Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Il simbolo del dono nel romanzo di Ingrid Beatrice Coman, Tè al samovar

Gen 24, 2009

Diana Pavel Cassese

Ingrid Beatrice Coman, Tè al samovar1 – voci dal gulag sovietico (Editrice Harmattan Italia, Torino, 2008, p.175; prefazione Monica Joiţa)

Come risaputo, la Romania ha avuto i suoi tempoi difficili e il suo tributo pagato all’oppressione comunista. Molti si sono visti passare tutta la vita sotto il regime, altri solo la giovinezza o l’infanzia. Per tutti è stato un pesante fardello da portare e ha lasciato una profonda e indelebile traccia nella loro memoria. Pur avendone fatto le spese solo per 23 anni, la scrittrice Ingrid Coman cerca, in qualche modo, di farsi carico di tutto questo dolore ancora nascosto, portarlo alla luce e trasformarlo in parole da offrire al lettore desideroso di comprendere. Lo fa con un libro ambientato in un luogo divenuto tristemente simbolo di tutti i sistemi totalitari: la Kolyma. Lì ci spendono i giorni migliori della loro vita i personaggi principali della storia. Aljosha, Gulja, Stepan, Volodja, Piotr, Serghei, tanti nemici del popolo spediti con biglietto di sola andata nelle distese più remote della Siberia e proprio per questo diventati così vicini al nostro cuore man mano che ci addentriamo nei loro destini. C’è anche un personaggio rimasto fuori dalla lista dei detenuti, Vera Nureev, la giovane donna invecchiata prima del tempo, spettatrice involontaria della tragica piega che sta prendendo la storia del suo paese. Fuori o dentro dal carcere, sono tutti in egual modo attori e spettatori di un tempo difficile di oppressione e paura, di carestia e violenza, di separazione e solitudine. Nel libro però la vita riuscirà ad averla vinta su ogni cosa e il cielo di Mosca viene rischiarato da una promessa di sole e primavera, di speranza e gioia. Nella vita reale raramente è stato così ed è proprio per questo che la nostra memoria è importante per restituire, almeno nella letteratura, ciò che la vita aveva loro negato.

Il dono

Questo libro trascinante, coinvolgente, commovente si organizza attorno al simbolo del dono, come strumento di salvezza e di aiuto. Il dono è un fenomeno complesso, una prestazione totale, una forma primaria di esteriorizzazione che è possibile frammentare secondo multiple modalità, a seconda del variare delle situazioni: “il dono può essere allo stesso tempo un atto di costrizione che porta a manifestare la sua appartenenza al tutto comunitario, un’espressione di generosità e di libertà liberamente consentite o infine un’affermazione della sua propria persona nella lotta per il prestigio per mezzo della consumazione ostentata della ricchezza.”2

Il dono altruista

Nel lager russo descritto da Ingrid Coman, il dono costituisce il mezzo di congiunzione sociale. È per questo che gli abitanti della baracca n.37 del campo dividono tutto: le sigarette, le pagine di un libro per trasformarle in carte da gioco, i tozzi di pane. Volodja regala a Gulja una pipa scolpita lì, nel campo, ma rifiuta il”pagamento anticipato”(p.70), “i guanti di lana mozzati”(idem): “Tienili, gli sussurrò, ne avrai bisogno. Tanto non entrerebbero mai sulle mie mani da gigante!”(ibidem).

Marcel Mauss, nel suo studio sul dono, attira l’attenzione che dono e mercanzia non devono essere caratterizzati secondo un analogismo economico. Per Mauss non c’è niente di più falso che la nozione di baratto: “I doni non hanno lo stesso scopo del commercio e dello scambio nelle nostre società più elevate. Lo scopo è prima di tutto morale, lo scopo è quello di produrre un sentimento di amicizia tra le due persone interessate e se l’operazione non ottenesse questo effetto tutto verrebbe meno.”3

In un mondo che tocca il fondo della meschinità, dove i detenuti lavorano nelle miniere 14 ore al giorno, ricevono un solo pasto al giorno e dormono al freddo, il regalo può tornare utile anche per “comprare” il silenzio: dal loro pacco ricevuto da casa, i prigionieri devono dare qualcosa alle guardie; è quello che chiamerei “il dono-obbligo”: “alla fine un pacco da casa ti porta più debiti che vantaggi. Bisogna dare qualcosa alla guardia, al caposquadra, all’addetto dell’ufficio postale, se no te lo farebbe marcire sotto gli altri pacchi.”(p.126)

