specifico e valoroso del modernismo architettonico romeno, illustrato in maniera convincente dalla città di Bucarest, riguarda il modo nel quale un linguaggio radicale e “universalistico” viene integrato alla tradizione e al modello spaziale locale.
Il testo di Magris si sofferma, nel capitolo in questione incentrato su Bucarest, su tutta una serie di elementi della città che conserva l’impronta di queste principali fasi di evoluzione: la formazione di un tipo particolare di tessuto diffuso (“città premoderna”), la sua strutturazione attraverso interventi radicali, che hanno però avuto un senso e hanno creato degli spazi di notevole qualità (“città borghese”), e il suo arricchimento sul piano architettonico attraverso interventi mirati (“città moderna”). Ciò che risulta caratteristico, pregevole e unico a livello internazionale nel caso della Bucarest storica è proprio la complementarità di queste fasi.
Nel libro, la descrizione parte proprio dall’appellativo che la contraddistinse negli anni Venti e Trenta del Novecento – “la Parigi dei Balcani”. Quando si parla del “centro storico di Bucarest”, si pensa subito alla zona Lipscani, una volta il cuore della città. Il nome ricorda la vecchia Lipsia, più esattamente i mercanti provenienti da Lipsia e la vita commerciale estremamente dinamica dell’antica Valacchia. Sin dalla nascita ufficiale della città di Bucarest (attestata nei documenti a partire dal 20 settembre 1459), Lipscani era il centro commerciale. Con l’insediamento del centro politico ed economico a Curtea Veche/Corte Vecchia, vi si aprirono intorno numerose botteghe di artigiani (le strade della zona Lipscani recano ancora nomi di arti o di artigiani): Şelari (Sellai), Blănari (Pellicciai), Căldărari (Calderai) e così via. Accanto ai negozianti romeni, vi si stabilirono comunità di commercianti greci, bulgari, serbi, armeni, ebrei, albanesi e austriaci. Il mosaico di civiltà influì anche sull’architettura del luogo: si possono ancora vedere edifici costruiti in stili del tutto diversi – rinascimentale, barocco, neoclassico, oppure in stili misti.
Nell’allargare la prospettiva, un altro sottocapitolo del volume di Magris è dedicato al concetto di mahala e qui sarebbe interessante soffermarsi sull’etimologia del termine. Siccome l’urbanesimo valacco è un fenomeno (o un processo) d’importazione, la terminologia specifica ne riflette una chiara evoluzione. Penetrata in romeno dal turco, la voce mahala significa all’inizio semplicemente “quartiere”, indipendentemente se marginale o centrale; è arrivata a significare soltanto “periferia” dopo il 1830, quando Bucarest assume elementi di vita urbana occidentale e le mahala si fondono nel tessuto di una città cosmopolita. Il cambiamento di significato va pure messo in relazione ad un fenomeno conosciuto e descritto dai filologi, cioè lo spostamento semantico di molti turcismi e grecismi verso il derisorio e persino lo spregiativo.
Con la mahala – il sobborgo di Bucarest – l’autore fa un’incursione nella letteratura romena insieme a Ion Luca Caragiale, il classico del teatro romeno. Mahala e avanguardia – come dal titolo del sottocapitolo – vanno assieme, in quanto la letteratura d’avanguardia, secondo molti critici, ha avuto – specie il dadaismo – una ‘gravidanza romena’ prima di venire regolarmente alla luce in occidente: Tzara, Urmuz con la sua autodistruzione del soggetto nel linguaggio e il suo simbolico suicidio, Virgil Teodorescu che scriveva nella lingua leoparda da lui inventata: Sobroe Algoa Dooy Fourod Woo Oon Toe Negaru…”, per arrivare a Ionesco il quale, anche se il suo mondo è la Francia, “affonda le sue radici in questo humus dadaista romeno e trae pure da esso quel gusto della parodia totale che anima le sue battute e che è stampato pure nel suo volto metafisico da clown, alla Buster Keaton, un volto che è il suo capolavoro” (Danubio, p. 439).
Il sottocapitolo Al Museo del Villaggio cerca di entrare, simbolicamente, nel profondo dell’anima romena, in quanto “il Museo del Villaggio, sulle rive del lago Herăstrău, non è solo una delle celebri attrattive di Bucarest, ma anche un compendio di secoli di vita romena. Quest’ultima è scandita dalla ripetizione e insieme dalla lenta evoluzione del mondo contadino: le casupole e le chiese di legno, i tetti di paglia e di fango, i letti e le grosse coperte colorate sono un universo che pare statico e immutabile, come la natura, e invece si trasforma con paziente lentezza, come il crescere e l’invecchiamento dei grandi alberi. La civiltà romena è civiltà del legno, della sua bontà e della sua forza, della religiosa e solida mitezza di utensili familiari, delle panche e delle tavole che conservano nella casa il ricordo dei grandi boschi nei quali, anticamente, la popolazione autoctona cercava sicuro rifugio dinanzi all’invasore di turno” (Danubio, p. 443).
È sempre qui che lo scrittore triestino mette in risalto la specificità del popolo romeno, rappresentata dai suoi miti fondatori. Il primo riguarda la vocazione pacifica, la mitezza pronta al sacrificio, fin dalla ballata popolare Mioriţa, per poi attraversare tutti i registri della filosofia, della letteratura, della storia. Un altro mito fondatore è quello del sacrificio per la creazione, per l’arte, raffigurato in un’altra ballata popolare, Meşterul Manole, e riscontrabile, con delle variazioni specifiche, in tutto il mondo balcanico.
Il libro di Claudio Magris risponde, nella nostra opinione in maniera esemplare, ad una domanda di massimo interesse per la ‘questione romena’ in Europa: “Culturalmente, la Romania fa parte dello spazio centroeuropeo e/o di quello balcanico?” In Danubio, nell’evocata maniera di presentare la romenità con le sue dovute sfumature, la risposta è implicita: entrambi i mondi ci si ritrovano, nel loro antagonismo e nella loro complementarietà, in quanto, per concludere con le parole dello scrittore, “questo crogiolo di stirpi e di civiltà è un brodo primordiale della nostra storia” (Danubio, p. 428).