Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Rapporto sulla dittatura comunista in Romania (2) . Il caso Pătrășcanu

Lug 8, 2013

Il caso Pătrășcanu

Il primo caso di regolamento di conti del dopoguerra fu anche il più clamoroso e  riguardò Lucreţiu Pătrăşcanu. Con alle spalle una famiglia ricca e raffinata, una  laurea in legge conseguita a Lipsia, di acuta intelligenza, Pătrăşcanu era l’unico esponente del PCR che per maniere e cultura fosse all’altezza dei leader dei partiti democratici. Dando prova di indubbia abilità, agendo di propria iniziativa gli riuscì di inserire il PCR nella congiura di palazzo che portò alla destituzione di Antonescu il 23 agosto 1944: in quel momento il Partito era una quantité négligeable, priva di autorevolezza e credibilità, oltre che di strategia. In seguito Patrascanu rappresentò la Romania nelle trattative per l’armistizio di Mosca (settembre 1944) e in quelle per il Trattato di pace di Parigi. Il 6 marzo 1945 venne nominato Ministro della Giustizia, carica che ricoperse fino all’aprile 1948. Negli anni del suo incarico governativo operò senza riserve per la puntuale attuazione delle direttive che provenivano da Mosca e i suoi scritti dell’epoca non indicano alcuna tendenza deviazionista. Molto più che le sue idee era la sua personalità a renderlo inviso al resto della dirigenza del partito. L’atteggiamento da intellettuale quale era, il disinteresse che mostrava verso gli intrighi di fazione e verso i privilegi di varia natura che il potere comportava erano elementi che irritavano Dej e gli altri. Il Rapporto suggerisce che l’eliminazione di Pătrăşcanu, unitamente a quella di alcune personalità a lui vicine, sia stata voluta da Dej per sbarazzarsi di un potenziale concorrente alla leadership; anche se, per i motivi appena esposti, si può dire che Pătrăşcanu non avesse le qualità (ovvero i difetti) per crearsi un seguito stabile e cospicuo.

Gheorghiu Dej, Lucreţiu Pătrăşcanu e altri dignitari davanti alla Catedrale Patriarcale, Bucarest, 8 novembre 1945

Gheorghiu Dej, Lucreţiu Pătrăşcanu e altri dignitari davanti alla Catedrale Patriarcale, Bucarest, 8 novembre 1945

Rimane in sostanza difficile stabilire una ratio politica nel comportamento del Partito verso Pătrăşcanu. La sua vicenda non sembra presentare analogie con le prime epurazioni post-belliche in Europa orientale che portarono alle esecuzioni di Rajk in Ungheria, Kostov in Bulgaria e Slánsky in Cecoslovacchia. Pătrăşcanu rimase in carcere per ben sei anni prima di venire fucilato. Venne sottoposto a un regime carcerario molto duro e, sul finire, spietato. Il fatto che abbia

resistito a trattamenti disumani senza perdere né lucidità (come testimoniano le lettere scritte dalla cella agli ex-compagni di partito) né dignità (rifiutandosi fino alla fine di auto-accusarsi o di accusare altri) avvolge la sua figura di un alone tragico che quasi mette in secondo piano le gravi responsabilità che egli si era assunto nei primi anni del terrore comunista in Romania. La seconda, e ultima, epurazione del Partito, avvenuta nella primavera del 1952, riguardò il gruppo Ana Pauker, Vasile Luca e Teohari Georgescu. In realtà i tre non avevano formato alcun gruppo e solo il fantasioso atto di accusa ne stabiliva uno. Ciò non ostante, secondo un collaudato stile propagandistico, tutta la stampa e la radio stigmatizzarono per settimane intere l’attività del “gruppo antipartito”, senza che

venisse mai precisato di quali crimini si fosse reso responsabile. In realtà i tre non rappresentavano una linea politica deviazionista. All’epoca la linea politica era una per tutti ed era quella che dettava Mosca. Il Rapporto sottolinea che la polemica contro il gruppo dei tre fu orchestrata da Dej allo scopo primario di rafforzare la propria posizione nel partito. Nei secondi anni 40 Pauker, Luca e Georgescu condividevano alla pari con Dej la leadership del PMR e il solo motivo per il quale a Segretario del partito venne eletto Dej, col decisivo consenso della Pauker, fu che fra questi egli era l’unico di etnia rumena. Solo a Luca venne fatto un processo che portò alla sua condanna a morte, poi commutata in ergastolo (Luca morì in carcere nel 1963), mentre dopo diversi mesi di arresto preventivo la Pauker e Georgescu vennero rilasciati: la prima si guadagnò una modestissima esistenza con traduzioni letterarie (morì nel 1960), il secondo, dopo anni di lavoro come operaio tipografo venne riabilitato da Ceauşescu e nel 1972 reintegrato nel Comitato centrale. Nel 1955 al II Congresso del PMR Dej salì alla tribuna come il leader indiscusso: in Romania il potere si era concentrato nelle mani di una sola persona proprio durante gli anni 53-55, quando in Unione sovietica funzionava un sistema di ‘leadership collettiva’.