Il libro è nello stesso tempo una lezione sull’importanza delle piccole cose, restituendo al regalo la sua innocenza. Sul treno di ritorno a casa, una madre regala “un pezzo di polenta fredda e due di formaggio” (p.143) agli amnistiati che hanno riscaldato al petto due dei suoi quattro figli, difendendoli dal freddo. In un mondo che ti toglie tutto4, i ricordi, simbolo del passato, i sogni, simbolo del futuro, i sentimenti –l’espressione più astratta del presente –, si regala persino la vita. Il pianista Stepan, gravemente malato, sa che per Gulja – dato per morto nei documenti ufficiali – è l’unica speranza di uscire dal lager e allora gli offre le sue carte da amnistiato: “«Voglio che tu te ne vada al posto mio…»disse Stepan, calmo(…) Guarda le mie mani. Hanno preso la forma del piccone, sembrano grinfie di uccello. Non sarebbero più in grado di suonare il pianoforte. Non in questa vita…La loro maledetta grazia è arrivata troppo tardi per me. (…) Prendi i miei documenti. Se ti tagli i capelli, è fatta. Del resto, qui dentro ci somigliamo tutti, dopo un po’.” (pp.141-142).

Il dono obbligo

Abbiamo visto fino’ora in che circostanze il dono può costruire legami, riparare, proteggere, salvare dagli effetti della dura detenzione. Questo è l’aspetto utilitario del dono nel libro di Ingrid Coman. Ma la sua esasperazione può arrivare a mettere in moto un processo opposto, quello del dono imposto dalla paura. Ivan, che aveva rubato la marchorka (un tipo di tabacco) e le calze di lana a Kolja, appena deceduto, minacciato da Aljosha, divide la refurtiva: “«E…se non ti le do?» «Beh, in cambio di un pasto di kasha calda, credo che potrei andare a fare due chiacchiere con Karpov. E…»” (p.31) Dato che Karpov aveva diritto di vita e di morte su di loro, il “dono” non si lascia attendere: “«Tieni (…) Comunque sei un bastardo», aggiunse, piano, prima di allontanarsi.” Ad Aljosha “non gliene importava nulla. Aveva i piedi al caldo e i geloni forse gli avrebbero dato un po’ di tregua. Solo questo contava. Il resto poteva andarsene al diavolo, compreso il rancore di Ivan.”(p.31) Sempre Aljosha, arrivato alla stazione di Mosca, sfinito, cerca do intimidire la commessa per farsi due pagnotte: “voglio che ti alzi e mi dai due chili di pane –bianco– o giuro su Dio che ti apro in due quella tua faccia pelosa, dovessi anche tornare in galera stanotte stessa! (…)Lei prese due pagnotte bianche dallo scaffale in fianco, le guardò come se volesse assicurarsi che fossero a posto, poi le adagiò sul banco, davanti a lui, con delicatezza.”(p.147) Non ha alcuna intenzione di farle del male e il suo scatto di ira è provocato solo dall’esasperazione e il profondo senso di ingiustizia nella risposta della donna, che lo accoglie con il un secco”il pane non è per tutti”. Alla fine la donna glieli offrirà gratis alla fine, non per paura delle sue minacce, ma per compassione, appena viene a sapere da dove arriva. Qualche capitolo prima Aljosha aveva regalato il suo, di pane, all’amico Gulja, e nel lager un pezzo di pane è davvero prezioso e a volte averlo o non averlo può fare la differenza tra la vita e la morte: “«Grazie (…)Per il pane. So quant’è difficile rinunciarci. Ti sono debitore…» «Non c’è problema. L’avevo rubato a Semionov…Per una volta questo non era vero. Era sua razione che aveva diviso con Gulja. Ma aveva ceduto a un impulso di compassione ed era meglio non farlo sapere troppo in giro. E poi, odiava essere ringraziato.»” (p.49). Aljosha non vuole essere ringraziato, lui stesso sorpreso e quasi imbarazzato dal proprio gesto di generosità. ‘Che la mano sinistra non sappia ciò che fa la destra’, dice il precetto evangelico. Il dono segreto, il dono silenzioso è, in fondo, il dono perfetto, quel dono originario che è la fonte del nostro stesso bisogno di dare e di cui tutti i doni, quando sono sinceri, ne custodiscono la memoria, perpetuandone il gesto nel tempo.

