Centro Culturale Italo Romeno
Milano

L’evasione silenziosa, di Lena Constante – Edizioni Nutrimenti, 2008

Mag 10, 2009

L’evasione silenziosa, di Lena Constante – Edizioni Nutrimenti, 2008 (Evadare tacuta – traduzione Angela Tarantino)

Di Marilia PICCONE.

“Sono stata condannata a dodici anni di prigione”. Inizia così L’evasione silenziosa, diario straordinario di una donna straordinaria. “Versi e nient’altro, per tutta la giornata. Non avevo nient’altro da fare. Di sera, ripetevo le poesie finite. Per impararle per bene e soprattutto per impedirmi di pensare al presente. Ero riuscita, infatti, a smontare il tempo. Ero concentrata solo sulla ricerca della parola esatta, della rima a effetto.”

cop.aspx

Sono pagine straordinarie, quelle scritte da Lena Constante, pittrice e scenografa romena, perché solo questo aggettivo può indicarne la qualità: come altrimenti si potrebbe definire un libro assolutamente privo di azione e che si legge di un fiato? Che è chiuso nello spazio di una cella di cinque metri quadrati in cui il tempo – infinito, ancora più sconfinato se misurato nei secondi dei minuti delle ore dei giorni che Lena conta con minuzia esasperata – sgocciola con una lentezza che potrebbe uccidere l’anima e lo spirito. Non quelli di Lena – una donna straordinaria, abbiamo detto: esiste un’altra qualifica per una persona che è sopravvissuta ad un periodo di carcere così lungo in isolamento totale, senza impazzire?

Lena Constante fu arrestata il 17 gennaio 1950, a Bucarest. L’accusa era vaga, ma d’altra parte, come dice la stessa Lena ‘nessuno è completamente innocente’, men che mai in un regime dittatoriale. E la sua colpa era quella di conoscere piuttosto bene Elena Patrascanu, direttrice del primo teatro di marionette della Romania dove Lena lavorava come scenografa. Ed Elena era moglie di Lucretiu Patrascanu, ministro della Giustizia, accusato di tradimento e spionaggio a favore delle forze alleate angloamericane. Lucretiu Patrascanu fu giustiziato subito dopo la fine dell’inchiesta, la moglie finì in carcere, come Lena che uscì di prigione nel 1961. Nel 1968 l’intero gruppo del processo Patrascanu fu riabilitato e sia Lena sia il marito Harry Brauner (sposato nel 1963, dopo che anche lui aveva scontato la pena) furono dichiarati innocenti.

Questi sono i fatti dietro le pagine del libro, ma Lena vi fa solo qualche accenno: a Lena non interessa la politica, e questo forse rende ancora più allucinanti gli interrogatori miranti a farle confessare quello che lei non può confessare perché non sa o non ha fatto. Una volta, dopo dodici giorni in cui l’avevano tenuta sveglia a forza, permettendole di dormire 24 ore su 288, Lena firma qualcosa, non sa che cosa: Se allora mi avessero chiesto, per lasciarmi dormire, di dichiarare che avrei rubato, ucciso, ucciso i miei genitori, avrei firmato qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa, ma, soprattutto, la mia condanna a morte. Di che cosa riempie il diario, allora, Lena? E – badate bene – Lena non scrive neppure una parola durante l’internamento, per il semplice motivo che non ha né carta né penne o matite. È nella sua mente che Lena scrive, annota, memorizza, ripete per accertarsi di ricordare tutto. Scrive poesie, scrive otto drammi teatrali – di cui riuscirà a metterne su carta solo quattro nella spiazzante euforia della libertà. Perché il tempo è il suo, non può perderlo: lasciarlo scorrere invano significava perdere una parte della mia vita, e, io, quest’unica vita, volevo viverla. Tessendo parole sui fili del tempo, sono vissuta.