Il Rapporto Kruščev

La destalinizzazione, ambigua per certi aspetti ma rumorosa e spettacolare, promossa dal PCUS a partire dal febbraio del 1956 provocò costernazione in Dej e nei suoi collaboratori. Dej giudicò il rapporto Kruščev ‘un immenso errore strategico e ideologico’. Verso i successori di Stalin c’era stata fino ad allora, accanto all’inevitabile disciplina, anche una certa dose di velata diffidenza. Ma adesso Dej cercò attivamente, nei limiti del possibile, di ridurre la sua dipendenza da Mosca. Nell’immediato, instaurò buoni rapporti col PC cinese, anch’esso molto critico verso il Rapporto Kruščev, e scongelò quelli con Belgrado, dopo anni di virulenta propaganda anti-Tito. Con una decisione di lungo termine che cambiò davvero la storia del PMR e della Romania, Dej cercò anche a livello ideologico come smarcarsi da Mosca e trovò un valido appiglio nel latente nazionalismo rumeno. Il tema dell’ “orgoglio nazionale divenne un elemento chiave nella strategia del partito” il quale puntava a crearsi un seguito che fin ad allora in Romania non aveva mai avuto e che neppure aveva mai per davvero cercato negli anni in cui erano bastate le armi sovietiche a consolidarlo al potere. Adesso che l’Unione sovietica sembrava volesse rivedere certi dogmi stalinisti Dej, per conservarli intatti e puntellare così il suo dispotismo, continuò a servirsi dello spauracchio sovietico. Ma se prima lo faceva per imporsi col terrore sugli avversari, adesso, paradossalmente, lo faceva per atteggiarsi a unico possibile difensore della sovranità rumena minacciata dall’egemonia della vicina grande potenza. Su questo decisivo aspetto si tornerà in seguito.

All’interno del partito Dej dovette fronteggiare l’eterogenea e limitata schiera di coloro che nel Comitato Centrale ritenevano necessaria anche per la Romania la destalinizzazione. Questi erano però fortemente indeboliti dal fatto che appuntavano le loro critiche sul culto della personalità, sul verticismo e sulla carenza di democrazia interna al partito, insomma sulle manchevolezze del leader. Non potevano, data la loro mentalità, criticare le catastrofiche scelte economiche (valga per tutte l’elefantiaco e irrealizzabile progetto del Canale fra Danubio e Mar Nero) o le sanguinose, e spesso arbitrarie, repressioni del decennio precedente. Fra i critici di Dej i più importanti furono Miron Constantinescu (un intellettuale di seconda schiera con laurea in filosofia ottenuta negli anni 30) e Josif Chişinevski (un ex-agente dell’NKVD). Entrambi speranzosi di poter prendere il posto di Dej con il solo aiuto di Mosca, ma senza nessun sostegno nel partito e ancor meno paese, vennero entrambi isolati e poi espulsi dal partito: il primo fu costretto a lasciare la politica per l’insegnamento scolastico, il secondo per la direzione di un poligrafico (Constantinescu visse abbastanza per essere riabilitato da Ceauşescu, sotto il quale divenne ministro dell’educazione e poi presidente del parlamento). La relativa facilità con la quale Dej sopravvisse alla destalinizzazione krusceviana fu dovuta in parte agli avvenimenti di Budapest dell’ottobre-novembre 1956. Durante la crisi che scosse dalle fondamenta l’intero blocco sovietico, Dej si dimostrò di una coerenza e un’affidabilità controrivoluzionaria esemplare. I gravissimi problemi insorti in Ungheria e Polonia richiamarono la maggiore attenzione di Mosca, relegando in secondo piano lo scenario rumeno. Qui nessuno fra gli intellettuali o i dirigenti di partito mostrò simpatia col movimento ungherese. L’ eccezione furono alcuni ristretti e inoffensivi gruppi studenteschi a Bucarest e Timişoara, che comunque vennero subito repressi (finì in carcere e poi venne extramatricolato anche il giovane Paul Goma).