Nel suo Saggio sul dono (1924), Marcel Mauss intuisce nel dono, al di fuori di ogni retorica della generosità, l’interesse del donatore, il fatto che ogni dono ricevuto vincola il ricevente, obbligandolo alla reciprocità. Nel libro di Ingrid, un interesse del donatore è escluso. Il libro fa l’apologia de la povertà (la penìa) e del dono altruista, che manifesta effettivamente cura nei confronti dell’altro. Il dono altruista è, come suggerisce il filosofo francese Jacques Derrida nel saggio Donare il tempo, un evento assolutamente gratuito, incondizionato e unilaterale: Stepan regala la libertà a Gulja senza aspettare qualcosa in cambio, la commessa della stazione offre gratis il pane a Aljosha: “Quanto costa? Chiese Aljosha, colto di sorpresa da quella improvvisa gentilezza.Va bene così, compagno. Tanto, me ne avanzano due…” (p.147). Il dono qui non rivela quella duplicità che in alcune lingue è ancora conservata, e che associa all’idea di dono (l’inglese ‘gift’) quella di veleno (il tedesco ‘Gift’). Qui si tratta sempre di una conseguenza positiva per quello che riceve, magari esiste la coscienza di un “avvelenamento”, di un’autodistruzione da parte del donatore. Alla domanda di Gulja “E tu? Che farai?”, Stepan risponde: “Mi seppelliranno, ci metteranno una lapide bianca, e magari qualcuno si ricorderà il mio nome e ce lo scriverà sopra. Fine della storia. E se non lo ricorderà, beh, fa lo stesso. Tanto non ci sarà nessuno a piangerlo.” (p.142) Il dono porta sempre con sé qualcosa del donatore. Questo è l’unico profitto citato nel libro, l’unico compenso: “Sentirai ancora la mia musica. Ne sono sicuro…” (il pianista Gulja – p.142) La rinuncia alla libertà e la rinuncia alla vita, che accompagnano anche la parabola finale dell’esistenza di Socrate sono il seguito stilistico di una vita improntata sul registro del disinteresse e della dedizione.

Nel caso di Socrate, le accuse, di non venerare gli dèi della città e di corrompere l’educazione dei giovani – lo sappiamo – verranno accolte (le accuse non possono “avere successo”) e questo processo si concluderà con una condanna. Per quanto riguarda l’eroe di Tè al Samovar, il finale è quello prevedibile, ma la musica di Stepan nelle orecchie di Gulja, conferma il senso della sua rinuncia alla vita: “La senti anche tu Alja? Sentire cosa? La musica. Aljosha si guardò intorno. L’unica “musica” che si poteva distinguere era il traballare del treno sulle rotaie (…) Ma di che parli, Gulja? La musica di Stepan, disse piano, gli occhi lucidi e il corpo in tensione come se stesse per scattare incontro a qualcuno. «Se n’è andato» aggiunse, piano, muovendo le dita nel vuoto, come per accarezzare una mano invisibile.” (pp.143-144)

Nell’opera di Ingrid, il dono è, dunque, un atto disinteressato, che non si sottopone al registro dell’avere e del possesso. Il testimone della verità di Socrate è la sua povertà (penìa), così come, di qui a poco, testimone di verità sarà la sua capacità di rimanere nel carcere e di rispettare le leggi, per quanto ingiuste.

Il dono di sé

Le cose regalate non sono mai completamente staccate dal loro donatore. Come se lo sapessero, i compagni di cella regalano ciascuno qualcosa al primo amnistiato (Semjonov): “tutti fecero a gara a regalargli qualcosa: chi una pipa consumata, chi un pezzo di pane, un biscottino, una sigaretta (…) Pareva sperassero che, mandando un oggetto personale nel mondo fuori, un giorno l’avrebbero seguito anche loro, trascinati via dalla forza della libertà.” (p.124)

Parlando dell’atto di donare, non dobbiamo omettere la coppia Vera Nureev – Aljosha; durante il loro primo incontro, il semplice ma tenero gesto della donna di prendergli la mano simboleggia cura e compassione, un autentico ‘dono d’amore’: “gli porse la mano, senza parlare, e la lasciò nella sua per qualche secondo di più, quasi che volesse concentrare in quel gesto ciò che non riusciva a dirgli a voce.” (p.150) Nei sacrifici successivi di Vera (che sceglie di dedicarsi ad un Aljosha sofferente) il meccanismo del “dono di sé” rivela la sua implicazione con l’avere e con l’utile, con la speranza di ottenere secondo il circuito del dono-controdono ben esposto da Mauss nel suo Saggio sul dono (“la reciprocità di un controdono”).

