Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Radu Mihaileanu e La sorgente dell’amore

Giu 13, 2015

 

La sorgente di una donna è l’amore. La sorgente di una donna è il suo uomo.

 

Radu Mihaileanu, il regista dei deliziosi Train de vie e Il concerto, indaga l’identità culturale anche nel suo nuovo film La sorgente dell’amore (dal 9 marzo nelle sale), in concorso nel 2011 al Festival di Cannes. Questa volta ci porta in un villaggio del Maghreb dove le donne, secondo tradizione, raccolgono l’acqua da una fontana in cima alla montagna, uno sforzo che causa spesso aborti spontanei. I mariti stanno a guardare. L’unica ad alzare la voce è Leila (Leila Bekhti), una ragazza venuta dal Sud del paese, sposata con l’insegnante Sami (Saleh Bakri), che propone alle donne di fare lo sciopero dell’amore fino a quando gli uomini non si occuperanno dell’approvvigionamento dell’acqua. Ovviamente la cosa crea scompiglio in una comunità rurale in cui la figura femminile viene confinata al ruolo di madre (“sono le dirette responsabili del ciclo della vita”, commenta il regista) e a cui non è permesso intromettersi nelle faccende sociali. Leila è portavoce di un malessere e allo stesso tempo leader di un “movimento” di emancipazione che provocherà uno scontro con l’Imam della cittadina.

La sorgente dell'amore di Radu Mihaileanu

La sorgente dell’amore di Radu Mihaileanu

 

Qual è il motivo per il quale ha scelto di ambientare questo film in un villaggio arabo e non in quello di un’altra cultura?

Innanzi tutto questa storia è ispirata da un fatto realmente accaduto in un villaggio turco e di conseguenza la cultura che dovevo analizzare era necessariamente quella arabo musulmana. Al tempo stesso avrei potuto parlare delle problematiche relative ai fondamentalismi e del, non meno trascurabile, problema della mancanza d’acqua che da reale fonte di vita è anche metafora di una siccità dei sentimenti.

La frase finale del film è “la sorgente di una donna è l’amore. La sorgente di una donna è il suo uomo”. Guardando il film è assolutamente chiaro che le donne non lottano contro l’uomo, ma contro un sistema patriarcale e marito centrico. Perché, mi chiedo, far concludere il film con questa frase?

La “guerra” delle donne nel mio film non è quella verso i propri mariti, con i quali vorrebbero essere il centro del loro stesso universo, ma contro le opinioni stantie di certi uomini che la pensano altrimenti. Tutte le lotte che ha intrapreso il Movimento Femminista, devono essere viste più come una ricerca di quella parità dei diritti che faccia vivere in equilibrio entrambi. In alcune culture quella proporzionata conciliazione è definita con due termini: Yin e Yang. La vera diatriba scaturisce dalla mancanza di uguaglianza, laddove lo scipero dell’amore è prima di tutto un sacrificio per le donne stesse, le quali non desiderano privarsi ne dell’amore ne tantomeno del desiderio nei confronti del proprio uomo.

C’è un personaggio aggiuntivo nei suoi film, ed è interpretato dalla musica; strumento con il quale lei ha la possibilità di far chiarezza su alcune situazioni. In questo film è assolutamente preponderante e funzionale alla storia.

Io ritengo che la musica sia, tra le diverse forme artistiche, quella che più di ogni altra abbia la libertà di esprimere dei sentimenti che arrivino in maniera universale ad ognuno di noi. La musica è, infatti, allo stesso tempo strumento per l’identità di un popolo, poiché svincolata dalle problematiche legate al linguaggio. E’ radicata nella tradizione di ogni comunità. La cultura arabo-berbera da alla propria musica un significato talmente importante dal “costringermi” ad inserirla come elemento dominante.

Una delle caratteristiche principali del suo cinema è quella di saper equilibrare sapientemente il tragico con il comico. Qual è la sua ricetta?

Più che una ricetta, forse, bisognerebbe ringraziare il dittatore sotto il quale sono cresciuto: Ceausescu. Egli mi ha fatto vivere in un ambiente dove il miglior antidoto alla tragicità della situazione era quello di riderci sopra. Essendo insostenibile l’orrore che avevamo di fronte, utilizzavamo l’umorismo come ossigeno per andare avanti. Io penso sia il modo migliore, e a conferma di questo, molto dopo ho scoperto che l’ironia era il sentimento con il quale reagivano i prigionieri dei campi di concentramento. In realtà in tutti i miei film l’evento scatenante è tragico (in questo caso specifico è la morte di un bambino), ma da questo cerco di dimostrare come  la forza dell’animo umano sia capace di superare e reagire ad ogni difficoltà.

 

 

Mihaileanu tra “specificità geografica e valenza universale”

“Mi interessava raccontare una storia che avesse una specificità geografica e che allo stesso tempo avesse una valenza universale – racconta il regista ebreo di origine rumena e ora cittadino francese – un racconto che mettesse luce su una civiltà antica come quella arabo mediorientale deformata sia dalle condizioni socio-economiche sia dal fanatismo religioso”. Un viaggio complesso, all’interno di un universo sconosciuto. “La grande difficoltà era non contraddire la soggettività culturale e femminile della tradizione arabo mussulmana – racconta Mihaileanu – volevo capire fino in fondo ogni elemento identitario delle donne per cogliere ogni sfumatura della loro cultura”. Per questo ci sono voluti mesi di lavoro sul campo.

I complimenti per The Artist

Mihaileanu poi si lancia in un piacevole commento sulla vittoria agli Oscar di The Artist dell’amico Hazanavicius: “Sono felicissimo, in un epoca in cui impera il digitale e il 3D fare un film muto e in bianco e nero è una prova di grande coraggio, e dà anche una risposta chiara a Hollywood: non esiste una sola forma di espressione, basta darci delle regole ferree su come fare cinema”.

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