Istanze ‘antiegemoniche’

Per esclusivi motivi di politica interna, Kruščev lanciò nell’ottobre 1961 al XXII Congresso del PCUS una seconda fase di destalinizzazione, percepita all’estero come un ‘disgelo’. Dej non aveva scelta: doveva opporsi a questa come alla prima. Ora però Dej si sentiva più forte che nel 56: il PMR era sotto il suo pieno controllo, l’economia rumena dava segni di miglioramento e, soprattutto, il recupero del discorso nazionalista aveva permesso un certo radicamento del partito nel paese. Oltre a ciò, si era dimostrato che il potere di Kruščev non era neppure paragonabile a quello del suo temibile predecessore. Lo spinoso tema della destalinizzazione venne così liquidato da Dej alla plenaria del Comitato centrale del novembre-dicembre 1961 con il sorprendente argomento secondo cui la destalinizzazione era avvenuta in Romania…prima che in Unione sovietica con l’allontanamento dal partito del gruppo Pauker-Luca-Georgescu e dei loro sodali. Quella misura aveva risanato il partito riportandolo sui corretti principi del marxismo e del leninismo. Ma Dej aggiunse un giudizio che mai avrebbe pronunciato all’epoca del risanamento: il gruppo dei tre, suonava adesso l’accusa, era fatto da ‘moscoviti’, non da patrioti rumeni. Era un passo importante verso la nazionalizzazione dell’ideologia.

Questa lettura completamente falsa dei fatti entrò nella storiografia ufficiale del partito e come molte altre manipolazioni valcuna variazione di vocabolario. Nella stessa plenaria del dicembre 1961 il discorso sul lavoro ideologico svolto dal partito venne tenuto da Ceausescu, cooptato quattro anni prima nel Comitato centrale. A partire da questo intervento, del resto piuttosto ambiguo, egli venne conteggiato fra i sostenitori della ‘linea indipendente della Romania’ rispetto a Mosca. Tale linea sembrò pienamente confermata nel 1962-63 quando i rumeni respinsero ogni piano di potenziamento della collaborazione economica all’interno del Comecon. Mosca, d’accordo con DDR, Polonia e Cecoslovacchia, pensava di assegnare alla Romania compiti di sviluppo agricolo, non industriale, secondo i così detti ‘Principi della divisione internazionale del lavoro’. Questa prospettiva era però osteggiata da Bucarest in quanto comportava a giudizio del PMR una dipendenza della Romania dall’estero, per quanto socialista. Lo scontro con Mosca raggiunse l’apice nel 1964 con la famosa Dichiarazione di aprile, nella quale si contestava apertamente lo status privilegiato dellURSS nel quadro del movimento comunista internazionale. Vi si leggeva: “…Non esistono e non possono esistere modelli o ricette uniche. Nessuno può decidere quello che è giusto e quel che non lo è per altri paesi e per altri partiti. L’elaborazione delle forme e dei metodi di costruzione del socialismo è propria di ogni partito marxista-leninista, un diritto di sovranità di ogni stato socialista…”. Oltre ai buoni rapporti che intratteneva con la Cina, la Romania iniziò una campagna per sedurre l’Occidente: il primo ministro Maurer visitò Parigi, il vice primo ministro Marin (vero nome Grossman) due volte in breve tempo gli Stati Uniti.

Va rilevato che, nei modi informali in cui può manifestarsi l’orientamento politico di una popolazione privata della libertà, il paese appoggiò questa linea. Il numero dei membri del partito aumentò, intellettuali di valore si schierarono pubblicamente e per la prima volta con Dej, il quale permise che venissero rieditati i classici della letteratura rumena banditi negli anni 50. Gli anni 61-64 segnano la prima epoca di governo comunista nel quale la repressione venne relativamente mitigata (la seconda e ultima fu dal 68 al 71).

La Romania pareva avviata quanto meno a un futuro jugoslavo ma, segnala il Rapporto, la presa di distanza da Mosca non era dettata in prima istanza dalla difesa di valori nazionali, che venivano semplicemente usati in chiave propagandistica, quanto invece dal rifiuto di una autentica destalinizzazione negli uomini, nell’ideologia, nei metodi di governo e soprattutto nel rigido controllo del partito sulla società civile.