Dono di sé è interruzione dell’interesse e della sua infinita coazione, è il prendersi cura dell’altro che nel dono si manifesta. Con l’apparizione di Aljosha nella sua vita, Vera si riscopre, trova dentro di sé dei valori a cui il primo marito, Serjozha, non ha mai lasciato spazio: la generosità e la spontaneità donatrice.

Il mantello/la giubba

Non a caso, una delle ultime immagini del romanzo (cap. XLVIII) é quella di Aljosha “a confronto” con la sua giubba: “Con i primi soldi si era comprato un capotto vero, ma non aveva il cuore di separarsi dalla sua giubba. Ogni tanto le dava una spolverata e le lisciava il collo, per poi rimetterla al suo posto, con cura maniacale, come se avesse paura di sciuparla. Gli aveva fatto compagnia per tanto tempo, lo aveva riparato per anni dal freddo della Kolyma. E ora che non gli serviva più, la sua sagoma scura davanti all’entrata lo rassicurava.” (p.162) Il mantello (emblema classico del dono, pensate a Martino di Tours, alla spoliazione di Francesco, ad una fortunata tradizione dell’iconografia del dono, ecc.) copre, protegge, tiene caldo, “rassicura”. Nel freddo del campo di lavoro forzato, il mantello è utile, è discreto, al limite nasconde e tiene segreto chi ricopre e ciò che egli porta con sé. Nel romanzo di Ingrid Coman forse il mantello è quel dono segreto, anonimo, invisibile, quel dono incondizionato, quel dono senza regole né legge che Derrida contrapponeva alle leggi del dono enunciate dal Saggio sul dono di Mauss? Una risposta può darla la scena nella quale Volodja, lo scultore Briansk (p.39), “si offrì persino di scambiare la sua giubba, un po’ più integra, con quella logora e sporca di Semjonov.” (p.124) Questo dono, insomma, non è nient’altro che un sacrificio mascherato.

Clemente Alessandrino scrive che, a sinistra del santuario sta l’uomo che attende restituzione, a destra Dio porrà quelli che non si aspettano reciprocità (Stromata IV,6). Il vero dono è un atto di coraggio, una forma di innocenza in cui non dobbiamo mai dimenticare le caratteristiche della rinuncia, della sottrazione, del ‘meno’. Come nel ‘per-dono’ rinuncio alla vendetta, così nel ‘dono’ rinuncio al possesso e alla simmetria dello scambio. Nel dono è evidente che, rimanendo nel registro dell’avere, il ‘donatore’ ha ‘qualcosa di meno’, mentre il ‘beneficiario’ ha ‘qualcosa di più’. La magia del dono sta nel trasformare questo ‘meno’ e questo ‘più’, in un doppio ‘più’ del registro dell’essere. Per questo il vero dono non è l’inizio di un processo, di un’illimitata catena di doni e controdoni. Al dono grazioso non corrisponde il dono futuro, il ricambio del controdono, ma la gratitudine presente che lascia il dono in quanto tale. Nel dono, in ogni dono, ciascuno dei due (perché il dono è sempre duale) è insieme beneficiario e donatore, ciascuno dirà ‘grazie’ all’altro. Propriamente non ci sono più un donatore e un beneficiario, ma due donatori, così come – sottolineava J. Derrida nel saggio Sull’ospitalità – nell’ospitalità non c’è più un ospitante e un ospitato, bensì due ‘ospiti’, come, del resto, i significanti di molte lingue consentono. Prudhon diceva che ‘il dono è il nec plus ultra del possesso’. Se si dona solo ciò che si ha, si può donare tutto senza mai donare ciò che si è. È in questo senso che possiamo interpretare il gioco etimologico per cui il nome greco del dono, ossia ‘dòsis’, significa sia ‘dono’ che ‘porzione’, ‘parte’. Il dono, nell’ordine delle cose che si posseggono, è sempre il dono di una parte, di un’esteriorità. E, in quanto quella ‘parte’ chiede il contraccambio di un’altra ‘parte’, è sempre un dono avvelenato, un dono che unendo divide, frammenta, separa, umilia, sacrifica. Infatti, io non posseggo mai ciò che io sono. Si potrebbe dire che il dono di sé, quello che Vera sceglie nel rapporto con il suo “padrone di casa”, Aljosha, o quello che Socrate offre alla città, è come la ‘causa sui’ che è, allo stesso tempo, effetto e causa. Il dono si dona lui stesso e nel dono non c’è più proprietà. Il dono di sé di ciascuno è incommensurabile, è un assoluto plurale. Nel dono, si diceva, generosità e gratitudine sono due forme del medesimo atto gratuito.