Lena descrive le sue giornate, gli ordini crudelmente assurdi su cui sono regolate, le astuzie dolorosamente geniali con cui risolve i problemi della quotidianità – il pettine fatto con il sapone ammorbidito e poi indurito, ma anche il calcolo dei passi della guardia prima che ritorni a sorvegliarla implacabile dallo spioncino -, gli interrogatori, i ricatti che la pongono davanti al dilemma etico – fare l’eroina senza macchia, non cedere al sistema e lasciar arrestare i genitori?-, le sigarette, il cibo e soprattutto la mancanza di cibo, la sofferenza fisica. Contro quella non può fare nulla e allora la sua battaglia si rivolge al piano morale: dovevo voler vivere meglio. E allora Lena, che è un’eroina anche se non vuole esserlo, trova la risposta: una pianificazione minuziosa dell’uso del tempo. Dovevo crearmi delle abitudini. L’ambizione di rispettarle con rigore.

In un libro che appartiene al genere della memorialistica, come è quello della Constante, a volte è difficile separare il valore della testimonianza da quello letterario. Spesso il doverlo fare ci imbarazza, facendoci quasi sentire a disagio, come se mancassimo di lealtà nei confronti di chi scrive. Del libro di Lena Constante, invece, apprezziamo l’unicità della testimonianza e l’asciuttezza stranamente poetica dello stile. E, dopo averne terminato la lettura, continuiamo a sentire la voce di questa donna che è riuscita a evadere nel silenzio della mente: che splendida rivincita sui suoi persecutori.

…“Sono stata condannata a 12 anni di prigione. Il processo è durato 6 giorni. L’inchiesta – 5 anni. Fino a oggi ho espiato cinque anni di prigione. Sola. 1827 giorni in una cella di 5 metri quadrati. Sola 45.848 ore. In una cella dove ogni ora ha, inesorabilmente. 60 minuti, ogni minuto 60 secondi. Uno, due, tre, quattro, cinque secondi, sei, sette, otto, nove, dieci secondi, mille secondi, centomila secondi. Sono vissuta sola, in una cella, 157.852.800 secondi di solitudine e di paura. È una cosa che non si dice, si urla! Mi condannano a vivere ancora 220.838.400 secondi. A vivere ancora tanti secondi o a morire di tanti secondi.
Negli ultimi mesi dell’inchiesta mi avevano instillato la speranza che dopo il processo sarei stata libera. Lentamente ero arrivata a crederci. Lo choc di questi 5 anni di detenzione mi ha ridotto il cervello in poltiglia. Non sento più niente. Per due o tre giorni, forse quattro, rimango stesa sul pagliericcio. Incosciente. Ogni giorno, a pranzo e a cena, mi portano una ciotola dì liquido nerastro e una letta sottile di pane. Non riesco a ingoiarli. Non riesco nemmeno a vederli, gli occhi sono chiusi. Sotto le palpebre, solo buio. Non mi sento più le braccia. Non mi sento più i piedi. Mi dissolvo…Mi tirano fuori dalla cella di mattina, verso le quattro. Siamo, sono sicura, al 15 aprile 1954, Mi ordinano di firmare una carta. La firmo. Non so cosa firmo. Un foglio bianco mi nasconde il testo.Mi spingono fuori. Porto ancora gli occhiali della prigione. Con lenti di un nero opaco. Sento l’aria. Fa freddo. Continuano a spingermi. Salgo due gradini. Mi spingono in un cellulare. Lascio dietro di me cinque anni di prigione. Durante questi cinque anni ho cambiato carcere quattro volte. In ciascuna di queste prigioni, molte volte cella.

***

Lena Constante nasce a Bucarest nel 1909. Negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale fa parte di un gruppo di etnografi che si dedicano alla prima raccolta sul campo di manufatti appartenenti al patrimonio artistico tradizionale. Nel 1945, chiamata da Elena Patrascanu, lavora per il Teatro Tandarica di Bucarest, il primo teatro di marionette della Romania. A partire dagli anni Settanta, dopo i lunghi anni trascorsi in prigione, si dedica al recupero di tessuti tradizionali, realizzando tappezzerie artistiche di grande originalità che la renderanno famosa in patria e all’estero. Nel 1992 la casa editrice Humanitas pubblica in Romania il suo diario di prigione, L’evasione silenziosa, già apparso in francese nel 1990. Il libro riceve il Premio Lucian Blaga dell’Accademia rumena e vince, in Francia, il premio Adlef. Del 1996 è la seconda parte del diario, Evadarea imposibila (L’evasione impossibile). Lena Constante muore a Bucarest nel 2005.

Loading