Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Avvenire 11 maggio 2017- Testimonianze: Il calvario del cristiano Steinhardt

Mag 11, 2017

Testimonianze: Bucarest 1948.  Il calvario del cristiano Steinhardt

 

«In questo posto quasi irrealmente sinistro avrei conosciuto i più bei giorni della mia vita», così scrive Nicu Steinhardt, ebreo romeno convertito al cristianesimo, a proposito del carcere di Jilava, piccolo comune alla periferia di Bucarest, diventato con Aiud, Gherla, Sighet, Râmnicu Sărat, Pitești un simbolo tragico dell’universo concentrazionario comunista. Dal 1948, con la presa del potere da parte del partito comunista, conobbero la morte in Romania circa 800.000 persone e oltre tre milioni vennero incarcerate. Nicu Steinhardt era tra questi. Protagonista della vita culturale romena nel periodo di grandissima vivacità intellettuale tra le due guerre mondiali, conobbe e fu amico di maître à penser come come Eugen Ionesco, Mircea Eliade e Costantin Noica. Coinvolto nelle indagini del potere comunista sulla cerchia di Noica, venne incarcerato dalla famigerata Securitate per non aver testimoniato contro il suo amico e mentore, e condannato a 14 anni di carcere. Qui inizia il suo calvario, ma, paradossalmente, anche la riscoperta della «felicità», iniziata con il battesimo, ricevuto di nascosto in carcere dal monaco ortodosso padre Mina Dobzeu. L’opera che lo ha consacrato come uno dei più grandi autori e pensatori del Novecento porta il titolo emblematico di Diario della felicità.

 

Pubblicata per la prima volta in Romania nel 1972 e subito sequestrata, viene oggi ripubblicata da Edizioni Rediviva, nella traduzione di Gabriella Bertini Carageani, dopo una precedente edizione da tempo esaurita. ll Diario della felicità è un libro singolare: raccolta di appunti, annotazioni, citazioni, aforismi, che spaziano su quasi tutta la vita di Steinhardt e, in particolare, sugli anni della prigionia, con riferimenti storici, politici, ma soprattutto culturali. E’ impressionante il caleidoscopio di citazioni, da Dickens all’amata Simon Weil, dall’esistenzialismo di Sartre e Camus a Kierkegaard, da Flaubert a Dostoevskij e Solženicyn.

Jpeg

Tra tanto e disparato materiale, il filo conduttore del Dario della felicità è la riflessione sulla possibilità di sopravvivere in un regime carcerario spietato come quello comunista. Per Steinhardt l’unico modello che eviti l’omologazione e la disumanizzazione è quello della fede, “conseguenza della grazia”. Annota: «Non c’è bisogno di essere rimasto molto in prigione. In pochi minuti si capisce cos’è l’uomo, qual è veramente la condizione umana, come stanno le cose e si capisce che Cristo è lì a due passi, che ti vede, che ti ha visto e da sempre». La presenza di Cristo, interiorizzata, attraverso il battesimo, diventa l’inizio di una vita nella gioia, pur in mezzo a sofferenze e torture efferate, fino a quello stato “di indicibile felicità (…) che segue al compimento di un’azione conforme ai dettami divini”. E’ importante sottolineare la conformità “ai dettami divini”: la felicità per Steinhardt è la presenza della grazia attraverso una piena adesione alla volontà di Dio, a prezzo anche della vita. In questa prospettiva, il carcere da luogo di tortura, di annientamento sistematico e scientifico di ogni dignità umana, diventa la fucina di un rinnovamento interiore radicale, non nella direzione dello stereotipo comunista dell’uomo nuovo, ma della persona trasformata e trasfigurata dall’amore infinito di Dio:«Sono entrato cieco in prigione (…) ed esco vedente; sono entrato viziato, coccolato, esco guarito dalle arie, dalla presunzione; sono entrato scontento, esco conoscendo la felicità».

 

Antonio Buozzi, giornalista

 

 

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