L’ascesa di Ceauşescu alla Segreteria del PCR

Come sempre avvenne in occasione del cambio di segretario del partito nei paesi comunisti, anche in Romania alla morte di Dej, nell’aprile 1965, la successione era tutt’altro che preparata, nonostante fosse noto fin dal febbraio che Dej era stato colpito da un tumore allo stomaco. Di fatto solo due membri del CC potevano aspirare alla leadership, Ceauşescu e Draghici, il potente capo della polizia segreta.

La spuntò il primo al quale gli altri dirigenti del partito diedero l’appoggio per la più apolitica delle valutazioni: fra i due Ceauşescu sembrava, come carattere, il meno temibile. Ceauşescu accentuò la “linea stalinista nazionale”. Quest’ultimo aggettivo, tuttavia, esprime, secondo il Rapporto, una manipolazione, un’aggiunta fraudolenta, cinica e ipocrita. Il Partito che aveva sostenuto lo smembramento della Grande Romania interbellica e poi asservito incondizionatamente il paese agli interessi politici e economici dell’URSS, non poteva essere mosso da autentica preoccupazione per la sovranità e la dignità nazionale rumena. Allo stesso modo un leader che non aveva un passato rivoluzionario né espresso mai un parere per davvero personale doveva forzare di molto la realtà per fare riscrivere come incentrata su di lui l’intera storia del Partito (essa stessa, del resto, modesta e perfino imbarazzante, ma presentata invece come gloriosa e progressiva). A questo cumulo di menzogne Ceauşescu ne aggiunse altre, calibrate sull’allontanamento dal centro di potere di alcuni rivali. Il suo slogan sulla necessità di “rafforzare la legalità socialista” dopo gli abusi e le violenze illegali degli anni di Dej colpì favorevolmente sia i rumeni che l’Occidente. Ora, quello slogan non aveva altro scopo se non quello di preparare l’uscita di scena di Draghici. Anche le ristrutturazioni interne (creazione del Presidio permanente e del Comitato esecutivo) perseguivano il solo obiettivo di escludere dalla dirigenza uomini legati a Dej che nulla dovevano a Ceausescu. Tuttavia il fatto che fosse finalmente arrivato un volto nuovo alla guida del partito, dopo i due decenni di Dej, che si notasse un nuovo stile e un nuovo linguaggio, unito a qualche segno concreto male interpretato come la riabilitazione di Pătrăşcanu (percepita come una condanna di principio ai sistemi del passato invece che come una mossa per screditare Dej) spiegano una certa apertura di credito a Ceauşescu che divenne massima quando questi condannò in modo spettacolare l’invasione della Cecoslovacchia.

Ma lo stalinismo, inteso come gestione totalitaria del potere e il leninismo come ideologia non vennero mai messi in discussione a Bucarest. I documenti riformatori del Partito cecoslovacco, infatti, vennero censurati nella stampa rumena. Anzi, la deriva riformatrice di Praga rafforzò Ceauşescu nell’idea che l’unità del partito fosse un valore politico supremo. La conseguenza fu la ascesa di Elena Ceauşescu e di un clan di funzionari legati personalmente al Segretario del partito.

Con queste premesse, non sorprende che il periodo di attenuazione nella repressione sia durato poco. Pare non esagerata l’importanza che viene di solito attribuita al viaggio dei Ceauşescu in Cina e Corea del Nord nel maggio 1971: la mobilitazione permanente (falsa però, snaturata, in quanto diretta all’alto), il culto della personalità, la rigidezza ideologica, la totale chiusura verso il dissenso apparvero a Ceauşescu come opzioni politiche di valore. I successivi congressi del Partito (74, 79, 84) marcarono un progressivo accentuarsi di questi orientamenti negativi, in particolaredel culto della personalità. Essa, inevitabilmente, andò di pari passo con l’aggravarsi dell’incompetenza e del dilettantismo con cui il partito (e il governo) gestivano il paese. “Un completo accentramento del potere nelle mani di pochi individui rendeva impossibile la soluzione di problemi estremamente complicati di un società sempre più differenziata…Chiusi nella loro piramide di privilegi gli autocrati comunisti rumeni non tolleravano la meritocrazia, che consideravano a ragione come una minaccia al loro potere”. La Romania sprofondò nella misera e nel totale svilimento del discorso politico.

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