Centro Culturale Italo Romeno
Milano

Cristina Lefter – l’aventura di una vita per l’arte

Feb 4, 2009

di Vera AGOSTI

L’opera

Dopo un primo esordio con l’introspezione dell’acquerello e lo studio analitico di tutte le tecniche artistiche, compresa la realizzazione delle icone di natura bizantina, l’artista si lascia conquistare dalla vivacità dell’olio e dell’acrilico. Tinte forti e sgargianti incantano sugli sfondi chiari o scuri, spesso monocromi per suggellare la forma nello spazio. La Lefter domina un dripping di derivazione pollockiana, in cui non vuole esprimere la violenza e la forza del gesto, alla maniera del grande autore americano, ma anzi regala calcolati e studiati effetti visivi, che creano armonia e donano vitalità alla composizione.

Paradossalmente siamo di fronte a una sorta di espressionismo lirico, dove alla forza del cromatismo si sposa la misura e il rigore poetico. La poesia affiora anche dai soggetti trattati, leggiadre fanciulle di altri tempi, che sorridono nascoste dai folti capelli o da delicati cappellini alla moda.

Le tele possiedono uno stile unico e inconfondibile che identifica facilmente la mano precisa e raffinata dell’artista. Questo tratto originale e inequivocabile, tuttavia, soprattutto in alcune opere, non disdegna di ricordare palesemente i capolavori di grandi autori del passato, come un omaggio gentile da parte della pittrice, che paga il proprio tributo alla storia dell’arte.

Pensiamo ad esempio a certe dame ieratiche e monumentali, che guardano l’osservatore con occhi distaccati ed enigmatici, come in La Prima Vera Dea (2008) o Les Artistes Damnées (2008). Ricordano le donne di Gustav Klimt (1862-1918), intrise di sensualità e simbolismo. Anche i colori brillanti con la preziosità e la sacralità dell’oro richiamano la Secessione Viennese.

L’autore più amato in assoluto da Cristina è Egon Schiele (1890-1918), che scopre solo in Italia, forse perché in Romania era considerato un autore deviato e deviante dalla cultura di regime rumena. Di Schiele riprende il contorno nero, sinuoso e nevrotico, a sua volta retaggio dell’influenza delle stampe giapponesi, che definisce nudi femminili, dotati di incredibile sensualità, totalmente opposti alla classicità dei nudi accademici.

Questo fascino erotico è presente anche nelle donne della Lefter e le sue bellezze senza veli sono un’esaltazione della fisicità e della fertilità, un inno alla gioia e alla passione. In questo sta l’intima differenza rispetto al grande maestro austriaco, perché Cristina non dipinge il male fisico e interiore, ma piuttosto la bellezza e la poesia.

Nelle tele della Lefter, la natura non è mai viva: non nasce, non cresce e non muore, ma è sempre cristallizzata in un’eterna bellezza, fatta di fertilità e perfezione.

A volte i suoi fiori si caricano di significati simbolici, sempre accostati alle donne, ornamento costante del loro fascino, che arricchisce le chiome, i cappelli o le vesti. Sembrano ricordare la vanitas dell’antichità, per cui la caducità della vegetazione rammenta alla ragazza che anche la sua avvenenza sparirà presto con l’avanzare dell’età. Infatti, queste giovani fanciulle in fiore di proustiana memoria ci sorridono dolcemente, ma i loro occhi sono velati da un filo di malinconia, come assorte in chissà quali pensieri, come nascondessero un intimo personale dolore. La natura, quando non è simbolica, diventa scenografica, fresca coreografia di paesaggi agresti o intrico lussureggiante di boschi e alberi rigogliosi dai colori sublimati, come in Sottobosco I (2006).

E’ un paesaggio interiore, che non esiste nella realtà naturale, ma rappresenta le emozioni e le visioni dell’artista.

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