Centro Culturale Italo Romeno
Milano

L’immagine dei romeni in Italia tra realtà e percezione. Intervista con Roberto Scagno

Mag 5, 2009

L’immagine dei romeni in Italia tra realtà e percezione

docente Afrodita Carmen CIONCHIN

Abbiamo pubblicato nei giorni scorsi la prima parte di una inchiesta sull’immagine collettiva dei romeni in Italia, questione riportata al centro dell’attenzione dal ripetersi di vicende di cronaca nera che vedono protagonisti cittadini romeni, con i conseguenti riflessi negativi sui mass media italiani. L’inchiesta, realizzata da Afrodita Carmen Cionchin, docente all’Università di Padova, ha coinvolto illustri personalità del mondo culturale italiano ed è stata pubblicata in romeno sulla rivista culturale “Orizont” di Timisoara (www.revistaorizont.ro). Proponiamo ai visitatori del nostro sito la seconda parte.

Intervista con Roberto SCAGNO
Professore di lingua e letteratura romena, Università di Padova

In che termini descrive oggi la situazione dei romeni in Italia, tra realtà e percezione?
Il successo dell’Olimpiade d’Inverno di Torino (febbraio 2006) probabilmente non ci sarebbe stato senza il lavoro degli operai romeni che sono stati indispensabili nella collaborazione alla costruzione, in tempi forzatamente ristretti, di nuovi impianti sportivi e di alloggiamenti per i turisti in città e nelle vallate montane sedi delle competizioni sportive, e all’ampliamento e al miglioramento delle infrastrutture. Tutto è avvenuto senza vittime e incidenti gravi. Eppure questa notizia ha avuto pochissimo risalto in Italia ed è stata praticamente ignorata in Romania. In cambio, nell’ultimo anno, gli spazi dei giornali e dei salotti televisivi sono stati sovente occupati da furibondi dibattiti tra i sostenitori del «pugno duro» e della «tolleranza zero» contro i criminali provenienti dalla Romania in maggioranza identificati con appartenenti alle comunità rom e i sostenitori del giusto principio della responsabilità giuridica personale e della norma democratica, fondamento della civiltà occidentale, che vieta ogni discriminazione basata sulla «differenza» etnica, sociale o religiosa. Tali dibattiti sono quasi sempre caratterizzati dalla contrapposizione intollerante di posizioni ideologiche che finiscono con l’emergere in primo piano quando l’argomentazione razionale è sostituita dalle mitologie totalizzanti e dalla emotività irrazionale.

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Preliminarmente a ogni altra considerazione occorre, a mio parere, mantenere saldi e condividere alcuni punti fermi: essere vigili contro ogni pericoloso scivolamento verso forme diffuse di intolleranza razzista e di criminalizzazione del «diverso», e quindi punire sul nascere ogni tendenza al «farsi giustizia da sé»; e, nel contempo, garantire la sicurezza di tutti i cittadini non solo attraverso un’azione più efficace della magistratura  e delle forze dell’ordine ma anche attraverso un’attività preventiva di controllo sociale e di collaborazione internazionale. Al di là di questo quadro generale, che dovrebbe essere accettato senza alcuna riserva, è aperto il dibattito non pregiudiziale, lo spazio per la pluralità delle argomentazioni.

Gli uomini di cultura italiani che a diverso titolo hanno avuto contatti non sporadici con la realtà romena dovrebbero cercare di ottenere maggiore visibilità ai loro interventi, anche sulla stampa romena, ma senza cadere nell’errore simmetrico opposto a quello tendenzialmente «razzista», l’errore della «mitologizzazione positiva». Reputo profondamente sbagliato contrapporre alla stupidità razzista i miti letterari romanzi/romantici da Cervantes a Budai-Deleanu oppure quelli «ambiguamente positivi» del melodramma italiano da Rossini a Verdi. Allo stesso modo, mi pare del tutto insensato utilizzare il paradigma della «pulizia etnica» (come sovente fanno alcuni giornalisti, saggisti e accademici della Penisola) o addirittura evocare  l’ombra terribile della Shoah, con il rischio di una incosciente e irresponsabile «banalizzazione del male», anticamera del «negazionismo». Certamente non si devono incolpare interi popoli o interi gruppi etnici, ma allo stesso tempo non si devono chiudere gli occhi di fronte a pratiche sociali aberranti quali lo sfruttamento dei minori e delle donne per furti e rapine, o degli anziani, dei mutilati e dei portatori di handicap per accattonaggio. La lotta contro lo strapotere di italiche mafie e camorre non esclude la lotta contro i racket internazionali che spesso vedono protagonisti rom di Romania. Se a quasi vent’anni dalla caduta del regime di Ceauşescu il «problema rom» non è risolto la colpa non è principalmente delle istituzioni italiane che non hanno utilizzato i fondi europei ma delle autorità e della società civile romene poco sensibili, in generale, ai gravi problemi sociali interni (e non solo a quelli riguardanti la minoranza rom).
Quel che mi preme maggiormente mettere in rilievo è, tuttavia, un altro aspetto. Mi sembra utopico aspettarsi dalla stampa e dalle televisioni nazionali un interesse costante e costruttivo ai risultati positivi dell’immigrazione romena in Italia. L’imbarbarimento dell’informazione verso la messa in evidenza del negativo, del perverso, del macabro e del sanguinoso è, purtroppo, una direzione di marcia accelerata e inarrestabile… A questo punto, è compito ineludibile degli uomini di cultura – accademici, scrittori, poeti, saggisti, ecc. – uscire dalla «torre d’avorio» e dai propri «fortilizi» mitologici per scendere nel «foro» e per guardarsi attorno. Nelle grandi città come nelle piccole cittadine di provincia e nei borghi di campagna o delle nostre valli alpine vivono e lavorano decine di migliaia di famiglie romene che hanno trasformato la loro residenza nel nostro Paese da temporanea a permanente (almeno in prospettiva pluriennale), si sacrificano per fare studiare i figli (che sono presenti ormai non solo nelle classi elementari e nei licei ma anche nelle Università e nei centri di ricerca), mandano mensilmente cospicue rimesse ai familiari rimasti a casa, accendono mutui bancari per acquistare una casa in Italia, iniziano attività imprenditoriali nei settori più diversi (soprattutto nei servizi, nel commercio e nelle costruzioni), cercano di mantenere vive le tradizioni culturali e religiose del Paese d’origine. Spetta a noi uscire dalla «torre d’avorio» prima di tutto per conoscere i Romeni in Italia e poi per aiutarli in una integrazione che è italiana ed europea nel contempo.
Sarebbe auspicabile, inoltre, un dialogo maggiore sui problemi legati alla immigrazione romena in Italia tra gli uomini di cultura italiani e romeni, al di là dell’adesione a comuni messaggi di «solidarietà antirazzista», sovente non accuratamente formulati. A questo scopo ci si deve augurare anche da parte romena una uscita dalla «torre d’avorio» e un superamento della frequente oscillazione tra chiusura nazionalista e indifferentismo sociale.

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