Il lager è l’ambiente propizio per la natura ambivalente del dono; a Kolyma, il dono si manifesta come atto sia di unione che di separazione tra i detenuti. Il “donare” che ci insegna Tè al Samovar non è quel donare equivalente alla ‘cifra della sovrabbondanza’. Qui il donare non dipende da un surplus di vitalità anonima, indifferente, impersonale, come nella concezione dell”Uno’ di Plotino che dà perché non può non dare, producendo un continuo eccesso. Qui assistiamo alla generosità come ‘cifra della rinuncia’, quella generosità di cui le sofferenze della gente chiusa nel lager, le lacrime di quelli che li aspettano a casa, o la povertà di Socrate, esibita agli ateniesi sulla scena del processo, sono testimonianze. La generosità ‘come cifra della rinuncia’ è l’atto d’amore che cambia noi stessi prima di cambiare gli altri. Se la generosità come sovrabbondanza sommerge gli altri con l’immensa marea di cose che possediamo e, anche se donate, continuiamo a possedere e a produrre secondo abitudine, la generosità come rinuncia consiste, nella sua essenza, nella capacità di fermarsi e di fare spazio agli altri, nell’accettare di sentirci limitati e finiti. La generosità come povertà e rinuncia è, quindi, individuale, differente, personale. Detto altrimenti, il dono non è la cosa donata, ma è il donatore. Circondati da filo spinato, i sei eroi di Tè al Samovar prendono atto di doni il cui significato non avrebbero capito fuori da lì: le disponibilità narrative, la mise en scene (Volodja –p.36– intrattiene i compagni facendo delle pipe e Gulja gli stupisce con finte sedute spiritiche –p.76), il controllo di sé o la mancanza di un certo controllo (Serghei finisce ucciso dopo aver provato di evadere dal lager; Aljosha mantiene la calma quando vede Gulja agonizzante, e salva dalla morte l’amico che aveva deciso di tagliarsi le vene). Buttati nell’inferno, tutti questi doni, diventano il loro ‘stile di vita’, quella ‘cura dell’anima’, quella padronanza dell’essere rispetto all’illimitatezza dell’avere, che interrompe la catena rettilinea del chiedere e dell’ottenere, che li avrebbe rovinati, in quelle condizioni di “crisi”.

Il comunismo “finzionalizzato”

Ingrid Coman ci propone anche un libro che fa l’apologia della memoria: “la memoria è l’unico modo che abbiamo per far passare la luce là dove il buio ci ha accompagnato per lungo tempo. Se non dimentichiamo, se non ci nascondiamo dietro le nostre paure e le nostre ipocrisie, forse un giorno ci rimetteremo in pace con il nostro passato e finalmente troveremo la strada verso casa.” (pp.170-171) Infatti, Monica Joiţa, Direttrice ad interim dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, sottolineava nella sua prefazione al libro: “La memoria della sofferenza fisica, delle umiliazioni e delle privazioni di ogni sorta non riesce ad annullare in nessuno dei sei protagonisti del romanzo di Ingrid Coman lo spazio dell’intimità, della libertà interiore, del vissuto personale.” (p.9) Con Tè al Samovar, Ingrid Coman riaferma le sue qualità di prosatore-artista, inventore di fantasmi tramite gli occhi della Grande Storia. Un romanzo sostanziale e maturo, con filone di saga realista-magica sul comunismo russo. Con altre parole, è un comunismo “finzionalizzato” che viene si sta rinforzando, dopo che per anni è andato di moda il comunismo non-finzionale: Romania sotto il regime comunista (dicembre 1947-dicembre 1989), libro pubblicato in inglese in 1997 – Dennis Deletant, Il libro nero del comunismo (Parigi, 1997) Stéphane Courtois, Il post-comunismo (2004) – Leslie Holmes, Alla ricerca del comunismo perduto (2001), Ion Manolescu, Paul Cernat, Angelo Mitchievici, Ioan Stanomir, Ricerche nel comunismo romeno (2004, 2005, 2008) – Ion Manolescu, Paul Cernat, Angelo Mitchievici, Ioan Stanomir, L’illusione dell’anti- comunismo. Letture critiche del Rapporto Tismăneanu (2008) – coordinatori: Vasile Ernu, Costi Rogozanu, Ciprian Şiulea ed Ovidiu Ţichindeleanu, Una storia del comunismo in Romania (2008) – Autori: Mihai Stamatescu, Raluca Grosescu, Dorin Dobrincu, Andrei Muraru, Liviu Pleşa, Sorin Andreescu.

Una prosa poetica

Ingrid porta nella prosa l’esaltazione lirica. Le sue opere sono impregnate dal lirismo, dalla liricità. Tè al Samovar è un’incantevole finzione sul destino umano “scritto” nei lager. La “farfalla” che aveva fatto carriera nella trilogia dello scrittore romeno Mircea Cărtărescu, ha la stessa simbolistica nel romanzo di Ingrid Coman. La farfalla è la più grande metafora del destino dell’uomo: alcuni sostengono che l’idea di spirito sia nata dalla farfalla5: “La tua mente è paralizzata dalla paura, come un uccello in una voliera troppo piccola. Qualcosa nei tuoi polmoni si dibatte per uscire, mille farfalle nel petto, e tu smetti di respirare.”(p.85).

La poesia della sua prosa, il sapore della sua scrittura – e non una letteratura cosidetta dissidente – questa è il contributo della sua opera nel panorama della prosa romena.

Con la partenza di Ingrid dalla Romania, il nostro paese ha perso un grande scrittore o forse ne ha guadagnato uno!

PS: Questo è un libro angosciante, ma non tragico; elementi biografici e finzione si fondono nella ricerca spasmodica del proprio passato. Questa Scrittura così immaginifica seppure intima ti sollecita per una seconda lettura. Prima lettura di questo libro mi ha resa in uno stato d’animo di trance. Mi scuso con l’autrice per non aver dato del mio meglio, essendo assorbita, quasi risucchiata dalla sua scrittura limpida e affascinante. Prometto di aggiungere delle cose dopo una seconda lettura e ci vuole al meno una seconda lettura! Ne vale la pena!

1 Samovar; in it. s.m. inv. Grande teiera metallica con fornello ad alcol incorporato, usata in Russia e nell’Europa orientale per bollire l’acqua per il tè o mantenerla bollente

2 G. Berthoud, «Le marché comme simulacre du don», cit., p. 90.

3 M. Mauss, «Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaiques» (1923-24), in Id. Sociologie et anthropologie, PUF, Paris, nuova ed. 1985, pp. 145-279 (trad. it. «Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche», in C. Lévi-Strauss (a cura), Teoria generale della magia e altri saggi, ed. Einaudi, Torino, 1965), p.183

4 lo dice Aljosha: “Fanculo i ricordi, Gulja!(…)Sono i tuoi peggiori nemici. Fanculo i sogni. Non è vero che ti tengono in vita. Ti danno solo la misura della tua impotenza. Ti stordiscono, si prendono gioco di te, e alla fine ti ritrovi come un bambino che viene preso per mano per poi essere abbandonato in mezzo alla folla frettolosa e indifferente.Fanculo i sentimenti. (…)Dopo un po’ anche i sentimenti si fanno rarefatti, come l’aria della steppa.” (p.127)

5 “Siamo tutti dei bruchi che strisciano, poi ci chiudiamo nella crisalide della nostra tomba da cui speriamo di uscire sotto forma di farfalla. Questa è la ragione per cui i greci non identificano lo spirito con la colomba ma con la farfalla. Psiche, l’anima, aveva come propria rappresentazione una farfalla.”(Mircea Cărtărescu nell’intervista per Strada Nove, 28-11-2007)

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